La crisi Ilva è costata 10 miliardi
E, così, in tre anni sono andati in fumo 10 miliardi di euro di Pil. Per la precisione 9,87 miliardi di euro. Su richiesta del Sole 24 Ore, la Svimez ha adoperato il suo modello econometrico per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese. I numeri lasciano senza fiato. La Svimez ha calibrato il suo modello sull’effettivo utilizzo – nei tre anni di tempo – della dotazione produttiva di quello che, un tempo, è stato l’impianto siderurgico più grande d’Europa. Questa analisi certosina ha tenuto conto dell’andamento reale che ha visto i quattro altoforni del ciclo integrale di Taranto ora – a turno - in piena attività, ora in parziale funzionamento, ora sequestrati dalla magistratura e ora sottoposti a ristrutturazioni. La stima effettuata dal gruppo di lavoro coordinato dall’economista Stefano Prezioso ha tenuto conto anche dei modelli analitici di Ipres e di Remi-Irpet.In questo contesto, l’Ilva ha avuto conseguenze anche sulla società italiana. Secondo il modello econometrico della Svimez, infatti, fra il 2013 e il 2015 la perdita cumulata di consumi delle famiglie – espressione diretta e indiretta della crisi dell’acciaieria – è stata pari a 1,45 miliardi di euro. Questi numeri, stimati dalla Svimez con criteri prudenziali, nella loro cruda dimensione quantitativa non rivelano del tutto la natura pervasiva della destrutturazione che l’Ilva ha sperimentato in questi tre anni. Il problema di alcuni settori, in questo caso la siderurgia, è che la perdita di competenze, collegata a ripetuti traumi, non si ricostruisce con facilità e rapidamente. Dunque, sul medio e lungo periodo vi saranno ancora altre, e più durature, conseguenze. Il tutto è solamente l’inizio. D’ora in poi ci si muove in terra incognita. I perimetri di questa terra incognita saranno definiti – nei prossimi mesi, nei prossimi anni, nei prossimi decenni – dalla miscela composta da un lato dalle conseguenze reali dell’ultimo conflitto fra Procura di Taranto e Governo e dall’altro dal naturale dispiegarsi dell’attuale degenerazione della fisiologia industriale e finanziaria dell’organismo Ilva.
Primo aspetto: il tema del conflitto fra magistratura e impresa. Il gesto compiuto venerdì scorso – i carabinieri inviati dai magistrati di Taranto dentro la fabbrica ad identificare i diciannove operai presenti all’apertura dei sigilli dell’altoforno 2, successiva al decreto del Governo – delinea lo scenario peggiore: il Governo potrebbe pensare alla chiusura dell’altoforno 2, a cui per ragioni di sicurezza e di «funzionamento» industriale dovrebbe seguire quello dell’altoforno 4. Così, l’acciaieria verrebbe di fatto spenta. Resterebbero le macerie industriali. Il problema ambientale ereditato dall’Italsider e dell’Ilva dei Riva diventerebbe irrisolvibile (ricordate Bagnoli? La scala qui è ben maggiore). La questione sociale assumerebbe tinte fosche: bisognerebbe gestire l’uscita dal mondo di lavoro di 11.400 dipendenti diretti dell’Ilva e di 6mila occupati indiretti a Taranto, più quella degli 800 dello stabilimento di Novi Ligure e quella dei 1.400 di Genova. La voragine finanziaria diventerebbe incolmabile.
Anche l’altro scenario – senza indulgere in quello apocalittico – appare non semplice. La struttura guidata da Massimo Rosini, ex capo delle operations di Indesit, ha una cifra non industrialista, ma manageriale. Per esempio, sta lavorando con grande impegno sul circolante e sull’equilibrio aziendale dei conti operativi. Un approccio di razionalità economica, che sarebbe perfetto per una impresa in condizioni di normalità e non di costante eccezionalità.
