Come si può parlare di progresso quando si muore ancora di lavoro
Quando, giovane tecnico appena diplomato, negli anni ’80 mi accingevo ad avviare la mia carriera lavorativa in fabbrica, mi dissero che la tecnologia
che stavo portando avanti con la mia specializzazione avrebbe garantito
un progresso nel mondo del lavoro davvero molto rilevante. Ci sarebbe
stata una produzione di altissimo livello, si sarebbero elevati standard di sicurezza
in maniera importante per i lavoratori. Inoltre, lo sviluppo
tecnologico avrebbe permesso di lavorare con minori sforzi da parte
delle maestranze e, quindi, anche dando ai lavoratori la possibilità di
essere sgravati da incombenze molto pesanti.
Oggi, dopo quasi 30 anni, in parte posso dire che è vero quanto sopra esposto, ma devo altresì ammettere che tale forma di progresso ha portato anche un regresso molto
significativo. Certamente complice un sistema economico che sta
diventano ormai disumano, privo di sentimenti verso le persone. Stiamo,
quindi, assistendo alla demolizione dei principi che hanno avviato
l’iter positivo di ciò che credevamo davvero potesse essere progresso.
Mi riferisco a molte condizioni di lavoro in cui si trovano gli operai in fabbrica,
costretti spesso a lavorare con temperature ambientali insostenibili e
per lunghi periodi. Come possiamo parlare, infatti, di progresso, se in una fabbrica a Rovereto, nel ricco e benestante Trentino, in questi giorni è deceduto un operaio che stava lavorando in un reparto con 48 gradi centigradi di temperatura ambientale?
Ma di che progresso parliamo quando a Taranto, per l’Ilva,
si baratta il diritto al lavoro con la salute di operai e cittadini che
abitano nella zona? Ma di quale progresso parliamo se i nostri giovani
non trovano lavoro, grazie anche al fatto che i “vecchi” lavoratori si
trovano ad occupare i posti di lavoro per tempi lunghissimi, ben oltre i 40 anni di servizio? Come possiamo parlare di progresso, in queste condizioni? Romano Prodi, al tempo dell’avvio dell’euro, disse che avremmo lavorato almeno un giorno in meno alla settimana;
lui pensava al progresso di meno lavoro a pari condizioni economiche,
ma ora come possiamo parlare di progresso se in molte fabbriche si
lavora davvero un giorno in meno a settimana, ma per garantire i contratti di solidarietà per dare lavoro a più persone e, ovviamente, con un reddito inferiore?
Il concetto a noi noto di progresso è un altro; progresso significa poter vivere con dignità,
con la dignità data da un lavoro decente, che non metta a repentaglio
la salute o addirittura la vita dei lavoratori; progresso significa dare
spazio ai nostri giovani, perché possano esprimere
appieno le loro potenzialità e le loro conoscenza acquisite con studi,
magari fatti anche all’estero per migliorare l’uso delle lingue.
Progresso significa dare fondi alla ricerca, alla
scuola, per poter far crescere il tessuto sociale della nazione. Invece,
stiamo assistendo ad un lento (mica poi così tanto) regresso, con tagli
alla scuola, eliminazione di diritti di tutela e salvaguardia dei
lavoratori, con regole assurde che non garantiscono la necessaria
tranquillità ai lavoratori, in merito alla dignità di avere un posto di
lavoro e che sia magari anche sostenibile dal punto di vista della
salute.
Dobbiamo essere chiari, almeno dirci le
cose come stanno; quello che stiamo vivendo in questi anni non
rappresenta il progresso, ma un pieno e totale regresso, verso
condizioni che saranno sempre più insostenibili. Per tornare a credere nel concetto vero di progresso, abbiamo l’indispensabile e urgente necessità di cambiare metodo,
di trovare nuove vie davvero sostenibili. Per parlare di nuovo di reale
progresso dobbiamo credere davvero, con i fatti e non con gli annunci
mediatici, nel mondo della scuola, nel mondo della ricerca e,
soprattutto, nella dignità dell’uomo, da mettere al
centro di tutto, prima degli interessi delle banche, prima degli
interessi dell’economia stessa, che forse ha dimenticato di essere nata
proprio per soddisfare le esigenze dell’umanità e che, invece, sta
diventando un’arma micidiale per distruggere proprio chi l’ha creata:
quello stesso uomo che credeva nel progresso, ma che ora sta spingendo
verso un regresso insostenibile. Una conversione radicale è necessaria,
prima che il regresso prenda davvero troppa consistenza come concetto
sostitutivo alla parola che lo rappresenta, erroneamente, nella gestione
attuale, che invece crediamo si chiami progresso!
Quali le vie da percorrere?
Riduzione reale degli sprechi, in tutti i
settori, maggiori investimenti nella ricerca e nella scuola (ma reali,
non di facciata, come si vuole far credere), tutela dei lavoratori e
sviluppo di ambiti economici sostenibili. Utopie? No, parliamo di progresso vero,
quello in cui credere. Da qui si parte per un vero rilancio di una
società in decadimento; diversamente, stiamo mistificando la realtà! (Marco Ianes - FQ)
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