martedì 30 giugno 2015

Legittimo sospetto?

Capitale della cultura 2016 e 2017 Taranto tra le finaliste

Aquileia, Como, Ercolano, Mantova, Parma, Pisa, Pistoia, Spoleto, Taranto e Terni. Sono le dieci città finaliste per il titolo di capitale italiana della cultura per il 2016 e 2017 scelte dalla giuria presieduta da Marco Cammelli tra 24 candidate. I comuni finalisti, rende noto il Mibact, dovranno presentare i dossier entro il 15/9.
L'elenco delle dieci città finaliste è stato consegnato oggi al ministro di beni culturali e turismo Dario Franceschini. Aquileia, Como, Ercolano, Mantova, Parma, Pisa, Pistoia, Spoleto, Taranto e Terni sono state scelte all’unanimità dalla giuria. Dovranno presentare entro il 15 settembre i dossier di candidatura definitivi per la scelta della capitale italiana del 2016 (entro il 30 ottobre) e della capitale italiana del 2017 (entro il 15 dicembre).  Alle due città vincitrici verrà assegnato un contributo di un milione di euro e l’esclusione delle risorse investite nella realizzazione del progetto dal vincolo del patto di stabilità.  Il titolo,ricordano dal Mibact, è stato istituito dalla legge Art Bonus sulla scia della vasta e consapevole partecipazione di diverse realtà italiane al processo di selezione per individuare la Capitale europea della cultura 2019, una competizione che ha visto la mobilitazione di notevoli energie nella produzione di forti progettualità per lo sviluppo del territorio incentrato sul patrimonio culturale.
La giuria, riferisce il presidente Cammelli, ha esaminato i dossier di candidatura delle 24 città che hanno presentato domanda, valutandone i caratteri innovativi, la qualità, la fattibilità e la sostenibilità a lungo termine.  "La commissione ha esaminato con attenzione le proposte ricevute – sottolinea Cammelli – e ho il piacere di sottolineare che i lavori si sono svolti in massima armonia e si sono conclusi con la piena unanimità. Esprimo sincero apprezzamento per lo sforzo progettuale delle iniziative e il coinvolgimento delle diverse realtà locali mostrati da larga parte delle proposte, anche da quelle che non anni raggiunto l’ammissione alla seconda fase".  Soddisfatto il ministro Franceschini: "Ringrazio la commissione per il prezioso lavoro svolto nel pieno rispetto dei tempi e in assoluta autonomia. Adesso la competizione diventerà sicuramente ancora più avvincente". (GdM)

lunedì 29 giugno 2015

Logica, giusta azione.

Ilva, dopo morte di Alessandro Morricella convalidato sequestro dell’altoforno

È “pacifico” che l’impianto dell’Ilva nel quale ha perso la vita l’operaio Alessandro Morricella investito da un getto di ghisa liquida, fosse “sprovvisto dei più elementari dispositivi destinati e idonei alla protezione dell’incolumità dei lavoratori”. Lo ha scritto il gip di Taranto, Martino Rosati, nel decreto con il quale ha convalidato il sequestro senza facoltà d’uso dall’Altoforno 2 dello stabilimento siderurgico richiesto dalla procura tarantina. Nelle 12 pagine del documento il magistrato ha spiegato oltre agli accertamenti svolti dagli investigatori è stata proprio l’azienda con il suo atteggiamento a confermare questa mancanza.
L’Ilva, infatti, subito dopo l’incidente che è costato la vita all’operaio 35enne, si è “affrettata – scrive il gip Rosati – a piazzare delle artigianali barriere metalliche di protezione in prossimità dei punti più pericolosi dell’impianto” e contemporaneamente a “commissionare” a una ditta specializzata la predisposizione di dispositivi automatizzati per eseguire la misurazione della temperatura della ghisa, la stessa che ha ucciso Morricella. Per il giudice, quindi, è stata proprio l’Ilva “a confessare l’enorme e inaccettabile lontananza dei dispositivi di sicurezza presenti sull’impianto”.
La procura ha aperto un fascicolo per cooperazione in omicidio colposo e omissione delle cautele sui luoghi di lavoro. Nel registro degli indagati, oltre al direttore dello stabilimento Ruggiero Cola, sono finiti il capo Area Salvatore Rizzo, il tecnico campo di colata Domenico Catucci, il tecnico di cabina Vincenzo Catucci, il capo turno Saverio Campidoglio, il direttore dell’area Ghisa Vito Vitale, e poi ancora il capo reparto Afo 2 Giovanni Zingarelli, il responsabile aziendale per la sicurezza (sil) dello stabilimento Sergio Palmisano, Pietro Bonfrate coordinatore sil dell’area ghisa e infine Antonio Russo, tecnico sil dell’area altoforni.
La decisione del gip Rosati, notificata qualche ora fa dai carabinieri di Taranto, di negare la facoltà d’uso all’Ilva potrebbe avere conseguenze più drastiche per la fabbrica. La conferma dei sigilli agli impianti dell’Altoforno 2, infatti, rischia di causare il blocco totale dello stabilimento tarantino. Il fermo dell’altoforno 2, infatti, si aggiunge a quello dell’Afo1 – fermo da dicembre 2012- e dell’Afo5, inattivo da tre mesi: entrambi gli impianti sono stati spenti per consentire all’azienda di eseguire gli adeguamenti alle prescrizione imposte dall’Autorizzazione integrata ambientale.
A produrre acciaio, quindi, resta solo l’Afo4. Un solo altoforno, però, hanno fatto sapere i tecnici, genera un profondo rischio di sicurezza per l’intero stabilimento. Il riciclo dei gas degli altoforni, infatti, è utilizzato da Ilva per alimentare altri impianti: il funzionamento di un solo altoforno, pertanto, non garantirebbe la produzione minima di energia necessaria per utilizzare altri impianti collegati alla produzione dell’acciaio. L’azienda, attraverso i suoi legali, aveva già annunciato il ricorso al tribunale del riesame, ma in attesa della decisione del riesame, l’azienda non potrà fare altro che avviare lo spegnimento degli impianti. Il governo al momento tace. (FQ)

Solito humor tragico dei nostalgici

Ilva, il blocco del siderurgico di Taranto sarebbe una catastrofe nazionale

“Senza Ilva e senza acciaio l’Italia sarebbe un Paese più piccolo nello scenario globale internazionale”: queste parole pronunciate a Bari dal Presidente della Confindustria Giorgio Squinzi rendono ancora una volta evidente a tutti coloro che osservano senza pregiudizi antindustrialisti la situazione dello stabilimento ionico la sua enorme rilevanza non solo per l’industria meccanica del Paese, ma anche e direi soprattutto per il suo posizionamento competitivo nel mercato mondiale.
Bisogna pertanto tornare a riflettere su quelle parole perché rallentare o, peggio, bloccare in questa fase la produzione sia pure a regime ridotto del Siderurgico rallentandone il processo di ambientalizzazione significherebbe infliggere un colpo di maglio durissimo all’economia della città di Taranto, a quella della sua provincia, della Puglia e al ruolo dell’Italia quale grande potenza industriale internazionale.
Il blocco della produzione inoltre – è bene ricordarlo a chi volesse ignorare o sottovalutare questo suo gravissimo effetto – devasterebbe il conto economico dell’amministrazione straordinaria, sostenuta peraltro da prestiti di istituti di credito già esposti nei confronti della società e pertanto da tutelare, dal momento che le banche gestiscono com’è noto beni di terzi, ovvero risparmi di depositanti e capitale sociale di azionisti; il blocco toglierebbe dal mercato per un tempo comunque lungo un competitor che la concorrenza internazionale continua a temere, se è vero che le esportazioni di acciaio da Taranto hanno costituito per anni la voce più elevata dell’export regionale.
Sui danni all’economia locale ci siamo già soffermati in precedenti occasioni: perdita retributiva secca per migliaia di addetti diretti e, presumibilmente, per quelli delle aziende dell’indotto che già sono state duramente provate dall’avvio della procedura di ammissione all’amministrazione straordinaria dell’Ilva. Il porto – dopo la messa in liquidazione della TCT – perderebbe a lungo anche il traffico di materie prime e prodotti finiti della grande fabbrica, mentre agli autotrasportatori verrebbero meno le commesse di movimentazione per le loro piccole aziende. A loro volta gli esercizi commerciali in cui si spende il reddito dei dipendenti del Siderurgico registrerebbero una ulteriore, pesante flessione dei loro incassi.
Anche i Politecnici di Milano e di Bari che intrattengono rapporti di collaborazione – ben più consolidati come quelli del primo, o in fase di avvio come quelli del secondo  – molto probabilmente perderebbero un interlocutore qualificato per lungo tempo.
E che ne sarebbe poi degli stabilimenti di Genova e Novi Ligure, senza i semilavorati di Taranto? E l’industria di trasformazione del Nord dove acquisterebbe i laminati di cui ha bisogno? Da fornitori esteri a prezzi maggiorati, naturalmente. E non è già molto preoccupante che la Fiat Chrysler non abbia smentito la notizia riportata da un settimanale secondo cui per il suo sito di Melfi in piena fase di rilancio non utilizza più i coils di Taranto? E d’altra parte che sicurezza ha di forniture nelle quantità e nei tempi richiesti per una produzione in grandi numeri come quella delle Jeep Renegade e delle 500X? E chi fornirebbe i tubi per la TAP?
Certo, le sue commesse verrebbero soddisfatte in logiche di mercato, ma con gli impianti fermi l’Ilva non avrebbe neppure la possibilità di competete con altri fornitori. E per le costruzioni navali della Fincantieri, che si sono sempre avvalse di lamiere di grande spessore dell’Ilva dove le si acquisterebbe, ora che le commesse di grandi navi da crociera arricchiscono il portafoglio della società che è tornata a rappresentare uno dei punti di forza dell’industria nazionale ?
Insomma con il blocco del Siderurgico si profilerebbe una probabile catastrofe per l’economia locale e per comparti strategici dell’industria nazionale: non bisognerebbe allora da parte di tutti riflettere a fondo sui molteplici gli effetti di un malaugurato fermo del sito? Chi se ne può assumere la responsabilità, senza valutare l’insieme delle conseguenze che ne deriverebbero e che abbiamo appena ricordato?
Occorre dunque equilibrio, saggezza, accortezza nel prendere decisioni che potrebbero spezzare la spina dorsale dell’industria meccanica nazionale. E questa spina dorsale ha i suoi cardini nel Sud, in Puglia, a Taranto, non in Germania o in Cina.
Federico Pirro (formiche.net)

