martedì 11 dicembre 2012

Garantire il garante?

Postiamo una lettera aperta ricevuta da un tarantino
Concittadini, 
Credo che quel che si sia verificato nel corso dei mesi in città, relativamente alle vicende del siderurgico, meriti una riflessione approfondita sulla questione e le scelte che ci si pongono di fronte. Molto di quel che davvero determina la realtà delle cose, a mio parere, è rimasto inespresso.
E non consente chiarezza nell’oggi e nel domani.
Provo qui a riassumere quel che so, chiedendo scusa per eventuali imprecisioni, difficilmente evitabili in questioni così complesse, allo scopo precipuo di avanzare una proposta concreta alla cittadinanza, come ai suoi, spesso inerti, rappresentanti.
Sorvoliamo su quello che le intercettazioni hanno definitivamente acclarato, di là di ogni conseguenza penale che la magistratura voglia a esse correlare. Più importante della sanzione penale, infatti, è la sanzione sociale, volta a stigmatizzare comportamenti civilmente e moralmente dannosi, anche laddove non integrino specifiche fattispecie di reato. Definiamo questi ultimi, nell’insieme, una rete di relazioni determinate dai reciproci vantaggi, no necessariamente rilevanti penalmente, ma che certo ben poco avevano a che fare con la rappresentanza politica degli elettori, la responsabilità dell’informazione professionale, la trasparenza della tecnica, la corretta distanza tra controllati e controllanti.
Siamo liberi di ritenere, pertanto, che detta rete abbia condizionato e alterato la percezione della realtà nei tarantini e abbia contribuito in maniera decisiva al cronicizzarsi di mali che ci conducono oggi in questo cul de sac. Siamo anche liberi di ritenerci non sufficientemente garantiti dai nostri parlamentari, sindaci, presidenti, sindacalisti, giornalisti. 
Non soffermiamoci oltre sul palese contrasto fra il dettato costituzionale e le norme del decreto, che capovolge le scelte di valore dettate nell’articolo 41 della carta. Cosi come sull’inopportunità di accavallare le attribuzioni del potere legislativo e della funzione giudiziaria in materia penale. 
Ma di ciò si occuperà, quasi certamente, l’alta corte. E non vorrei essere nei suoi panni.
Entro invece nel merito, per quanto mi riesca, del perché si è giunti sin qui, del cosa accade ora, del cosa potrà accadere a breve, in base al decreto e alle scelte dell’azienda, rimessa in possesso dello stabilimento.

Punto primo
Gli stabilimenti ILVA, ex Italsider, a detta dei tecnici ARPA e dei molti ingegneri da me consultati, sono essenzialmente obsoleti e risentono in larghissima parte delle concezioni industriali del tempo in cui furono immaginati. Figuriamoci che la punta di diamante tecnologica, per quel che riguarda gli altiforni, viene dai ruggenti anni ’80. Non a caso gli anni del benessere (e del malessere criminale) di Taranto. Ma questo è altro discorso e qui non si può fare.
Nel mentre che la tecnologia siderurgica tarantina si sedeva per sempre, anche sopprimendo negli anni ’90 il suo dipartimento ricerche, ciò non avveniva altrove. Notevoli sviluppi nel risparmio energetico e nella compatibilità ambientale delle produzioni acciaiere si sono infatti realizzati in altri contesti, dalla Germania alla Corea. Come tempo fa scriveva Tana de Zulueta, su “Il fatto quotidiano”: “Fare dipendere dallo stabilimento vetusto di Taranto l’intera filiera della metal meccanica italiana è la prova che di politica industriale in Italia ce n’è stata ben poca negli ultimi anni”. Come darle torto … ma procediamo.
Si può ipotizzare, pertanto, che parte consistente della competitività rimasta al mega stabilimento ILVA derivasse dalle economie di scala nella produzione e commercializzazione. Dovute senza dubbio alla grande quantità di prodotto semilavorato ma anche al ciclo continuo, con materia prima polverizzata (la più economica ma anche la più dannosa per l’ambiente). Come alla possibilità, unica al mondo, di stoccare i minerali in un parco all’aperto di ottanta ettari. Come ai consistenti tagli dei costi determinati dal mancato rispetto delle norme ambientali, dai filtri alle ciminiere allo smaltimento in ambigue “cave” degli scarti di lavorazione, assai venefici. Costi che altre industrie europee del settore erano costrette via via a sopportare, mano a mano che ci si allontanava dagli anni ‘60.
