Alessandro Leogrande racconta nascita e sviluppo del "mostro d'acciaio" dalla prima pietra ai giorni nostri.
Buon ascolto!
Qualche cenno storico d'archivio
La storia: il 9 luglio 1960 la posa della prima pietra
TARANTO - «S’inizia una nuova era» titolavano i giornali il 9 luglio del 1960 finita, appena, la cerimonia di posa della prima pietra. Hanno cambiato tante volte nome le acciaierie tarantine: da Ilva a Italsider per tornare, con la privatizzazione e l’avvento di Emilio Riva all’antico: Ilva, il nome latino dell’Isola d’Elba dove gli Etruschi e poi gli stessi Romani estraevano il ferro. E di “terra di ferro”, secondo una definizione cara al poeta-operaio italsiderino Pasquale Pinto, si deve parlare guardando a Taranto nella metamorfosi industriale datata 1959, quando il governo Tambroni dà il via libera alla costruzione del IV centro siderurgico. Vaticinato dalla Dc delle Partecipazioni statali, con un forte marchio di centrosinistra per il crisma dato da Moro e Fanfani al rapporto tra Mezzogiorno e lavoro al Sud. Una svolta economica per Taranto.Un sindaco dell’epoca, Angelo Monfredi, disse: «Lo avremmo costruito anche al centro della città». I numeri inizialmente gli danno ragione. Nel 1961 Taranto aveva 194mila abitanti; nel 1971 oltre 227mila. In mezzo al decennio la crescita impetuosa dell’acciaio e la fabbrica “bianca”, dominata dal sindacato cattolico Fim Cisl con il carismatico punto di riferimento dell’arcivescovo Guglielmo Motolese. Non a caso, nella notte di Natale del 1968, Paolo VI decide di celebrare messa tra gli altoforni.
Dall’inizio degli anni ‘70 però, la parabola dell’acciaio avvia il suo percorso discendente. Prima si discute di raddoppio dello stabilimento e di “Vertenza Taranto” proprio per compensare la crisi. Comincia a serpeggiare la tesi di «andar oltre la siderurgia», ma il modello dell’industria di Stato, con il corollario assistenzialistico-parassitario, ha preso piede infettando anche il sistema economico e politico locale (le industrie locali dell’indotto non brilleranno mai per autonomia).
È una lunga discesa fino al tracollo e alla vendita dello stabilimento agli inizi degli anni ‘90. Emilio Riva diventa patron dell’Ilva nel ‘95, l’acquisto delle acciaierie si rivela un affare. Cambia il modello produttivo, spariscono assistenzialismo e connivenze politiche dirette, entra in una fase conflittuale il rapporto con i sindacati, si svecchia la classe operaia. Agli inizi degli anni 2000 prende piede la questione ambientale come emergenza. Una prima avvisaglia è lo stop del 2002 alle cokerie dell’ex sindaco Di Bello. Poi gli atti d’intesa e i tentativi politici di ammortizzare lo scontro con gli ecologisti, mentre l’Ilva macina record di produzione (fino a 10 milioni di tonnellate d’acciaio). Il resto è cronaca: dalla legge sulla diossina agli sforzi di compatibilità ambientale degli impianti, all’inchiesta della magistratura su inquinamento e morti. Anche questa una svolta storica. (GdM)
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