Vedremo...

Ilva: Emiliano, se uccide è chiaro che va chiusa

"Se l'Ilva uccide, e quindi se l'Ilva come organizzazione industriale commette reati, è chiaro che va chiusa. Se è compatibile con la salute delle persone, può proseguire la sua attività". Lo ha detto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, parlando con i giornalisti. "Noi - ha precisato - non abbiamo una posizione politica, la nostra è una posizione giuridica. Nel senso che saremo attentissimi, con la stessa tecnica che adopererà la Procura della Repubblica di Taranto. Noi abbiamo poteri rilevanti in questa materia, sia di carattere istruttorio sia decisorio, e intendiamo utilizzarli".
    "Non ci saranno - ha sottolineato Emiliano - argomentazioni strategiche dal punto di vista economico che ci possano fermare.
    Laddove noi dovessimo dimostrare che questa fabbrica è indispensabile per la produzione nazionale ma provoca danni alla salute non accettabili, noi non potremo far finta di nulla. E penso che da questo punto di vista ci sia una unità di intenti".
    "Naturalmente - ha concluso - serve un potenziamento dell'Agenzia regionale per l'Ambiente (Arpa) della Puglia.
    Avevamo già tentato col governo di avere delle deroghe sull'organico dell'Arpa che è ancora troppo basso ma, nonostante gli impegni che il governo aveva preso, questa deroga non è stata contesa. E credo che su questo punto bisognerà tornare". (ANSA).

E mo' son cavoli amari!

Ilva, per il crac sono attesi 20mila creditori: "Nemmeno per la Parmalat furono così tanti"

Ventimila potenziali creditori, fra cui migliaia di dipendenti, potrebbero presentarsi, attraverso i loro avvocati, davanti alla sezione fallimentare di Milano per richiedere il dovuto al gruppo Ilva. Gruppo gravato da un passivo di quasi 3 miliardi di euro e finito in amministrazione straordinaria, lo scorso gennaio, dopo la gestione della famiglia Riva travolta dalle inchieste fra il capoluogo lombardo e Taranto. Un caso che, per numero di istanze di insinuazione al passivo, potrebbe addirittura superare quello del crac Parmalat del 2003.
Il giudice del tribunale fallimentare Caterina Macchi ha spiegato ai legali di alcuni creditori che hanno già presentato istanza - tra cui fornitori e dipendenti dell'Ilva, ma anche professionisti e istituti di credito - che si era reso necessario un rinvio della cosiddetta 'adunanza dei creditori'. Così per "ragioni organizzative", atteso un numero di istanze che potrebbe "superare la cifra di 20mila", l'inizio del procedimento con la maxiadunanza è stato aggiornato al 27 novembre prossimo.
Una "verifica su potenziali creditori di queste dimensioni", è stato spiegato dalla sezione fallimentare agli avvocati, "non c'è mai stata qui a Milano: probabilmente nemmeno per il caso Parmalat". Sul sito www.gruppoilvainas.it, fra l'altro, il gruppo, in amministrazione straordinaria con i commissari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba, ha già realizzato "uno strumento di informazione sullo stato della procedura" per gestire il "flusso informativo", che crescerà da qui a novembre, a favore dei potenziali creditori che hanno fatto o devono ancora presentare domanda di insinuazione al passivo.
Sono stati gli stessi commissari straordinari dell'Ilva, che presenta una "esposizione debitoria complessiva pari a circa 2,9 miliardi di euro", a chiedere il "differimento dell'adunanza" e del "termine di deposito delle domande". E il collegio di giudici (Macchi-D'Aquino-Macripò) ha accolto la richiesta, come si legge nel provvedimento, vista "la particolare ampiezza del ceto creditorio". Basta, come scrive il collegio, "considerare l'elevatissimo numero di avvisi da inoltrarsi a mezzo raccomandata, essendo oltre 15mila i dipendenti destinatari della predetta comunicazione, e molto numerosi i creditori esteri".
Ciò comporta, secondo i giudici, una "situazione di sovraccarico gestionale" per l'Ilva, che nel frattempo deve proseguire anche con "l'attività di impresa". E' molto probabile che l'udienza di novembre dovrà tenersi in una maxiaula al piano terra del tribunale. (Rep)

sabato 27 giugno 2015

I dati dell'ARPA e l'aria della città

Relazione ARPA: Taranto è fuori pericolo?

Risposta alla Relazione ARPA sui dati della qualita' dell'aria 2014 di Taranto e Statte
 
Alessandro Marescotti
 
Vorrei fare alcune osservazioni a proposito della relazione sui dati 2014 della qualità dell'aria che Arpa ha consegnato ai Sindaci di Taranto e Statte.

1. Uno degli aspetti più evidenti è il calo delle polveri (PM10), che scendono a 27 microgrammi a metro cubo nella centralina di via Machiavelli, situata nel quartiere Tamburi di Taranto. Il limite di legge è 40. Siamo dunque al sicuro? Vorrei far notare a tutti che, per il PM10, i limiti suggeriti dall'Oms sono 20 microgrammi per metro cubo. Non solo. Le polveri di Taranto, ce lo spiega lo studio epidemiologico SENTIERI, hanno un impatto sulla salute 2,2 volte più alto rispetto alle polveri di Milano o Torino. E pertanto - moltiplicando i 27 microgrammi di via Machiavelli per 2,2 - otteniamo il valore preoccupante di 59,4 che è un numero che indica una pericolosità complessiva, associata alle polveri. E' un dato che ci spinge a dire che Taranto non è fuori pericolo. Questo significa che 59,4 microgrammi di Pm10 a metro cubo a Milano producono un impatto sulla salute paragonabile ai 27 microgrammi a metro cubo di Taranto Tamburi. Ma mentre a Milano 59,4 microgrammi a metro cubo di Pm10 fanno scattare l'allarme, 27 microgrammi a metro cubo a Taranto Tamburi fanno scattare paradossalmente una reazione di soddisfazione, come se non avessero alcun impatto sulla salute dato che non superano il limite di legge, mentre invece lo hanno, eccome. In altri termini non è solo la quantità delle polveri di Taranto che va valutata ma è anche la loro tossicità.
2. L'Arpa non fa la speciazione delle polveri, ossia l'analisi dettagliata e diversificata delle loro caratteristiche, creando un inventario delle polveri, disaggregando ad esempio la frazione più sottile e studiandone la pericolosità. Sarebbe importante capire cosa finisce nel sangue dei tarantini tramite la frazione più sottile delle polveri industriali. Il PM1 – dieci volte più intrusivo del PM10 – riesce ad arrivare fino in profondità negli alveoli polmonari e a oltrepassarli. Una volta oltrepassati gli alveoli, questo particolato finissimo entra in circolazione nel sangue. Questo particolato, tramite il flusso sanguigno, può arrivare nel fegato. Le nanoparticelle sono pericolosissime, arrivano persino nel cervello. Per cui pesare queste nanopolveri serve a poco, non pesano quasi nulla! Occorre invece la speciazione delle polveri. Le altissime temperature dei processi siderurgici (lo dimostrano gli studi fatti su nanoparticelle e su tessuti studiati al microscopio elettronico) possono produrre un particolato ultrasottile con potere di penetrazione nell'organismo, capace di oltrepassare le barriere biologiche.
3. Altra cosa che l'Arpa non fa è lo studio dei Nitro-Ipa. Gli Ipa sono gli idrocarburi policiclici aromatici, che calano soprattutto d'estate, e con essi anche il benzo(a)pirene. Tuttavia gli Ipa d'estate in realtà non spariscono ma si trasformano in Nitro-Ipa, che sono cancerogeni e mutageni non meno degli Ipa. Sarebbe auspicabile che l'Arpa studiasse anche questo aspetto che per ora rimane in ombra. E che lo studio del benzo(a)pirene fosse schermato dall'interferenza dell'ozono, come già chiedemmo.
4. In rapporto al 2010 la riduzione del PM10, si legge sulla relazione Arpa, è del 35%. Per il PM2,5 il calo è solo del 20%. Considerando che il PM2,5 può essere considerato un tracciante dell'inquinamento industriale, mi chiedo quali grandi risultati siano stati ottenuti, tenendo conto che la produzione dell'ILVA si è dimezzata.
5. Se con i dati 2010 i periti del Tribunale stimavano 30 decessi in più attribuibili all'inquinamento industriale, quanti decessi sarebbero correlabili a questi dati?