Non ci vuole Ricardo per capire come 80 ettari di potenziale deposito consentissero e consentono di acquistare ingentissime riserve di materie prime al prezzo più basso di mercato, calcolato su anni ed anni, per rivendere poi il prodotto, stoccato nelle grandissime superfici libere che si trovano nel perimetro stesso dell’enorme stabilimento, al prezzo più alto.
Potremmo chiamarlo, come alcuni fanno, dumping ambientale. Ovvero lo scaricare una parte dei costi della lavorazione sul territorio: i risultati sono la notevole presenza di diossina, benzo(a)pirene e di altri inquinanti maggiori, nel suolo, nell’aria, nelle acque e infine nel ciclo alimentare. Potremmo parlare anche degli antiquati impianti di desalinizzazione e così via, ma non ho sufficienti competenze, né sarebbe questa la sede. Quel che mi preme sottolineare è come queste metodologie di produzione, altamente inquinanti, siano una componente essenziale nel determinare il prezzo finale dei prodotti ILVA e la competitività sul mercato. Anche grazie a ciò, ad esempio, negli ultimi 4 anni di gestione ILVA ha prodotto utili per 2 miliardi e mezzo di euro. Con una media di circa 600 milioni annui, cifra certamente non spalmabile né su tutto il passato, né soprattutto sul futuro (e vedremo perché), ma comunque valida come riferimento approssimativo. Questo ci dice Gianni Dragoni, nel suo recente libro inchiesta “ILVA, il padrone delle ferriere”. Aggiungendo che l’intero Gruppo Riva, con ben 38 stabilimenti, genera un fatturato annuo di 8,5 miliardi di euro.
Dovremmo ipotizzare che l’azienda si privi di tali pericolosissimi vantaggi quasi da subito. Ricercando nelle migliorie, da realizzarsi nel corso dei prossimi 3 anni, nuovi mezzi per essere competitiva. Ma nel frattempo non essendolo più. E nello stesso tempo, ovviamente, continuando a inquinare.
Punto secondo
Il ministro Clini (ex dirigente generale dell’ambiente ai tempi della precedente, discutibilissima AIA), un’opinione fondata sul quale richiederebbe troppo tempo e ci porterebbe troppo lontani nei mari perigliosi della geopolitica, ha sostenuto più e più volte che sia stata la magistratura, col suo inopportuno sequestro ai danni di un’impresa finalmente pronta a intervenire, a impedire l’applicazione dei protocolli dell’AIA, poiché le sottraeva la libera disponibilità dei beni e soprattutto gli utili necessari per coprirne i costi.
Per inciso, se è per questo egli ha da sempre sostenuto che Taranto non fosse così a rischio. Certo meno di Lecce …  salvo dichiarare poi che non ci avrebbe mai vissuto e, più di recente, che emergenza ci fosse eccome. Fino alla proposta dell’evacuazione del quartiere Tamburi. Dove sarà la verità? Misteri… Nel frattempo pare tuttora convinto non si possa stoppare tecnicamente l’attività degli altiforni, pena la cessazione definitiva dell’attività. E’ invece vero il contrario: gli altiforni possano essere spenti e riaccesi, a detta anche di ingegneri del politecnico di Torino, nel giro di pochi mesi. Cosa avvenuta già in passato e facente parte del ciclo vitale degli stessi. Si potrebbe forse davvero evitare un conflitto senza precedenti, interno al sistema politico e legale italiano. Certo affrontando mesi di spese straordinarie, ma non valgono almeno questo le vite e la salute dei bambini, così spesso ricordate dal primario Patrizio Mazza?
Ma andiamo oltre.
Proviamo ad accettare il punto di vista del ministro (e del governo) per capire quanto vi sia di plausibile in ciò. Partiamo perciò dalle risorse necessarie al risanamento, per ottenere le quali ci sarebbe da tenere in funzione ILVA a tutti i costi. Di capitali già accantonati dall’azienda, nelle sue varie componenti, pare che non vi sia traccia. Qualche domanda potremmo farla a Fabio Riva, figlio minore del patron Emilio, vicepresidente di RIVA FIRE, società  capogruppo. Ma egli è non a caso in Inghilterra. Diciamo che al momento, quindi, la cassa attingibile è vuota.
