Per chi ha un paio di minuti da gettare, consigliamo comunque di evitare di leggerla.
Noi la mettiamo agli atti di questa farsa epocale.
I giudici distinguano tra processo e azienda
Gli articoli sulla questione dell’Ilva di Taranto, comparsi a firma di Paolo Bricco su Il sole 24 ore del 24 e 25 luglio, si inseriscono sul più ampio dibattito suscitato dalle dichiarazioni del vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura sulla necessità che il giudice sappia valutare gli effetti delle proprie decisioni
L’esigenza di tener distinte le vicende del processo dal destino dell’azienda, sottolinea un dato che è sinora sfuggito al dibattito: la quasi totalità delle condanne che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto al nostro Stato è stata determinata proprio da tale omessa valutazione.
Strumento di protezione degli interessi che in un determinato momento sono ritenuti dai governanti meritevoli di tutela, il processo penale può risolversi – e storicamente si è risolto – in un arnese di oppressione o prevaricazione dei diritti fondamentali appartenenti anche a persona diversa da quella oggetto del procedimento.
I diritti che vengono in discussione sono quelli del rispetto della vita privata (art. 8 della Convenzione europea), delle libertà e sicurezza (art. 5), del principio di sicurezza giuridica (art. 7), della tutela della proprietà con riferimento a sequestri e confische (art. 1 del 1° protocollo aggiuntivo alla Convenzione). E ciò senza considerare le reiterate violazioni delle regole del giusto processo e dei canoni del processo celere (art. 6).
Nella mia non felice esperienza, nel 2013, di Garante per l’attuazione dell’Aia dell’Ilva di Taranto non mancai di segnalare (e gli atti sono ancora tutti consultabili sul sito dell’Ispra) come, secondo la Corte di Strasburgo, il sistema assicurato dalla Convenzione europea in materia ambientale riposasse su due capisaldi: quello della Corporate governance (dovere primordiale dello Stato di dotarsi di un quadro legislativo ed amministrativo mirante ad una prevenzione efficace e avente una idoneità dissuasiva) e quello dell’obbligo e di incriminazione e di esercizio dell’azione penale; il primo di carattere preventivo, l’altro di carattere successivo e repressivo.
Ma al contempo denunciavo come la peculiarità della situazione consistesse nella circostanza che, a quel momento, i due profili di tutela apparissero tra loro concorrenti e non tra loro temporalmente ordinati.
Ed ammonivo come in quella confusa situazione venissero in discussione il diritto alla salute, all’ambiente, al lavoro, alla conservazione del posto di lavoro, all’iniziativa economica e privata ed alla stessa tutela della proprietà; diritti che trovano, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, la loro tutela, secondo i casi, nel diritto alla vita (art. 2 Conv.), o in un largo concetto del rispetto alla vita privata (art. 8), o in una concezione sociale dei beni (art. 1 del citato 1° protocollo).
Resta da parte mia il rammarico per essere stato da pochi percepito il ruolo neutro del Garante di indiscussa indipendenza (come era detto nella legge istitutiva), equidistante tra gestore e governo, tra controllato e controllore: garante, quindi, non del governo o dell’Ilva, ma garante della legge nei confronti della collettività.
Oggi l’incancrenirsi della situazione può aprire uno scenario tale da far scolorire completamente quello relativo a Punta Perotti di Bari (caso Sud Fondi, sentenza della Corte del 20 gennaio 2009), che pur costituisce, ancora oggi, un buco nero di dimensioni inestimabili per le nostre finanze.
Ma nessuno – ad onta persino dei morti e del dolore – diventerà rosso di vergogna, anzi paonazzo, come nessuno lo divenne, quando, sotto questo titolo, Alessandro Pizzorusso commentò, la prima sentenza di condanna dell’Italia (caso Artico, sentenza della Corte del 13 gennaio 1980).
Vitaliano Esposito è stato garante dell’Aia per l’Ilva di Taranto (Sole24h)
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