Che aria tira secondo l'ARPA?

Sul sito dell'ARPA Puglia è disponibile la Relazione contenente i dati di qualità dell’aria registrati nel 2014 nelle stazioni di monitoraggio del quartiere Tamburi di Taranto e confrontati con i dati registrati in altri siti non collocati all’area industriale.


venerdì 26 giugno 2015

Poveretti...

La famiglia Riva (ex di Ilva) è inondata di dividendi


La famiglia Riva, titolari dell'omonimo gruppo siderurgico, ha ancora un tesoro di quasi 640 milioni di euro chiuso in un forziere lussemburghese mentre in Italia festeggia a suon di dividendi. Il capitale è rappresentato da 104,3 milioni di riserva sovraprezzo azioni, da 6 milioni di riserve e da quasi 480 milioni di utili portati a nuovo segnati nei conti 2014 appena depositati della Stahlbeteiligungen Holding (Stahlb) basata nel Granducato e controllata dall'italiana Riva Forni Elettrici.
In Stahlb che vanta un totale di attivo di 820 milioni, figurano 121 milioni di liquidità e 410 milioni di immobilizzazioni finanziarie che rappresentano le quote di controllo della canadese Les Industries Associées de l'Acier Ltée, delle belghe Thy Marcinelle e Tréfilerie de Fontaine l'Eveque, della spagnola Siderurgica Sevillana, della tedesca Riva Stahl Gmbh, della francese Parside nonché il 22,7% dell'italiana Muzzana Trasporti che lo scorso anno ha incorporato Riva Energia. Stahlb, che funge da tesoreria di gruppo, ha finanziato Riva Forni Elettrici per oltre 287 milioni e ha distribuito alla controllante una maxicedola di 458,1 milioni durante lo scorso anno.
Dalla fusione con la controllata Centre de Coordination Siderurgique, realizzatasi lo scorso anno, ha incassato un sovrapprezzo di 283,1 milioni mentre dalle partecipate Riva Stahl e Thy Marcinelle ha beneficiato di dividendi per rispettivi 127,5 e 24 milioni.
La controllante Riva Forni Elettrici se la passa bene. Ha infatti appena incassato un'altra cedola di 50,5 milioni, questa volta riveniente dalla controllata Riva Acciaio, capogruppo industriale italiana dei Riva. La operativa, di cui amministratore unico è Cesare Federico Riva, uno dei figli del defunto patron Emilio, occupa mille e 400 addetti e ha segnato nel 2014 un utile di 32,3 milioni rispetto alla perdita di 41,5 milioni dell'esercizio precedente. Anno su anno i ricavi sono saliti da 743 a 788 milioni, vendendo oltre 1,3 milioni di tonnellate di prodotti siderurgici.
Banca Fideuram, quattro ricapitalizzazioni
Quattro ricapitalizzazioni per portare Banca Fideuram a un capitale di 300 milioni di euro e realizzare così l'integrazione con Intesa Private Banking (Intesa Pb) dalla quale nascerà, dal prossimo 1 luglio, la prima private bank italiana. La complessa operazione di accorpamento, al termine della quale sarà operativa la nuova Fideuram Intesa Private Banking, in breve Fideuram spa, è dettagliata nel verbale dell'assemblea straordinaria dello scorso 22 giugno di Banca Fideuram, ancora presieduta dal presidente uscente Enrico Salza. Le ricapitalizzazioni sono tre, mediante conferimento di rami d'azienda da parte della controllante Intesa Sanpaolo e l'ultima a titolo gratuito.
Le motivazioni dell'operazione sono spiegate da Salza ai consiglieri: con l'integrazione «si rafforza il gruppo Intesa sui segmenti private e high net worth individuals, incrementando la dimensione, la quota di mercato e la redditività», inoltre «si migliora e allarga il portafoglio prodotti e si incrementa il livello di servizio offerto ai clienti». La nuova banca private è stata autorizzata da Banca d'Italia e dalla Bce dopo, con una lettera del 17 giugno scorso firmata dal numero uno dell'Eurotower Mario Draghi. Il presidente di Fideuram spa sarà Matteo Colafrancesco, fino a ieri a.d. e d.g. di Banca Fideuram, e l'amministratore delegato sarà Paolo Molesini, fino a ieri a.d. di Intesa Pb. (Italiaoggi)

E Pirro che fa? Difende l'Ilva!

fonte
In tutto questo marasma restano poche certezze puntuali...

Ilva, come evitare il tracollo del Siderurgico di Taranto (strategico per l’Italia)

Dopo l’ultimo sequestro senza facoltà d’uso dell’Altoforno n 2 all’Ilva di Taranto, disposto dalla magistratura dopo il tragico incidente in cui ha perso purtroppo la vita l’operaio Alessandro Morricella – sequestro al momento non ancora convalidato dal Gip -  è auspicabile per tutta la città che abbia esito positivo l’interlocuzione aperta con la Procura dai legali dell’Ilva, i quali hanno fatto presente di aver attuato le prescrizioni dello Spesal sullo stesso AF02, ben prima dei 60 giorni concessi, rimuovendo così i fattori di rischio per i suoi addetti: Spesal, peraltro, che non aveva ordinato lo stop immediato dell’impianto, a differenza di quanto disposto successivamente dal Pm. Ed è oltremodo significativo che la gestione commissariale della società in amministrazione straordinaria voglia supportare tale affermazione con una ben documentata relazione tecnica già commissionata alla Paul Wurth, azienda leader a livello internazionale nel comparto dell’impiantistica.
La società nel frattempo ha deciso di mantenere in esercizio l’AFO4, in attesa degli sviluppi della situazione e dell’esito di un’eventuale impugnazione del sequestro al Riesame; ma, come evidenziato da tutti gli osservatori più attenti, un sito di quelle dimensioni non può reggersi sotto il profilo impiantistico ed economico sull’esercizio di un solo altoforno, il cui spegnimento, insieme a quello dell’AFO2 – e in attesa che tornino in esercizio gli AFO 1 e il 5 – avrebbe esiti totalmente destabilizzanti per la presenza dell’azienda sul mercato, già oggi fortemente erosa presso i suoi settori e clienti di riferimento, oltre che effetti pesantissimi sino ai limiti dell’insostenibilità materiale sulle condizioni di vita dei 14.320 addetti della fabbrica, delle migliaia di loro familiari a carico e sulle altre migliaia di occupati nelle aziende dell’indotto, nelle attività di autotrasporto, sulle movimentazioni portuali e delle banche, e su tutti gli esercizi commerciali in città e nella sua provincia in cui si spende il reddito degli occupati nell’Ilva.
Ma al repentino impoverimento di larga parte della popolazione locale, direttamente o indirettamente connessa all’esercizio dello stabilimento, si aggiungerebbe la catastrofe macroeconomica che avrebbe incidenza devastante non solo sul pil dell’area ionica e della Puglia, ma anche del Mezzogiorno e dell’intero Paese. Pertanto, alla luce delle drammatiche conseguenze che il blocco del Siderurgico avrebbe – con grande e intuibile soddisfazione dei suoi concorrenti esteri e con il grave danno che si creerebbe a valle anche per gli utilizzatori italiani dei suoi prodotti – non è minimamente ipotizzabile che vi sia a Taranto nelle Istituzioni competenti chi possa e voglia ignorare tutto quanto potrebbe malauguratamente accadere e che invece deve essere valutato con grande equilibrio e profonda saggezza. E non è pensabile che si voglia ignorare il contesto normativo in cui opera al momento la società, anche perché è appena il caso di ricordare che l’Ilva è in Amministrazione straordinaria per disposizione di legge approvata dal Parlamento, e che la valutazione relativa alla sua ammissione alla procedura non è stata ispirata ad un principio dispositivo di parte, bensi ad interessi di ordine generale e di rilevanza pubblicistica. I Commissari pertanto assolvono funzioni di tale rilevanza e il piano di adeguamento alle misure dell’Aia – per il quale sono state impegnate fra l’altro le risorse sequestrate ad Adriano Riva e da impiegarsi con le modalità autorevolmente suggerite in Parlamento dal magistrato milanese Francesco Greco – risponde a ben note disposizioni di legge.
Naturalmente, se tutto ciò obbliga ed impegna la stessa gestione commissariale nell’integrale, rigorosa attuazione di quanto stabilito dalla norme che dispongono l’ammodernamento della fabbrica, perseguendo la massima sicurezza di chi vi lavora ed abbattendone l’impatto ambientale, dall’altra non può esimere gli organi giudiziari dal considerare il contesto normativo da cui è scaturita e in cui si muove la gestione commissariale. Lo stabilimento di Taranto, peraltro, è classificato sin dalla legge 231 del dicembre 2012 come impianto di interesse strategico nazionale il cui esercizio risponde a esigenze strategiche del Paese.
Allora l’impegno massimo e concorde di tutti – ciascuno secondo le proprie competenze – deve essere quello di attuare sino in fondo e secondo il crono-programma stabilito le disposizioni delle leggi in vigore e i programmi per il risanamento del Siderurgico di Taranto in cui – come accade ormai da tempo anche nella contigua raffineria dell’Eni – è possibile ridurre drasticamente gli incidenti sul lavoro.
Federico Pirro (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)

