Concittadini,
Credo che quel che si sia verificato nel corso dei mesi in
città, relativamente alle vicende del siderurgico, meriti una riflessione approfondita
sulla questione e le scelte che ci si pongono di fronte. Molto di quel che
davvero determina la realtà delle cose, a mio parere, è rimasto inespresso.
E non consente chiarezza nell’oggi e nel domani.
Provo qui a riassumere quel che so, chiedendo scusa per eventuali
imprecisioni, difficilmente evitabili in questioni così complesse, allo scopo precipuo
di avanzare una proposta concreta alla cittadinanza, come ai suoi, spesso
inerti, rappresentanti.
Sorvoliamo su quello che le intercettazioni hanno
definitivamente acclarato, di là di ogni conseguenza penale che la magistratura
voglia a esse correlare. Più importante della sanzione penale, infatti, è la
sanzione sociale, volta a stigmatizzare comportamenti civilmente e moralmente
dannosi, anche laddove non integrino specifiche fattispecie di reato. Definiamo
questi ultimi, nell’insieme, una rete di relazioni determinate dai reciproci
vantaggi, no necessariamente rilevanti penalmente, ma che certo ben poco
avevano a che fare con la rappresentanza politica degli elettori, la
responsabilità dell’informazione professionale, la trasparenza della tecnica,
la corretta distanza tra controllati e controllanti.
Siamo liberi di ritenere, pertanto, che detta rete abbia
condizionato e alterato la percezione della realtà nei tarantini e abbia
contribuito in maniera decisiva al cronicizzarsi di mali che ci conducono oggi
in questo cul de sac. Siamo anche liberi di ritenerci non sufficientemente
garantiti dai nostri parlamentari, sindaci, presidenti, sindacalisti,
giornalisti.
Non soffermiamoci oltre sul palese contrasto fra il dettato
costituzionale e le norme del decreto, che capovolge le scelte di valore
dettate nell’articolo 41 della carta. Cosi come sull’inopportunità di
accavallare le attribuzioni del potere legislativo e della funzione giudiziaria
in materia penale.
Ma di ciò si occuperà, quasi certamente, l’alta corte. E non
vorrei essere nei suoi panni.
Entro invece nel merito, per quanto mi riesca, del perché si
è giunti sin qui, del cosa accade ora, del cosa potrà accadere a breve, in base
al decreto e alle scelte dell’azienda, rimessa in possesso dello stabilimento.
Punto primo.
Gli
stabilimenti ILVA, ex Italsider, a detta dei tecnici ARPA e dei molti ingegneri
da me consultati, sono essenzialmente obsoleti e risentono in larghissima parte
delle concezioni industriali del tempo in cui furono immaginati. Figuriamoci
che la punta di diamante tecnologica, per quel che riguarda gli altiforni,
viene dai ruggenti anni ’80. Non a caso gli anni del benessere (e del malessere
criminale) di Taranto. Ma questo è altro discorso e qui non si può fare.
Nel mentre che la tecnologia siderurgica tarantina si sedeva
per sempre, anche sopprimendo negli anni ’90 il suo dipartimento ricerche, ciò
non avveniva altrove. Notevoli sviluppi nel risparmio energetico e nella
compatibilità ambientale delle produzioni acciaiere si sono infatti realizzati
in altri contesti, dalla Germania alla Corea. Come tempo fa scriveva Tana de
Zulueta, su “Il fatto quotidiano”: “Fare dipendere dallo
stabilimento vetusto di Taranto l’intera filiera della metal meccanica italiana
è la prova che di politica industriale in Italia ce n’è stata ben poca
negli ultimi anni”. Come darle torto … ma procediamo.
Si può ipotizzare, pertanto, che parte consistente della
competitività rimasta al mega stabilimento ILVA derivasse dalle economie di
scala nella produzione e commercializzazione. Dovute senza dubbio alla grande
quantità di prodotto semilavorato ma anche al ciclo continuo, con materia prima
polverizzata (la più economica ma anche la più dannosa per l’ambiente). Come
alla possibilità, unica al mondo, di stoccare i minerali in un parco all’aperto
di ottanta ettari. Come ai consistenti tagli dei costi determinati dal mancato
rispetto delle norme ambientali, dai filtri alle ciminiere allo smaltimento in
ambigue “cave” degli scarti di lavorazione, assai venefici. Costi che altre
industrie europee del settore erano costrette via via a sopportare, mano a mano
che ci si allontanava dagli anni ‘60.