Gli ammodernamenti previsti dalla nuova AIA, secondo lo stesso ministro ammontano a «Dieci miliardi se si calcolano soltanto i costi, ma molto di meno se si considerano anche i vantaggi». Non ce ne vorrà se adesso ci concentriamo più sui costi … pertanto, se moltiplicassimo i 600 milioni di euro di utili annui di media, essi equivarrebbero a più di 15 anni di attività, quasi a 20.
Grazie al cielo, il decreto non vale per sempre. Parliamo di un massimo di tre anni … dovremmo immaginare che la famiglia RIVA (detenuta in blocco), il direttore Buffo ed il presidente Ferrante (sul quale, come ha intuito Rizzo sul Corriere della Sera, ci sarebbe assai da dire), ambedue indagati, abbiano la volontà oggi di fare, tutto in una volta, quel che mai vollero fare in decenni di libertà e tranquillità?
Ovvero che siano disposti ad impiegare immediatamente i lucri prevedibili di quasi venti anni di attività futura di ILVA, oppure, se volete, quasi un anno e mezzo dell’intero fatturato (non degli utili) del Gruppo Riva con tutti i suoi 26.000 dipendenti, per realizzare quel che l’AIA impone?
Vi pare plausibile? Da dove potrebbero provenire tali disponibilità, immediatamente attingibili? La Fiom se lo chiede da un po’, proviamoci anche noi.
Una risposta sarebbe: dalle banche, grandi banche. Forse... non fosse che il mercato dell’acciaio in tutto il mondo è in fortissima contrazione. Specialmente esso vive una fase di concorrenza feroce in Europa, stante la drastica riduzione dei cantieri per infrastrutture, per l’edilizia, e il crollo della produzione di auto ed elettrodomestici nel continente: in questi mesi, infatti, assistiamo alla chiusura di molti stabilimenti, dalla Spagna alla Polonia.
E almeno tre in Italia, la Lucchini di Piombino, La Thyssen di Terni, La Beltrame di Marghera. E non per problemi ambientali, si badi bene: per carenza assoluta di ordinativi. Del resto la stessa ILVA, nei giorni scorsi, ha tentato di accedere alla cassa integrazione per migliaia di operai, giustificandosi con il brusco calo del mercato.
Questo calo, almeno in Europa, è noto essere di lungo periodo. Quei 600 milioni non sarebbero pertanto più media annua possibile di utili a venire. Il periodo di attività per ammortare la spesa di ammodernamento salirebbe quindi forse a 25 anni, forse più.
Capirete da soli che per un privato, come per la banca finanziatrice, il rischio è tanto, l’utile poco. Conviene a questo punto aprire fabbriche ex novo, delle dimensioni giuste e con le tecnologie giuste nei luoghi giusti, piuttosto che accanirsi su di una fabbrica obsoleta e male allocata. Diciamo che i paesi in via di sviluppo hanno certamente il mercato e spesso le materie prime, nonché manodopera a basso costo e una sensibilità ambientale simile alla nostra negli anni ’50... Chi conosce i passi attuali dei Riva sa bene che non saremo noi a insegnargli il mestiere. E a guardare in India. O in Brasile, da cui viene il nostro attuale Vescovo, tanto per dire.
E’ evidente che risulta destituita di ogni fondamento l’accusa del ministro per cui fosse il sequestro a bloccare la bonifica interna imminente. Di imminente non c’è nulla: anche volessero e non credo proprio, i Riva al momento dovrebbero reperire, da carcerati, cordate di banche pronte a scommettere tanti dei loro soldini su più di venti anni di futuro incerto … cosa assai ardua. Ma curiosamente il decreto si occupa di risorse solo per stipendiare il garante. Figura di cui mi occuperò alla fine, perché ci riguarda da molto vicino.
Punto terzo
Per di più, la procura continua a tenere sotto sequestro la produzione sino a data del decreto, poiché esso non è ovviamente retroattivo. I suoi stoccaggi sono pieni e non possono essere svuotati. Decine di navi sono alla fonda, con danni per milioni di euro.
Aggiungiamoci lo sciopero dei gruisti, di cui parla Sofri, i quali non vogliono tornare a lavorare al porto nelle condizioni pre tornado … fatto sta che la situazione patrimoniale dell’azienda non pare messa al meglio, almeno ai fini di tale immensa opera di ambientalizzazione e ammodernamento. Potremmo però dire: il denaro mancante lo metta lo Stato. Bene, concorrenza sleale. In Europa altri produttori ne sarebbero svantaggiati. Non si può. Per legge.