Chiarezza e lucidità

La tragica morte di Alessandro Morricella e il sequestro senza facoltà d’uso di AFO 2


LETTERA APERTA
Al        Dr. Franco Sebastio Procuratore della Repubblica di Taranto
                                                           Ing. Massimo Rosini Direttore Generale Ilva SpA
                                                          

Sono Biagio De Marzo, tarantino di 78 anni, ingegnere navalsiderurgico, pensionato, cittadino attivo. Dal punto di vista civico e professionale, ritengo di non essere uno sprovveduto. Nella mia vita ho seguito un principio inderogabile: fai bene quello che devi fare; se ti accade qualcosa di imprevisto, capisci bene cosa e perché è accaduto e adoperati perché non accada più. L’ho seguito anche da ecologista “anomalo”, lasciando parecchie tracce, anche scritte.
E vengo al dunque. Dopo un travagliato percorso, per l’Ilva di Taranto è stato deciso che “deve tornare a produrre in modo sostenibile e vantaggioso economicamente e socialmente”. Per essere certi che ciò sia ragionevolmente possibile, di recente ho proposto sulla stampa e in qualche sede politico/istituzionale di far effettuare ad ARPA Puglia la VIIAS (Valutazione Integrata Impatto Ambientale e Sanitario) di Ilva Taranto in vari scenari oltre quello “a prescrizioni AIA rispettate” (vedi l’OdG presentato dai Consiglieri comunali Capriulo, Liviano e Venere in calendario per il Consiglio comunale del 26 giugno). Le valutazioni di ARPA Puglia fornirebbero elementi importanti per delineare il futuro del siderurgico e, al limite, per evitare sprechi di tempo e di risorse.
Tutto questo è reso più difficile o, secondo alcuni, addirittura impossibile dal sequestro senza facoltà d’uso di AFO 2 a seguito del drammatico incidente dell’8 giugno che ha comportato la morte di Alessandro Morricella, il giovane lavoratore gravemente ustionato. E’ ineccepibile la motivazione del provvedimento assunto dall’Autorità Giudiziaria “in attesa di conoscere le cause dell’evento anomalo a base dell’infortunio, nonché di quelli successivi di minore entità seguiti nei giorni successivi, nel dubbio di un malfunzionamento degli apparati di segnalazione di anomalie, che possa costituire fonte di pericolo di eventi e reati analoghi”.
Sulla stampa si è ipotizzato che l’incidente sia avvenuto mentre si misurava la temperatura della ghisa nella fase di colaggio. Lo escludo categoricamente: quella è un’operazione standardizzata, ripetuta centinaia di migliaia di volte in 50 anni di esercizio degli altoforni di Taranto, senza incidenti mortali. E allora cosa è successo su AFO 2?
Per una decina di anni ho lavorato in area ghisa nel settore della manutenzione e, in qualche modo, ho avuto a che fare anche con gli altoforni. Scavando nella memoria, mi sono ricordato di una procedura particolare, talvolta messa in atto dal personale del campo di colata, chiamata NAKADOME’. Essa, pur essendo praticata in tutto il mondo, non è standardizzata e tantomeno scritta, ma è tramandata a voce tra gli addetti. So che negli anni ’60 i giapponesi avevano “ammaestrato” gli “italsiderini” di Taranto.
Era (è?) un’operazione non usuale, comandata e coordinata da un responsabile altofornista, quando con la “macchina a forare” non si riusciva a “pescare” la ghisa liquida nell’altoforno. Si adoperava, con tutte le cautele del caso, la “macchina a tappare” iniettando nel foro di colaggio pochi chilogrammi di massa a tappare impastata con catrame che, a contatto con l’altissima temperatura interna all’altoforno provocava un’esplosione cui seguiva il deflusso regolare della ghisa liquida. Il tutto avveniva in pochissimi secondi.
L’8 giugno 2015 su AFO 2 è stata fatta una NAKADOME’ andata molto male?
Ritengo che l’Autorità Giudiziaria, con la leale collaborazione della dirigenza e del personale Ilva, possa ottenere la risposta e, se del caso, disporre per le necessarie contromisure.
Ho vissuto personalmente una vicenda molto meno drammatica di quella di AFO 2 ma con alcune significative analogie. Nel 1971 ero direttore di macchina dell’incrociatore Vittorio Veneto, nave ammiraglia della Marina Militare. In navigazione ci fu un’esplosione nella camera di combustione di una delle caldaie principali dell’apparato motore. Mi dissero che la grave anomalia si era già verificata in passato senza individuarne la causa. Ordinai per interfono a tutto il personale di guardia in quel momento di muoversi dal loro posto solo dopo che io avessi “fotografato” e ricostruito con ciascuno di loro come stavano le cose al momento dello scoppio (assetto, manovre, segnalazioni, impressioni, ecc.). Non ricordo quante ore impiegai e quanti fogli di appunti riempii. Poi con calma, analizzammo il tutto ed individuammo in quali condizioni si formava la particolare combinazione di aria e combustibile che esplodeva invece di bruciare. Firmai un ordine di servizio per impedire il ripetersi di quelle condizioni. Il V. Veneto navigò regolarmente per decenni.
Qui, ora, si tratta di sapere cosa è successo su AFO 2. Serve per decidere se il Siderurgico di Taranto può continuare a funzionare, ovviamente operando correttamente e realizzando i lavori necessari antinquinamento, attesi i risultati delle VIIAS effettuate da ARPA Puglia, oppure se deve essere chiuso nel dubbio di malfunzionamento di tutto quanto avviene lì dentro.
Serve lucidità, coraggio e lealtà.

Ing. Biagio De Marzo, già dirigente Italsider.

giovedì 25 giugno 2015

Tutti in marcia per la fiaccolata!


Stop con la Strage di Stato, basta con il mostro d’acciaio!


La Procura di Taranto ha disposto il sequestro, senza facoltà d'uso, dell'altoforno 2 dell'Ilva, il reparto in cui l'8 giugno scorso ha subito un terribile incidente, mentre misurava la temperatura della ghisa, l'operaio 35enne Alessandro Morricella, morto dopo quattro giorni per le gravi ustioni riportate sul 90 per cento del corpo.

Questo provvedimento è indicativo della condizione di insostenibilità nella quale versa lo stabilimento, sia dal punto di vista della sicurezza dei lavoratori, che per quanto riguarda la qualità della vita degli abitanti della città. La morte di Alessandro è la quinta avvenuta dentro lo stabilimento negli ultimi tre anni, dai giorni del sequestro del Luglio 2012: Angelo Iodice, Claudio Marsella, Ciro Moccia e Francesco Zaccaria rappresentano altri omicidi di Stato.

In una situazione nella quale l’esposizione a rischi e danni ambientali e sanitari è tutt’ora presente, sia per chi lavora all’interno della fabbrica che per chi vive a Taranto e nei territori circostanti, è necessario che la città torni protagonista delle scelte che la riguardano.

Non bastavano gli impianti pericolosi...

Provocò ustioni ad un collega dopo uno scherzo finito male: operaio Ilva condannato

Giovanni Trebini, 39enne e dipendente Ilva, è stato condannato ad un anno di reclusione per aver provocato delle ustioni ad un collega sul posto di lavoro. L’uomo venne arrestato e posto ai domiciliari nell’aprile 2013 con l’accusa di omicidio, poi però derubricato in lesioni gravi. La vittima fu Giovanni Trianni, che rimediò lesioni di primo e secondo grado al basso ventre giudicate guaribili in 30 giorni. L’incidente sarebbe partito da uno scherzo di cattivo gusto, poi sfociato in un incidente vero e proprio. Gli inquirenti si accorsero subito che il malcapitato non aveva gli indumenti bruciati, quindi le ustioni non potevano essere dovute ad un incidente sul lavoro. (ilikepuglia)

Trivellate palazzo Chigi!