Non ci vuole Ricardo per capire come 80 ettari di potenziale
deposito consentissero e consentono di acquistare ingentissime riserve di
materie prime al prezzo più basso di mercato, calcolato su anni ed anni, per
rivendere poi il prodotto, stoccato nelle grandissime superfici libere che si
trovano nel perimetro stesso dell’enorme stabilimento, al prezzo più alto.
Potremmo chiamarlo, come alcuni fanno, dumping ambientale. Ovvero
lo scaricare una parte dei costi della lavorazione sul territorio: i risultati
sono la notevole presenza di diossina, benzo(a)pirene e di altri inquinanti
maggiori, nel suolo, nell’aria, nelle acque e infine nel ciclo alimentare.
Potremmo parlare anche degli antiquati impianti di desalinizzazione e così via,
ma non ho sufficienti competenze, né sarebbe questa la sede. Quel che mi preme
sottolineare è come queste metodologie di produzione, altamente inquinanti,
siano una componente essenziale nel determinare il prezzo finale dei prodotti
ILVA e la competitività sul mercato. Anche grazie a ciò, ad esempio, negli
ultimi 4 anni di gestione ILVA ha prodotto utili per 2 miliardi e mezzo di
euro. Con una media di circa 600 milioni annui, cifra certamente non spalmabile
né su tutto il passato, né soprattutto sul futuro (e vedremo perché), ma
comunque valida come riferimento approssimativo. Questo ci dice Gianni Dragoni,
nel suo recente libro inchiesta “ILVA, il padrone delle ferriere”. Aggiungendo
che l’intero Gruppo Riva, con ben 38 stabilimenti, genera un fatturato annuo di
8,5 miliardi di euro.
Dovremmo ipotizzare che l’azienda si privi di tali
pericolosissimi vantaggi quasi da subito. Ricercando nelle migliorie, da
realizzarsi nel corso dei prossimi 3 anni, nuovi mezzi per essere competitiva.
Ma nel frattempo non essendolo più. E nello stesso tempo, ovviamente,
continuando a inquinare.
Punto secondo.
Il
ministro Clini (ex dirigente generale dell’ambiente ai tempi della precedente,
discutibilissima AIA), un’opinione fondata sul quale richiederebbe troppo tempo
e ci porterebbe troppo lontani nei mari perigliosi della geopolitica, ha
sostenuto più e più volte che sia stata la magistratura, col suo inopportuno
sequestro ai danni di un’impresa finalmente pronta a intervenire, a impedire l’applicazione
dei protocolli dell’AIA, poiché le sottraeva la libera disponibilità dei beni e
soprattutto gli utili necessari per coprirne i costi.
Per inciso, se è per questo egli ha da sempre sostenuto che
Taranto non fosse così a rischio. Certo meno di Lecce … salvo dichiarare poi che non ci avrebbe mai
vissuto e, più di recente, che emergenza ci fosse eccome. Fino alla proposta
dell’evacuazione del quartiere Tamburi. Dove sarà la verità? Misteri… Nel
frattempo pare tuttora convinto non si possa stoppare tecnicamente l’attività
degli altiforni, pena la cessazione definitiva dell’attività. E’ invece vero il
contrario: gli altiforni possano essere spenti e riaccesi, a detta anche di
ingegneri del politecnico di Torino, nel giro di pochi mesi. Cosa avvenuta già
in passato e facente parte del ciclo vitale degli stessi. Si potrebbe forse
davvero evitare un conflitto senza precedenti, interno al sistema politico e
legale italiano. Certo affrontando mesi di spese straordinarie, ma non valgono
almeno questo le vite e la salute dei bambini, così spesso ricordate dal
primario Patrizio Mazza?
Ma andiamo oltre.
Proviamo ad accettare il punto di vista del ministro (e del
governo) per capire quanto vi sia di plausibile in ciò. Partiamo perciò dalle
risorse necessarie al risanamento, per ottenere le quali ci sarebbe da tenere
in funzione ILVA a tutti i costi. Di capitali già accantonati dall’azienda,
nelle sue varie componenti, pare che non vi sia traccia. Qualche domanda
potremmo farla a Fabio Riva, figlio minore del patron Emilio, vicepresidente di
RIVA FIRE, società capogruppo. Ma egli è
non a caso in Inghilterra. Diciamo che al momento, quindi, la cassa attingibile
è vuota.
Gli ammodernamenti previsti dalla nuova AIA, secondo lo
stesso ministro ammontano a «Dieci
miliardi se si calcolano soltanto i costi, ma molto di meno se si
considerano anche i vantaggi».