La destrutturazione, nel rapporto fra industria e mercato, appare però drammatica. E appare la conseguenza di una stratificazione di scelte che si sono susseguite in questi tre anni, iniziati il 26 luglio del 2012 con il sequestro dell’acciaieria e l’arresto dei Riva e dei loro principali collaboratori, in un procedimento basato sull’accusa di disastro ambientale e su 174 persone morte – fra 2005 e 2012 – per l’inquinamento. Regge, per ora, il rapporto della produzione di Novi Ligure con l’automotive. Anche se Taranto ha perso le forniture dello stabilimento Fiat-Chrysler di Melfi, che preferisce ormai approvvigionarsi con i produttori coreani. La chiusura dell’acciaieria 1, essenziale per le lamiere, ha slabbrato le relazioni con i grandi gruppi dell’edilizia e delle infrastrutture. Sono venute meno molte certificazioni, indispensabili per lavorare con i tubi dell’Oil and Gas. C’è, poi, negli stabilimenti – in particolare a Taranto - un problema di organizzazione industriale, con la sedimentazione di nuove competenze provenienti da altri settori – non siderurgici - che le diverse gestioni succedutesi alla guida dell’azienda hanno portato da fuori e con i vuoti che si sono venuti a creare – soprattutto nei reparti più operativi – per il congelamento di professionalità giudicate troppo legate alle vecchie leadership proprietarie (i Riva) e manageriali (l’ex commissario Enrico Bondi).
Infine, esiste la questione della finanza di impresa: nel senso del profilo di cassa e nel senso degli effetti sulla liquidità e sulla posizione debitoria dell’intermittenza sperimentata dall’acciaieria. Il profilo di cassa è basato sui 70 milioni di euro ottenuti nei mesi scorsi dalla vendita delle quote di CO2, sui 156 milioni di euro versati da Cdp attraverso Fintecna, sugli 70 milioni prestati dalle banche (Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare) e sui 100 milioni di euro versati alla società a fine giugno dalla Cdp, prima tranche del finanziamento di 330 milioni con cui la piccola Iri è intervenuta nella partita. Ci sono poi gli effetti sulla finanza di impresa del funzionamento a intermittenza dell’acciaieria, un problema strutturalmente e concettualmente enorme, dato che fabbriche di questa dimensione e con queste strutture dei costi perdono a bocca di barile sotto un certo livello di attività. L’Afo 1 dovrebbe ripartire – se l’intera operazione di «riaccensione» dell'altoforno con fornitori funzionerà senza intoppi – il 1 agosto. La gestione Bondi, che contava sul funzionamento degli Afo 2, 4 e 5, perdeva fra i 35 e i 40 milioni di euro al mese. L’Afo 5, che da solo vale il 40% della capacità produttiva dell’impianto, è spento. Da marzo a luglio, con gli Afo 2 e 4, l’Ilva ha prodotto perdite operative e industriali (puramente da ciclo produttivo, dunque senza calcolare il peso salariale mitigato dai contratti di solidarietà) che si possono approssimare in un centinaio di milioni di euro al mese. Dal 1 agosto gli Afo 1, 2 e 4 – nell’ipotesi che il Governo non decida di spegnere l’acciaieria di fronte alla resipiscenza dello scontro con i magistrati - saranno in funzione e, con gli attuali ritmi di produzione, dovrebbero attestarsi su una perdita da ciclo produttivo stimabile in 65 milioni di euro al mese. Tutto questo si inserisce su un profilo patrimoniale che nei primi due anni di commissariamento ha visto bruciare 2,5 miliardi di euro di patrimonio netto: il 30 settembre del 2014, la somma di capitale sociale più riserve ammontava a 1,096 miliardi di euro. Interpellata dal Sole 24 Ore, la struttura commissariale ha preferito non rivelare il valore del patrimonio netto al 30 giugno di quest’anno. Di certo, l’azienda non è ancora del tutto saltata in aria proprio grazie all’utilizzo di quel miliardo di euro di capitalizzazione residua che c’era dieci mesi fa. Fra morti e ambiente, politica e giustizia, industria e finanza ci sono poi i piccoli particolari rivelatori. La complessità di quello che è ormai l’enigma Ilva è ben rappresentato da un casco giallo, da un casco rosso e da un casco bianco. Il giallo è dei capisquadra, il rosso degli operai e il bianco degli impiegati. Qualunque cosa capiti al di fuori dell’acciaieria, ogni uomo ha in testa un casco. Oggi, però, i colori non corrispondono più alla funzione. I copricapi ci sono. E la sicurezza, in questo, è garantita. Ma non esiste più – per una questione economica e organizzativa - il numero giusto di caschi. Il colore che ognuno si ritrova sulla testa è casuale. Un piccolo curioso dettaglio, in una storia drammaticamente grande. (Paolo Bricco - Sole24h)
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