Puglia, Basilicata e Calabria battaglia contro le trivelle «Sarà un’altra Scanzano»


Sarà un’altra Scanzano Jonico come contro il nucleare. Il Governo guidato da Matteo Renzi deve fare marcia indietro sulla prima autorizzazione alla ricerca di idrocarburi nel Golfo di Taranto rilasciata alla compagnia Enel Longanesi Developments srl. Il nostro è un no, secco e deciso, alle trivelle nello Jonio.Lo hanno dichiarato ieri, nel municipio del centro del Metapontino, nel corso di un incontro «operativo» convocato dal sindaco di casa Rocco Leone, l’assessore all’ambiente della Regione Basilicata, Aldo Berlinguer; gli amministratori, oltre che della città ospitante, di Scanzano Jonico, Nova Siri, Rotondella, Pisticci, Bernalda, Tursi, Taranto, dell’alto Jonio cosentino (Roseto Capo Spulico, Cassano allo Jonio, Rossano Calabro), più ambientalisti e operatori turistici.
Tutti hanno contestato l’autorizzazione rilasciata il 12 giugno scorso dal ministero dell’Ambiente, di concerto con il ministero dei beni culturali e del turismo, alla Enel Longanesi.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso. «Siamo incazzati neri», hanno detto Vincenzo Baio, assessore all’ambiente di Taranto; il sindaco Leone; e Rodolfo Alfieri, assessore di Rossano Calabro. «Taranto – ha spiegato Baio - ha già l’Ilva e il progetto Tempa Rossa, che aumenterà l’inquinamento generale. Ora il regalo della Enel Longanesi. Così, distruggendo la speranza alternativa al nostro sviluppo rappresentato dal mare, il disastro sarà completato». E Leone: «Sottolineo l’attacco alla storia e alla cultura. Le trivelle nelle acque della Magna Grecia profaneranno luoghi sacri». «Basta – ha aggiunto Alfieri – col Sud terra di conquista. Invece che darci infrastrutture ci rifilano lo sfruttamento del territorio».
Tutti hanno assicurato che i loro Comuni proporranno ricorso al Tar contro la concessione già rilasciata. D’accordo anche su una manifestazione di protesta. «E se non ci ascolteranno - ha promesso Alfieri - bloccheremo la Statale 106 cosi l’Italia si accorgerà della nostra battaglia». Toni duri sono stati usati anche da Felice Santarcangelo, portavoce di Noscorie Trisaia, organizzazione nata nei frangenti del battaglia contro il deposito delle scorie nucleari a Scanzano Jonico e da allora impegnata su più fronti tra cui quello anti trivelle.
«Il petrolio come i rifiuti radioattivi? - si è chiesto Santarcangelo - No, è peggio. Anche perchè l’autorizzazione concessa prevede l’uso della tecnica di ricerca “Air gun”. Bombe di aria compressa esploderanno sotto i fondali per verificare la presenza di giacimenti. Una tecnica che può mettere in movimento gli ipotizzati carichi di ordigni carichi di sostanze chimiche smaltiti nel Mediterraneo affondando le «famose» navi dei veleni e la frana accertata dal Cnr e da tre università. E quali danni subirebbero i cetacei che hanno il loro habitat nel nostro mare? Un disastro. Vogliamo lo Jonio libero dalle trivelle». E Sigismondo Mangialardi, operatore turistico, si è detto «sicuro che il governo Renzi ripenserà alle trivelle nello Jonio».
«Noi, però, è bene che facciamo sentire e teniamo alta la nostra voce di protesta». Ha concluso l’assessore regionale Berlinguer che con il governatore Marcello Pittella ha firmato una lettera-appello inviata al ministro Galletti per invitarlo a ripensarci: «La Regione Basilicata non da oggi ha detto no alla ricerca di idrocarburi nel mar Jonio. Le trivelle sono incompatibili con le attività di sviluppo che abbiamo già finanziato. Riteniamo l’arco jonico un’area di grande pregio naturalistico e turistico. Non ci saranno concessioni da parte nostra su questo aspetto. Siamo contrari. E faremo forza comune con Calabria e Puglia. Non si possono fare scelte simili sulla testa dei territori». (GdM)

«Petrolio, non c’è il via libera»

«Non esiste alcuna autorizzazione a svolgere attività di prospezione sismica, sui fondali dell’Adriatico, alla ricerca di petrolio». Lo sostiene il deputato barese Dario Ginefra (Pd) che, assieme alla collega Colomba Mongiello, ha incontrato la sottosegretaria allo Sviluppo economico Simona Vicari e il direttore generale del dicastero, il pugliese Franco Terlizzese.

mercoledì 24 giugno 2015

Tattica da tribunale o progresso a colpi di decessi?


In ogni caso Taranto(buona)Sera si conferma giornalino Ilva anche senza più Riva!

Ilva conferma: adesso l’Afo2 è sicuro

L’Ilva avrebbe ottemperato alle pescrizioni dello Spesal e, in questo modo, reso più sicuro Afo2, altoforno sequestrato d'urgenza e senza facoltà d'uso dalla Procura.
E’ la carta che l’azienda si giocherà per chiedere ai pm di non spegnere l’impianto dopo il decesso di Alessandro Morricella, l'operaio 35enne originario di Martina Franca travolto da un'improvvisa fiammata nell'altoforno che già era stato sequestrato nel 2012, e morto dopo quattro giorni di agonia.
Testimoni hanno raccontato di aver sentito un boato, come un'esplosione, a cui sono seguite fiamme alte circa 10 metri per una trentina di secondi: una vampata di calore, con una temperatura di quasi 1.500 gradi, che ha letteramente travolto il povero Morricella, padre di due bambine. In settimana il sequestro decretato con urgenza dalla Procura dovrebbe passare al vaglio del giudice delle indagini preliminare, dottor Martino Rosati, gip che ha già seguito tra gli altri anche il caso dell’omicidio Scazzi.

In diretta dal sito della UIL. Amen!

Una chicca di retorica veterosindacalista al retrogusto di incenso

Ai “drammi” che genera la crisi occorre contrapporre il coraggio delle scelte

Dopo il racconto della crisi nelle sue molteplici angolazioni (economiche, sociali, ambientali), venne quello della lunga fase dell’elaborazione del pensiero, prima, e della proposta, poi. E’ stato un periodo intenso al quale si è appassionato l’intero Paese (e non solo), impressionato dalle notizie che provenivano dal nostro territorio, “abbruttito” dai danni provocati da un sistema industriale che si disvelava, sempre più, nei suoi eccessi.
Arrivarono, poi, invocate a gran voce, le prime misure che dovevano “porre rimedio ai guasti”. Gli Esecutivi di turno non si sono risparmiati, legiferando a ritmi sempre più intensi e con idee diverse, plasticamente modificate, per rimediare a ciò che verificavano come inefficace.
L’ultimo atto (cfr. D.L.n.1/2015) ha, addirittura, stravolto i canoni e la cultura industriale del Paese, giungendo non solo all’”esproprio” dell’azienda, ma anche al “sequestro” dei beni della proprietà, per risanare la fabbrica e l’ambiente circostante.
In sostanza, la traduzione di quel principio sacrosanto del “chi inquina paga” (principio, tuttavia, dannatamente complesso da tradurre in atti concreti).
La storia di questi anni (non certo quella degli improbabili protagonisti che l’hanno causata) non costituirà solo un “patrimonio letterario”, ma sarà tale da modificare la storia e, conseguentemente, la cultura industriale del nostro Paese.
Un aspetto, questo, del quale poter sì andar particolarmente fieri…ma solo nel caso in cui se ne comprenderà, sino in fondo, la reale portata. Ed è questo il punto sul quale, ora, occorrerà lavorare.
E’ arrivato, dunque, il momento della responsabilità; quello nel quale i soggetti, che, a vario titolo, occupano ruoli e funzioni istituzionali, dovranno, per l’appunto, agire responsabilmente.
Occorre esporre, con chiarezza, il proprio pensiero, la propria posizione, sui singoli provvedimenti e accadimenti in atto; è giusto che ognuno sappia e giudichi il comportamento di ciascuno di noi; i tatticismi e le “furbate” vanno messe al bando.
Gli sforzi, tesi a far ripartire il processo di sostenibilità della fabbrica nella sua più ampia accezione, sono in corso di svolgimento da diversi mesi; faticosamente, arrivano anche le risorse per realizzarli. Poi, un nuovo dramma si abbatte e si materializza nell’ennesimo incidente sul lavoro.
La scomparsa di una vita umana impone il silenzio, il rispetto, la vicinanza ai parenti. Diventa difficile affrontare aspetti prettamente materiali a fronte di una tragedia che sconvolge l’intera comunità. Perdere la vita per il lavoro è cosa difficile da accettare: morire per far vivere sé ed i propri cari è un’idea insopportabile!
Poi, ricomincia la storia.
Gli Organi “inquirenti” faranno, come sempre hanno fatto, il loro lavoro; individueranno colpe e responsabilità; ma esprimiamo, sin d’ora, l’auspicio che questa indefettibile operazione non comprometta quei percorsi di “futuro” dei quali, ad oggi, il territorio (ma anche l’intero Paese) non può fare a meno.
Riscrivere un progetto prospettico dignitoso per i nostri ragazzi, fatto di un lavoro più sicuro e onesto, che si emancipi dagli eccessi del passato (le cui responsabilità, sia chiaro, dovranno avere un volto ed un nome, anche se ci vorrà del tempo) è un compito al quale non possiamo sottrarci.
Ma, ora, ritroviamo la forza e la concentrazione per riprendere la strada difficile che ci attende già dalle prossime ore, rifuggendo dalla tentazione di rimettere in discussione tutto quanto sino ad ora fatto e con la consapevolezza che, nel giro di pochi mesi, il quadro politico è profondamente mutato. 
Mutate appaiono le stesse azioni messe in atto da un Esecutivo che sembra perdere quella forza, che pur aveva mostrato azionando, non senza contrasti, un profondo processo riformatore.
La (sempre più preoccupante) crisi greca, che angoscia e mina la tenuta del quadro europeo; la conclamata disaffezione degli Italiani nei riguardi del ceto politico (il consenso di chi governa a tutti i livelli non eccede la soglia del 20%), le misure economiche che non incidono a sufficienza e non generano nuova occupazione; gli episodi interminabili di corruzione, sono, tutti, aspetti destinati a minare, rapidamente e profondamente, la tenuta politica del Paese. In un contesto simile, l’emergenza di Taranto corre il rischio di essere, rapidamente, derubricata nell’agenda politica del Governo: occorre prestare molta attenzione.
Il quadro economico del territorio versa in stato di fortissima precarietà: basta guardarsi intorno. La fragile economia che ha generato il Porto negli ultimi quindici anni si è letteralmente dissolta: TCT chiude i battenti e mette in angoscia 540 lavoratori e le relative famiglie. I circa tremila dipendenti di Teleperformance sono “obbligati” a raggiungere un accordo entro il mese di giugno per scongiurare un altro abbandono. Le partecipate della Provincia (Isolaverde) sono legate all’esile filo di improbabili finanziamenti (da reperire non si sa bene dove). Gli “artisti” del Paisiello forse salvano il posto di lavoro, ma difficilmente l’Istituto.
Lo avevamo, abbondantemente, annunciato: un territorio che vive una “transizione” troppo lunga, legata unicamente al ricorso agli ammortizzatori sociali, può facilmente sprofondare nel baratro di una ripresa che tarda ad arrivare, non solo per noi, ma per l’intero Paese.
Ed ora, invece, sappiamo (e ne siamo, fermamente, convinti) che è indispensabile tracciare linee direttive e, conseguentemente, porre in essere soluzioni legittime per la salvaguardia del nostro Territorio e per il rilancio del nostro sistema manifatturiero.
In questi momenti, davvero drammatici, non si deve smarrire quel senso di responsabilità che deve informare ogni momento delle nostre azioni; dobbiamo recuperare e rendere produttive tutte quelle attività economiche che possano portare ricchezza e occupazione al nostro territorio, superandone divisioni e contrasti.
Ma occorrere trasmettere la stessa forza e lo stesso coraggio a quanti, oggi, si impegnano per realizzare quei progetti, mettendo a rischio la propria integrità umana prima ancora di quella professionale.
Questo è, davvero, il momento della “responsabilità”!
                                                           Giancarlo Turi, Segretario Generale UIL Taranto