Non ce ne vorrà se adesso ci concentriamo più sui costi … pertanto, se
moltiplicassimo i 600 milioni di euro di utili annui di media, essi
equivarrebbero a più di 15 anni di attività, quasi a 20.
Grazie al cielo, il decreto non vale per sempre. Parliamo di
un massimo di tre anni … dovremmo immaginare che la famiglia RIVA (detenuta in
blocco), il direttore Buffo ed il presidente Ferrante (sul quale, come ha
intuito Rizzo sul Corriere della Sera, ci sarebbe assai da dire), ambedue
indagati, abbiano la volontà oggi di fare, tutto in una volta, quel che mai
vollero fare in decenni di libertà e tranquillità?
Ovvero che siano disposti ad impiegare immediatamente i
lucri prevedibili di quasi venti anni di attività futura di ILVA, oppure, se
volete, quasi un anno e mezzo dell’intero fatturato (non degli utili) del
Gruppo Riva con tutti i suoi 26.000 dipendenti, per realizzare quel che l’AIA
impone?
Vi pare plausibile? Da dove potrebbero provenire tali
disponibilità, immediatamente attingibili? La Fiom se lo chiede da un po’,
proviamoci anche noi.
Una risposta sarebbe: dalle banche, grandi banche. Forse...
non fosse che il mercato dell’acciaio in tutto il mondo è in fortissima
contrazione. Specialmente esso vive una fase di concorrenza feroce in Europa,
stante la drastica riduzione dei cantieri per infrastrutture, per l’edilizia, e
il crollo della produzione di auto ed elettrodomestici nel continente: in
questi mesi, infatti, assistiamo alla chiusura di molti stabilimenti, dalla
Spagna alla Polonia.
E almeno tre in Italia, la Lucchini di Piombino, La Thyssen
di Terni, La Beltrame di Marghera. E non per problemi ambientali, si badi bene:
per carenza assoluta di ordinativi. Del resto la stessa ILVA, nei giorni
scorsi, ha tentato di accedere alla cassa integrazione per migliaia di operai,
giustificandosi con il brusco calo del mercato.
Questo calo, almeno in Europa, è noto essere di lungo
periodo. Quei 600 milioni non sarebbero pertanto più media annua possibile di
utili a venire. Il periodo di attività per ammortare la spesa di ammodernamento
salirebbe quindi forse a 25 anni, forse più.
Capirete da soli che per un privato, come per la banca finanziatrice,
il rischio è tanto, l’utile poco. Conviene a questo punto aprire fabbriche ex
novo, delle dimensioni giuste e con le tecnologie giuste nei luoghi giusti,
piuttosto che accanirsi su di una fabbrica obsoleta e male allocata. Diciamo
che i paesi in via di sviluppo hanno certamente il mercato e spesso le materie
prime, nonché manodopera a basso costo e una sensibilità ambientale simile alla
nostra negli anni ’50... Chi conosce i passi attuali dei Riva sa bene che non
saremo noi a insegnargli il mestiere. E a guardare in India. O in Brasile, da
cui viene il nostro attuale Vescovo, tanto per dire.
E’ evidente che risulta destituita di ogni fondamento
l’accusa del ministro per cui fosse il sequestro a bloccare la bonifica interna
imminente. Di imminente non c’è nulla: anche volessero e non credo proprio, i
Riva al momento dovrebbero reperire, da carcerati, cordate di banche pronte a scommettere
tanti dei loro soldini su più di venti anni di futuro incerto … cosa assai
ardua. Ma curiosamente il decreto si occupa di risorse solo per stipendiare il
garante. Figura di cui mi occuperò alla fine, perché ci riguarda da molto
vicino.
Punto terzo.
Per
di più, la procura continua a tenere sotto sequestro la produzione sino a
data
del decreto, poiché esso non è ovviamente retroattivo. I suoi stoccaggi
sono pieni e non possono essere svuotati. Decine di navi sono alla
fonda, con danni per milioni di euro.
Aggiungiamoci lo
sciopero dei gruisti, di cui parla Sofri, i quali non vogliono tornare a
lavorare al porto nelle condizioni pre tornado … fatto sta che la situazione
patrimoniale dell’azienda non pare messa al meglio, almeno ai fini di tale
immensa opera di ambientalizzazione e ammodernamento. Potremmo però dire: il
denaro mancante lo metta lo Stato. Bene, concorrenza sleale. In Europa altri
produttori ne sarebbero svantaggiati. Non si può. Per legge.