Punto quarto.
Infine, il decreto è appunto un decreto. Ha 60 giorni per essere convertito in legge dal Parlamento. Che non potrà assumersi a cuor leggero una scelta così ambigua e impopolare, così prossima alla tornata delle politiche 2013. Nel frattempo il governo è praticamente caduto, in virtù degli scontri fratricidi tra le forze in campo. Nel caso non impossibile non dovesse divenir legge, tutto tornerebbe al quo ante. Ciò, come non vi fosse mai stato. Immaginate il caos …
Punto quinto
Quel che emerge da questa breve disamina è che la situazione è tutt’altro che incanalata su binari certi. Come un governo morente ha tutto l’interesse a farci credere. E la proprietà. E le forze politiche. E i sindacati.
Tutti loro, facendo io qui l’avvocato del diavolo, potrebbero provare semplicemente a guadagnar tempo, a defilarsi, a mettere per l’ennesima volta tutto a posto sulla carta, affidando la dura realtà al destino e a futuri governi. Mentre nel frattempo sono avocati a lor medesimi e all’azienda tutte le scelte e i controlli.
Chi ha l’interesse contrario, invece? I tarantini e basta. Lavoratori ILVA e non. Noi, insomma, che portiamo il peso delle conseguenze sanitarie, ambientali, sociali che gravano sul nostro futuro. Noi che scopriamo oggi di essere custodi di fette enormi del PIL nazionale, mentre sino a ieri eravamo solo bassa provincia.
Un noi che vorremmo potesse includere automaticamente le istituzioni e le rappresentanze … ma non è questa la realtà.
Bene, se quel che sinora ho provato con le mie modeste forze a raccontare è vero, che fare allora nel frattempo che forze sovra ordinate, forse ogni oltre immaginazione, decidano della costituzionalità, del reperimento delle risorse, delle scelte industriali italiane ed europee?
La proposta che qui avanzo è la seguente: 
al di là che il decreto pare effettivamente un vulnus al nostro sistema di diritto, già alquanto sbilenco, quindi che ci si debba augurarne la non ratificazione (come già auspicato persino da ARPA Puglia), esso prevede un garante super partes. Ma costui chi dovrà garantire? Certamente noi, soprattutto. E allora che sia scelto in modo democratico, qui a Taranto. Con consultazione pubblica. Che sia un nostro rappresentante. Eletto, non cooptato dal Presidente della Repubblica o da altri. Perché non vi siano più alibi, né nostri né del “potere”.
Il suo ruolo è così descritto nel testo legislativo: egli è “incaricato di vigilare sull’attuazione delle disposizioni del presente decreto”; si avvale “dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale nell'ambito delle competenze proprie dell'Istituto e sentendo le rappresentanze dei lavoratori acquisisce le informazioni e gli atti ritenuti necessari che l'azienda, le amministrazioni e gli enti interessati devono tempestivamente fornire, segnalando al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro della salute eventuali criticità riscontrate nell'attuazione della predetta autorizzazione e proponendo le idonee misure”. Inclusa l’ “amministrazione straordinaria anche in considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione”.
Poteri non decisivi, ma certo molto rilevanti. Sarebbe magari il caso di sceglierlo tra una rosa di esperti, assolutamente terzi alle vicende. Preferibilmente stranieri. Forse affiancati da locali, eletti anch’essi.
Si dirà che non esiste allo stato attuale una simile soluzione in Italia … bene, sino a pochi giorni fa non esisteva nemmeno il decreto di cui parliamo. 
Spero vogliate concedere spazio alle mie riflessioni e alle mie proposte, non scindibili, che provano a sollevare interesse verso una delle poche mosse ancora a nostra disposizione.
Spero la stampa voglia dare la possibilità alla cittadinanza di aderirvi, aderendovi anch’essa.
Spero che altri aiutino a trovare i modi legittimi e razionali di indire una simile consultazione. Coinvolgendo, o costringendo, la politica locale a farsi portatrice di un’istanza democratica che affidi al territorio una forma di controllo credibile, riscattandosi in parte dagli orrori del passato.
Nel frattempo che la ruota del mondo gira, facendo emergere pian piano la realtà delle cose.
Grazie per l’attenzione.
P.V.

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