Un Comune disastrato anche nell'ufficio legale

Sbagliare la linea difensiva su un ricorso?
Chiedetelo agli avvocati del Comune!

Tempa Rossa, no del Tar al Comune di Taranto. Sì al ricorso dei petrolieri

Il Comune di Taranto perde al Tar di Lecce la battaglia contro le opere di «Tempa Rossa», il giacimento petrolifero della Basilicata che fa capo alle compagnie Total, Shell e Mitsui e che vede Taranto, con la raffineria Eni, punto di approdo. Il Comune, con una delibera dello scorso novembre, aveva escluso dalla variante al piano regolatore del porto le due opere di Tempa Rossa: allungamento del pontile petroli e costruzione di due serbatoi di stoccaggio. Le compagnie petrolifere e l’Eni avevano quindi impugnato il provvedimento comunale e ieri i giudici amministrativi hanno dato loro ragione. Il Tar fissa tre punti nella sua sentenza: che l’ampliamento del pontile petroli è previsto nelle intese del 2006 e del 2007 tra Comune e porto ed ora non si può ribaltare il contenuto di quegli accordi senza un confronto preliminare ed un contradditorio con le parti interessate; che il Comune non può opporsi alla costruzione dei serbatoi di stoccaggio del greggio perchè non non saranno realizzati nelle aree portuali ma in quelle industriali della raffineria Eni; infine, che le compagnie del progetto «Tempa Rossa» sono pienamente legittimate a fare ricorso, cosa che invece gli avvocati del Comune avevano escluso davanti al Tar.
Su quest’ultimo punto, infatti, la sentenza dice che «va respinta l’eccezione di carenza di legittimazione sollevata dal Comune essendo evidente l’interesse delle ricorrenti ad impugnare la delibera in quanto incidente non solo sull’intesa raggiunta tra l’ente locale e l’Autorità portuale, ma anche sulla possibilità per le società di realizzare il progetto con conseguente loro diritto di invocarne l’annullamento».
Il Tar poi fa un distinzione tra le opere e dice che solo per il prolungamento del pontile «può parlarsi di modifica unilaterale da parte del Comune» della precedente intesa sul porto. Per i serbatoi, invece, è solo stato effettuato un «indebito inserimento nella variante al Prg adottata nell’ambito del provvedimento volto all’approvazione del nuovo Piano regolatore portuale». Contestando l’intesa e sbarrando la strada al pontile, il Comune ha detto al Tar che l’accordo non è irreversibile e le amministrazioni possono «sempre modificare, anche unilateralmente, la propria decisione sino alla definitiva approvazione del Prp». E’ vero che un’intesa può essere ridiscussa, dice il Tar, ma «deve escludersi che tale possibilità possa essere esercitata unilateralmente, senza il rispetto di alcun onere procedimentale volto a garantire il contraddittorio degli altri enti parte dell’accordo. Se così si ragionasse, si finirebbe per privare di qualsiasi valore vincolante e quindi di utilità lo strumento dell’intesa». In quanto ai due serbatoi di stoccaggio, non solo «tali interventi non costituivano oggetto del nuovo Prp» ma «l’ente locale - sentenzia il Tar - non aveva alcun titolo per inibire la realizzazione attraverso lo strumento adottato (la variante al Prg - ndr), a maggior ragione tenuto conto del fatto che nel provvedimento impugnato il Comune non ha evidenziato alcun profilo di contrasto di tali opere con l’assetto urbanistico del territorio di Taranto e che sulla compatibilità ambientale del progetto “Tempa Rossa” si era già espresso il ministero dell’Ambiente».
Avendo il progetto tutte le autorizzazioni, il verdetto del Tar appare ora un passo avanti verso l’avvio dei cantieri anche se il Comune potrebbe fare opposizione al Consiglio di Stato. Il valore dell’investimento «Tempa Rossa» a Taranto è di 300 milioni. (GdM)

martedì 23 giugno 2015

Idea non originale, tanto pour parler

Già sei anni fa, il regista Nico Angiuli aveva filmato "Otnarat. Taranto a futuro inverso", il dopo Ilva attraverso una visione creativa e piena di prospettive.
Ora questo video ripropone lo stesso tema in forma docu-apocalittica.
Sembra di vedere la rappresentazione del catastrofismo di confindustria e dei sindacati riflessi nell'immaginario dell'operaio.
Non a caso l'analisi di Colucci, riportata sulla Gazzetta lo inquadra come frutto di questo immaginario in una città che non ha bisogno di effetti speciali.
Forse anche senza ricorrere alla poesia visionaria di Otnarat, si poteva essere più realistici e considerare mille altri fattori per provare a fare davvero uno sforzo documentaristico.
Ma questo video mostra la fretta di chi vuole sentirsi il primo e vuol fare rumore per colpire il suo gruppo.
Anche se, come abbiamo detto, non è il primo.
Ed anche se questo rumore vibra già nelle corde dei media allineati e filoindustriali.
E' uno dei tanti.
E siamo sicuri, tanti ancora ne verranno!




«Taranto dopo l'Ilva». Fa discutere film sulla città del futuro

In rete è ormai un fenomeno virale: «Taranto dopo l’Ilva» video di Davide Ippolito pubblicato su Youtube. Si tratta di un cortometraggio; circola in maniera vorticosa particolarmente sui social network; suscita reazioni contrastanti. L’autore immagina - con richiami suggestivi al cinema della catastrofe - il viaggio-reportage di un giovane in città, sedici anni dopo la chiusura dello stabilimento siderurgico, a dismissione (in realtà abbandono) compiuta. Il racconto è crudo, mette sul piatto il ricatto occupazionale in una luce schietta: «Nessuno dovrebbe scegliere se morire di fame o morire di tumore» dice una delle protagoniste, Serena.