Punto quarto.
Infine,
il decreto è appunto un decreto. Ha 60 giorni per essere convertito in legge
dal Parlamento. Che non potrà assumersi a cuor leggero una scelta così ambigua e
impopolare, così prossima alla tornata delle politiche 2013. Nel frattempo il
governo è praticamente caduto, in virtù degli scontri fratricidi tra le forze
in campo. Nel caso non impossibile non dovesse divenir legge, tutto tornerebbe
al quo ante. Ciò, come non vi fosse mai stato. Immaginate il caos …
Punto quinto.
Quel
che emerge da questa breve disamina è che la situazione è tutt’altro che
incanalata su binari certi. Come un governo morente ha tutto l’interesse a
farci credere. E la proprietà. E le forze politiche. E i sindacati.
Tutti loro, facendo io qui l’avvocato del diavolo, potrebbero
provare semplicemente a guadagnar tempo, a defilarsi, a mettere per l’ennesima
volta tutto a posto sulla carta, affidando la dura realtà al destino e a futuri
governi. Mentre nel frattempo sono avocati a lor medesimi e all’azienda tutte
le scelte e i controlli.
Chi ha l’interesse contrario, invece? I tarantini e basta.
Lavoratori ILVA e non. Noi, insomma, che portiamo il peso delle conseguenze
sanitarie, ambientali, sociali che gravano sul nostro futuro. Noi che scopriamo
oggi di essere custodi di fette enormi del PIL nazionale, mentre sino a ieri eravamo
solo bassa provincia.
Un noi che vorremmo potesse includere automaticamente le
istituzioni e le rappresentanze … ma non è questa la realtà.
Bene, se quel che sinora ho provato con le mie modeste forze
a raccontare è vero, che fare allora nel frattempo che forze sovra ordinate,
forse ogni oltre immaginazione, decidano della costituzionalità, del
reperimento delle risorse, delle scelte industriali italiane ed europee?
La proposta che qui
avanzo è la seguente:
al di là che il
decreto pare effettivamente un vulnus al nostro sistema di diritto, già
alquanto sbilenco, quindi che ci si debba augurarne la non ratificazione (come
già auspicato persino da ARPA Puglia), esso prevede un garante super partes. Ma
costui chi dovrà garantire? Certamente noi, soprattutto. E allora che sia
scelto in modo democratico, qui a Taranto. Con consultazione pubblica. Che sia
un nostro rappresentante. Eletto, non cooptato dal Presidente della Repubblica
o da altri. Perché non vi siano più alibi, né nostri né del “potere”.
Il suo ruolo è così
descritto nel testo legislativo: egli è “incaricato di vigilare sull’attuazione
delle disposizioni del presente decreto”; si avvale “dell'Istituto superiore
per la protezione e la ricerca ambientale nell'ambito delle competenze proprie
dell'Istituto e sentendo le rappresentanze dei lavoratori acquisisce le
informazioni e gli atti ritenuti necessari che l'azienda, le amministrazioni e
gli enti interessati devono tempestivamente fornire, segnalando al Presidente
del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare e al Ministro della salute eventuali criticità
riscontrate nell'attuazione della predetta autorizzazione e proponendo le
idonee misure”. Inclusa l’ “amministrazione straordinaria anche in
considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione”.
Poteri non decisivi,
ma certo molto rilevanti. Sarebbe magari il caso di sceglierlo tra una rosa di
esperti, assolutamente terzi alle vicende. Preferibilmente stranieri. Forse affiancati
da locali, eletti anch’essi.
Si dirà che non
esiste allo stato attuale una simile soluzione in Italia … bene, sino a pochi
giorni fa non esisteva nemmeno il decreto di cui parliamo.
Spero vogliate concedere spazio alle mie riflessioni e alle
mie proposte, non scindibili, che provano a sollevare interesse verso una delle
poche mosse ancora a nostra disposizione.
Spero la stampa voglia dare la possibilità alla cittadinanza
di aderirvi, aderendovi anch’essa.
Spero che altri aiutino a trovare i modi legittimi e
razionali di indire una simile consultazione. Coinvolgendo, o costringendo, la
politica locale a farsi portatrice di un’istanza democratica che affidi al
territorio una forma di controllo credibile, riscattandosi in parte dagli
orrori del passato.
Nel frattempo che la ruota del mondo gira, facendo emergere pian piano la realtà
delle cose.
Grazie per l’attenzione.
P.V.
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