Si abbonda in fotogrammi di ciminiere abbattute, impianti in disuso, strade deserte e impraticabili, costruzioni fatiscenti, tanto da ricordare un’esplosione nucleare. Taranto sembra - in alcune scene - gemellata a Pripyat la città ucraina più vicina alla centrale nucleare di Chernobyl, abbandonata dagli abitanti in fuga dopo l’esplosione del reattore nel 1986. Pripyat è da decenni borgo fantasma di ruggine e macerie. E di fuga o tentativi di fuga parlano alcuni dei protagonisti del film: Mario, (sopravvissuto, viene definito così, avvalorando il gemellaggio con la catastrofe); Francesco, ex operaio dell’Ilva, cui si affida il racconto dell’ascesa e della caduta della fabbrica, pagato a caro prezzo - malattie e morte - dai lavoratori prim’ancora che dai cittadini. Fino al muro costruito dallo Stato per impedire l’esodo dalla città senza più pane e speranze: «Gli italiani ci odiavano e noi odiavamo essere italiani».
Accostamento suggestivo, ma non peregrino - non a caso fatto dall’operaio - ai campi di concentramento e all’ odierna condizione dei migranti (ma è stato lo storico Roberto Nistri a definire i tarantini «pellerossa in fuga»). Insomma «Blade Runner» e «1997 fuga da New York» per la città dei due mari, senza più ciminiere; in un cortometraggio del nuovo realismo artistico sbocciato all’ombra dell’acciaieria (la produzione sul tema è ormai ridondante, ma questo lavoro ha il suo contrastante, inquietante, tenebroso perché). Crediamo non regga, piuttoso, la pretesa di guardare al futuro come una profezia. Per un semplice motivo: il film è già presente; forse, addirittura, già passato. Perché Taranto è così da un pezzo: è già un «deserto rosso» prodotto dal ricatto industriale. Per girare alcune scene è bastato, appunto, solo girarle. I «trucchi» non servivano. Senza Ilva, quando davvero chiuderà, crediamo la situazione possa solo migliorare. Paradossalmente. Taranto sarà sola col suo destino. Dovrà finalmente ammettere le sue colpe. E non potrà nemmeno consolarsi con le parole del filosofo Baumann citate nel finale dal protagonista. Quella speranza di salvezza dalla distruzione alimentata dalla nuova alleanza fra intellettuali e popolo. Il deserto industriale, da tempo, ha cancellato anche loro. (GdM)

Titolo da gossip

Per l’Ilva il giudice di Sabrina Misseri

“Gli operai torneranno nell'impianto soltanto quando avremo capito cosa è successo ed escluso le criticità che rendono pericoloso l'altoforno”, trapela della Procura, dopo il sequestro dell’Afo2 d'urgenza e senza facoltà d'uso. Sono dieci gli indagati accusati di omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro; fra questi ci sono anche il direttore dello stabilimento Ilva di Taranto, Ruggero Cola, e i responsabili della sicurezza.
E’ una settimana intensissima, quella che si apre oggi, per lo stabilimento siderurgico tarantino. Ma quando, e come, si potrà capire cosa è successo nell’Altoforno 2, quale evento, al momento inspiegabile, ha condannato Alessandro Morricella, l'operaio 35enne originario di Martina Franca travolto da un'improvvisa fiammata nell'altoforno che già era stato sequestrato nel 2012, e morto dopo quattro giorni di agonia. Testimoni hanno raccontato di aver sentito un boato, come un'esplosione, a cui sono seguite fiamme alte circa 10 metri per una trentina di secondi: una vampata di calore, con una temperatura di quasi 1.500 gradi, che ha letteramente travolto il povero Morricella, padre di due bambine. In settimana il sequestro decretato con urgenza dalla Procura dovrebbe passare al vaglio del giudice delle indagini preliminare, dottor Martino Rosati, gip che ha già seguito tra gli altri anche il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi.
Ad ogni buon conto, l’Ilva punta in questa fase ad un dialogo direttamente con la Procura.
I tecnici specializzati incaricati dal siderurgico di far luce sull'incidente, della ditta tedesca Paul Wurth, doverebbero inviare il loro report al pubblico ministero Antonella De Luca domani o dopodomani, non oggi come voleva l’Ilva. Tra i punti ancora da chiarire in questa drammatica vicenda, quello della cappotta alluminizzata utilizzata dagli addetti alla misurazione della temperatura durante la colata dell'altoforno, che è sparita: non ne è stata trovata traccia né sul luogo dell'incidente né nell'armadietto, mentre brandelli del casco e dei guanti erano vicino al corpo dell'operaio ustionato. Il pm De Luca potrebbe disporre esperimenti anche sul materiale ignifugo indossato dagli operai.
Quella dell’Ilva è, comunque, anche una delicata partita finanziaria. Il caso è all’attenzione del nuovo presidente della Cassa Depositi e Prestiti, il banchiere renziano Costamagna. Su Ilva, Renzi ed il suo consigliere economico Andrea Guerra si aspettavano evidentemente una maggiore collaborazione della Cdp, in termini sia di reattività che in termini finanziari. Palazzo Chigi ha deciso di mandare a casa con un anno di anticipo rispetto alla scadenza del mandato presidente e amministrazione di Cdp, ovvero Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini e lo avrebbe fatto, dicono i rumors, anche per una non omogeneità di vedute sul caso Taranto.(TaBsera)

lunedì 22 giugno 2015

Più prevedibile del sole nel Sahara!

Confindustria Taranto: non si risana l’Ilva chiudendo l’altoforno 2

«Risanare un’azienda diventa impossibile se l’unica risoluzione da adottare rimane la sua chiusura». E ancora: «Recuperare il valore dell’impresa come bene su cui costruire la dignità, il lavoro e il benessere dei cittadini non è immaginabile se a fermarsi è la sua stessa produzione».
Con queste due frasi, inserite in un ampio documento, Confindustria Taranto manifesta la sua preoccupazione per la situazione dell’Ilva dove nei giorni scorsi la Procura ha sequestrato senza facoltà d’uso l’altoforno 2 a seguito dell’incidente costato la vita al 35enne Alessandro Morricella.
L’Ilva ha già avviato le operazioni preliminari alla fermata dell’impianto, ma perché ci sia lo spegnimento effettivo occorreranno circa venti giorni. Un arco di tempo che l’azienda userà per valutare se il gip Martino Rosati convaliderà o meno il sequestro del pm Antonella De Luca. In caso di convalida, l’Ilva ha già annunciato che presenterà ricorso al Tribunale del Riesame.
Il momento è critico perché se dovesse essere confermato lo stop dell’altoforno 2, l’Ilva fermerebbe anche l’altoforno 4 in quanto un solo impianto, per motivi di sicurezza, non può reggere uno stabilimento delle dimensioni del siderurgico. Per questo Confindustria Taranto parla di «delicatissimo passaggio». Perché il sequestro dell’altoforno 2, «una volta convalidato, decreterebbe il punto di “non ritorno”, oltre il quale ogni dibattito non avvrebbe più motivo di essere. La fermata dell’altoforno oggetto di sequestro – dice ancora Confindustria Taranto – porrebbe l’azienda in una condizione di impossibilità, con il solo altoforno 4 in funzione, nel far proseguire la marcia degli impianti».
Secondo Confindustria Taranto, «il terribile incidente dell’8 giugno scorso insegna purtroppo che non si può e non si deve abbassare la guardia sui sistemi di sicurezza» ma «allo stesso tempo non si può innescare un penalizzante atteggiamento di rinuncia rispetto agli obiettivi di ambientalizzazione che si stanno faticosamente portando avanti».
La Procura ha ordinato il sequestro perchè ritiene che l’altoforno 2 sia fonte di rischio, considerato che, dopo l’8 giugno, quando Morricella fu investito da una fiammata e dalla ghisa ad alta temperatura, ci sono stati altri, analoghi episodi, anche se meno gravi. L’Ilva risponde sottolineando che lo Spesal dell’Asl non ha ordinato il fermo immediato dell’impianto dopo il sopralluogo, ma imposto delle prescrizioni di sicurezza. Da attuare in 60 giorni.
L’azienda, invece, le ha attuate a strettissimo giro e quanto ha indicato lo Spesal – sottolinea l’Ilva –, è stato già fatto. (Sole24h)

domenica 21 giugno 2015

Buontemponi della domenica!

Nell'era dei social, è più facile giocare con gli smartphone che legiferare ed amministrare.

Emiliano, giunta a Taranto? Buona idea

"Mi pare una buona idea". Così il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, ha risposto con un tweet al neo consigliere regionale Renato Perrini (Oltre con Fitto) che ha richiesto di tenere la prima giunta regionale a Taranto. "Emiliano - dice Perrini ricordando le numerose vertenze in atto, prime tra tutte l'Ilva - dia un segno tangibile del suo impegno per Taranto, e tenga la prima giunta regionale nel capoluogo ionico". La richiesta è stata accolta via Twitter dal governatore. (Ansa)

sabato 20 giugno 2015

Opinioni e bilanci

Quel che resta delle imprese Iri e cosa farne

Telecom, Ilva e Finmeccanica. Il sistema Italia non appare in grado oggi di mantenere adeguatamente in vita le 3 imprese, che rischiano una deriva progressiva
Quello della privatizzazione massiccia del nostro sistema industriale è stato uno dei numerosi importanti errori compiuti a suo tempo dai governi di centro-sinistra. Le conseguenze di tale decisione si fanno ancora oggi per molti aspetti sentire negativamente sull’andamento della nostra economia.
Tra i pilastri fondamentali del gruppo Iri si potevano indubbiamente collocare in prima fila tre grandi gruppi, Telecom Italia, Finmeccanica, Italsider. Per fortuna, nonostante tutta la buona volontà messa dai nostri successivi governanti di sinistra e di destra, tali strutture sono ancora oggi in vita, ma peraltro esse, chi più chi meno, respirano comunque tutte con difficoltà. In queste note, cerchiamo di fare il punto brevemente sulla situazione attuale e sulle prospettive delle tre aziende.
Ilva
l’Ilva, che gestiva tra l’altro l’impianto siderurgico più grande d’Europa, è stata venduta a suo tempo ai Riva per pochi spiccioli. La famiglia ha saputo spremerla fino in fondo, ricavandone fortissimi utili, una parte rilevante dei quali la magistratura sta cercando ancora di rintracciare in giro per il mondo nei vari paradisi fiscali.
Tali lauti guadagni sono stati, come è noto, ottenuti tra l’altro evitando di fare gli investimenti necessari ad abbattere il pesante inquinamento dell’impianto e questo con la consueta complicità di politici e media. E’ dovuta a suo tempo intervenire la magistratura perché molte delle magagne tenute sotto il tappeto venissero a galla.
I conti della società a livello di vendite e di risultati economici e finanziari sono stati colpiti sia da tale intervento che dall’arrivo della crisi del 2008, oltre che dai nuovi dati dell’evoluzione internazionale del settore.
In effetti, di fronte ad una forte turbolenza dei prezzi di vendita dei prodotti e dei prezzi di acquisto delle materie prime, con il manifestarsi di forti capacità produttive inutilizzate, con una parte crescente del mercato conquistato dai produttori dei paesi emergenti, Cina in testa, tutti eventi tra di loro collegati, si sono sviluppati forti processi di ristrutturazione del settore, con fusioni ed acquisizioni, integrazioni verticali, chiusura di impianti, taglio dei costi.
Oggi la società si trova di fronte a molteplici difficoltà. Intanto sono passati diversi anni dall’intervento della magistratura, ma il processo di risanamento dell’impianto procede in maniera molto lenta, grazie anche alle complicità governative. Peraltro la società avrebbe anche bisogno di trovare o ritrovare i mercati necessari alla sua sopravvivenza di lungo termine, nonché di reperire le risorse finanziarie necessarie a chiudere il cerchio. Il governo sembra essersi rassegnato ad una qualche forma di nazionalizzazione temporanea strisciante dell’impianto,con la speranza di cederlo poi a ristrutturazione completata a nostre spese. Ma tale soluzione appare a nostro parere largamente insoddisfacente.
Telecom Italia
Delle tre imprese citate Telecom Italia è forse quella che ha avuto la vita più movimentata dopo la privatizzazione.

venerdì 19 giugno 2015

Tempismo sindacale

Si rischia la chiusura?
Ecco i sindacati pronti a gettare benzina sul fuoco con l'ambiguità necessaria a far capire che per mandare avanti la baracca ci si può accordare...

Ilva, sequestro Afo2: oggi i sindacati hanno incontrato l’azienda

“L’Ilva rischia la paralisi a seguito della revoca della facoltà d’uso dell’Altoforno n.2”. E’ quanto scrivono i sindacati Fim-Cisl, a seguito della riunione odierna con i vertici dell’Ilva.. “Gli inquirenti – prosegue la nota -  sono alla ricerca delle cause che hanno prodotto la tragedia e in attesa di capire le reali motivazioni – al fine di evitare ogni rischio di nuovi incidenti – è stata revocata la facoltà d’uso dell’impianto”.
Durante l’incontro di questa mattina con la direzione aziendale, ai sindacati è stato illustrato il provvedimento, dal quale si evince che in questo momento Afo2 non sembra nelle condizioni di poter garantire il “non verificarsi di altri eventi simili”.
L’azienda, quindi, ha presentato al custode giudiziario il cronoprogramma dei lavori ed il team incaricato allo spegnimento di Afo2. Programma che verrà confermato a seguito della verifica dei materiali necessari per procedere con lo spegnimento. Occorrono fino a due settimane per spegnere l’impianto e l’azienda intende utilizzare questo tempo anche per produrre opportuna documentazione redatta dai tecnici incaricati.
Nel frattempo, i legali aziendali stanno presentando un ricorso per chiedere di non spegnere l’afo2. L’azienda è in contatto con il Ministero del Lavoro per valutare le ricadute in termini di ammortizzatori sociali, qualora si arrivasse all’eventuale fermata altoforno.
I dubbi sulla marcia con un solo Afo sono tanti. Si resta in attesa dei risultati su dpi e sugli accertamenti circa la dinamica degli eventi. La Fim-Cisl chiede che lo sforzo maggiore venga fatto verso l’accertamento delle verità, piuttosto che altri obiettivi.
La presenza di un solo Altoforno in marcia non garantirebbe le condizioni ottimali di sicurezza, per cui non si esclude la necessità della fermata complessiva della produzione. (Cosmopolismedia)

Il Governatore tuona se gli toccano l'Adriatico

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Trivelle in Adriatico, Emiliano impugnerà legge del governo dinanzi alla Consulta: “No a ricerche per accontentare lobby”

Michele Emiliano nel solco di Nichi Vendola. Nonostante tutto. Il neo governatore della Regione Puglia ha confermato e ribadito la decisione di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale il decreto del governo riguardante le trivellazioni in mare Adriatico. Il presidente regionale (nonché segretario pugliese del Pd) contro un provvedimento del governo a matrice democratica: dopo le frizioni con Matteo Renzi sulla riforma della scuola, la storia si ripete. E questa volta la portata è decisamente più istituzionale. “In questo momento serve soprattutto ragionamento e un approccio scientifico alla decisione politica. Bisogna dimostrare a cosa servono queste trivellazioni” ha detto Emiliano a margine di un incontro tra i sindaci pugliesi contrari alla scelta del governo. Non solo, perché l’ex sindaco di Bari ha anche spiegato il motivo della sua presa di posizione ufficiale: “Se lo scopo è semplicemente accontentare qualche lobby, peraltro ancora sconosciuta e indeterminata, nella speranza che non lo trovi neanche il petrolio, a me sembra un modo non preciso di ragionare” ha continuato il governatore. Il quale, per quanto riguarda i tempi dell’impugnazione dinanzi alla Consulta dello Sblocca Italia, ha anche precisato che “se l’avvocatura regionale giudicasse necessario procedere all’impugnativa anche prima del mio insediamento, col presidente Vendola abbiamo già determinato che questa cosa avverrà”.
“Governi sottoposti a pressioni, ma questa scelta è rischiosa”
“Capisco bene che i governi sono sottoposti a tante pressioni però penso che i parlamentari pugliesi, i parlamentari italiani in generale, debbano considerare che questa strada della ricerca del petrolio nel mar Mediterraneo è molto rischiosa” ha proseguito Emiliano. Per il segretario pugliese del Pd la decisione di Renzi è sbagliata “perché si tratta di un mare centrale dal punto di vista strategico e culturale, e soprattutto che è un mare chiuso. Quindi è molto rischioso giocare con il petrolio nel Mediterraneo”. Emiliano, poi, dopo aver sottolineato di voler difendere pesca, turismo e qualità delle acque, ha ricordato che uno dei suoi obiettivi è quello di “andare verso un modello energetico diverso, non fondato sui combustibili fossili. Anche perché la Puglia dal punto di vista energetico è autosufficiente, e quindi non abbiamo bisogno di cercare altre fonti pericolose di combustibili fossili”. A chi gli chiedeva se la battaglia contro le trivelle si sposterà a livello europeo, Emiliano ha riposto: “Innanzitutto dobbiamo tenere insieme tutti i popoli dell’Adriatico e, probabilmente, anche dello Ionio, che rischiano di trovarsi coinvolti in questa storia senza avere deciso né voluto queste trivellazioni”. “Questo processo politico sarà un processo istituzionale – ha spiegato – nel quale noi ci muoveremo come Regione Puglia, senza considerare il fatto che a Roma c’è una maggioranza di governo certo diversa da quella che governa la Puglia che ha un modello diverso, ma rappresentando soprattutto gli interessi del territorio“.
Incontro a Polignano a Mare contro le trivelle
Le parole di Emiliano sono arrivate a margine di un incontro interistituzionale convocato dal sindaco di Polignano a Mare (Bari), Domenico Vitto, per concordare una strategia comune contro le trivelle, in particolare contro il provvedimento recente di autorizzazione da parte del ministero all’Ambiente a prospezioni geosismiche al largo della costa tra Mola e Fasano. All’incontro erano presenti i rappresentanti delle istituzioni dei comuni costieri, i consigli comunali e rappresentanti dei movimenti ambientalisti. Nel corso della riunione il presidente uscente del consiglio regionale Introna ha ribadito la richiesta al presidente uscente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per l’immediato, e a Michele Emiliano per il prossimo futuro affinché venga presentato al più presto il ricorso contro le decisioni del ministero, ricordando che la Regione Puglia è tra le Regioni italiane che ha presentato ricorso alla Corte costituzionale contro le norme dello ‘Sblocco Italia’ che ‘aprono’ alla scelta della ricerca di idrocarburi in mare. Emiliano ha confermato di aver concordato con Vendola una linea comune che prevede il ricorso “contro tutti i provvedimenti che minacciano il nostro mare”. Il neo governatore ha inoltre annunciato “una legge sulla partecipazione attiva che renderà più difficile – ha detto – attentare all’ambiente”. (FQ)