Running away from Taranto: storia di Giuseppe Bonomo, musicista
Una città industriale, all’ombra dell’Ilva, con una possibilità in più: la musica. Ma non pizzica...Di Luca Pakarov
Da qualche tempo stavo cercando una storia sulla città di Taranto, qualcosa che avesse a che fare con l’Ilva e anche no, in cui si vedessero i sortilegi di un’altra quotidianità, non solo quelli legati alla diossina. Ho vagliato un paio di amici di conoscenti: uno era un ex calciatore semiprofessionista che, davanti a una sola birra, senza tanti preamboli si sbottona e mi confessa con orgoglio che naviga a tre pezzi di coca al giorno: «Non male, bravo», dico, «però che mi racconti di Taranto?». «Cazzo ne so, sono sette anni che non ci metto piede». Sull’altra tritapalle che mi ha tenuto un’ora al telefono nemmeno vale la pena perdere fiato. A proposito cara, se leggessi ‘sta roba, ritelefonami pure a qualsiasi ora, sei in blacklist. Ed arriviamo allora a Giuseppe Bonomo, professione musicista, ex operaio, emigrato da diversi anni a Cesena che ho scoperto quando, un amico, mi parla di un tizio che aveva beccato il ladro in casa e che gli si era rinserrato in bagno: «Lui vive a Cesena, ma è di Taranto, ti dirò, a novembre esce il suo primo disco...». «Ma del ladro o del derubato?». «Del derubato». «Mmh, perché non mi fai avere il disco? Magari il ladro era uno scagnozzo della Sony per fregargli il master». «È molto bravo, nel disco parla anche dell’Ilva».
E siccome il mio amico è molto affidabile anche se recensisce per la concorrenza, incontro Giuseppe in una tranquilla domenica di paura, con autostrade collassate e il ristorante che mi prendo la briga di prenotare – il classico posto silenzioso – in cui si festeggiano i compleanni di due arzilli vecchietti, sbronzi, finiti di prepotenza dentro la mia registrazione. Veterani bastardi.
La vicenda di Giuseppe è semplice, stava per entrare all’Ilva (con tanto di colloquio superato e giro esplicativo nei reparti) quando ha capito che voleva immolarsi per i suoi sogni. Sinceramente già l’ho sentita, e glielo faccio notare che questo trend pare sia il leitmotiv di parecchi tarantini, soprattutto artisti: «Il fatto è che c’è solo quello, molti dei miei amici hanno familiari che lavorano all’Italsider, molti genitori dei miei amici sono morti, mio padre stesso ha avuto un cancro al colon, per andartene hai più che buoni motivi».
Qual è allora la molla che scatta quando si entra all’Italsider?
"La famiglia a Taranto è un’istituzione molto forte ma è anche una placenta che rischi di non toglierti mai, si è sempre coccolati, ti protegge e ti alimenta continuamente e questo in un certo senso crea un’eterna e deleteria immobilità e se magari non hai grosse prospettive, che il tuo problema maggiore è quello di cambiare la macchina, eccoti a tapparti il naso, e finire all’Italsider.
Alcuni però fanno il colloquio e quando vedono cosa c’è dentro, perché altrimenti non puoi entrare, ci ripensano, scappano e si immaginano una vita diversa. Nel mio caso, facevo corsi di musica postdiploma ma alla fine tornavo sempre a Taranto perché a Milano con i soldi non ce la facevo, e poi a Taranto avevo la band. Perfino i miei genitori mi hanno detto vattene da qui".
Mi racconti il tuo colloquio per l’Ilva… se non ti manda di traverso le tagliatelle...
"Feci tutti gli esami di buona costituzione fisica, al colloquio il tipo era molto silenzioso, guardava il mio curriculum alla fine mi disse: 'ma lei sa che noi cerchiamo ragazzi da far lavorare negli impianti?'. Gli impianti sono gli altoforni che non si possono spegnere, si lavora su tre turni... per farmi capire che non mi avrebbero messo in segreteria".
Tutto qui? Non troppo entusiasmante in effetti. Adesso Taranto ha una visibilità perversa, io stesso stavo cercando un modo per parlarne anche se vorrei presto andare sul campo; i riflettori accesi ti sembra facciano bene alla città?
"Vedi quell’articolo che hai con te (La Stampa web del 22/10/12: Così all’ombra dell’Ilva cresce la Taranto rock a firma Luana Giacovelli, N.d.R.), parla del gruppo Le carte, e sono leccesi! Sarebbe un bene se dicessero almeno le cose vere, c’è sempre questa tendenza a confondere Lecce con Taranto".
Come vedi ora la situazione dell’Ilva e come plasma i progetti, soprattutto musicali, dei tarantini?
"È una guerra tra poveri, dove hanno fatto volutamente due fazioni con l’obiettivo di dividere. Ci sono operai lì dentro che stanno inviando curriculum ovunque perché sanno che tira una brutta aria. Poi c’è chi se la gioca e dice o si muore di fame o di cancro, ho tuttavia delle possibilità di vivere, chi è fuori è ovvio che sia a favore della chiusura. Si sciopera per non fermare l’impianto; Riva, abbiamo saputo, ha pagato i lavoratori in busta quando hanno fatto la manifestazione dei primi di settembre. Nei progetti tarantini, anche musicali, c’è l’autodistruzione. Nel periodo che dai centri sociali nascevano le posse, Lecce è riuscita a sfornare nomi, da Taranto, quei quattro cinque gruppi sono scomparsi presto. Non ci crederai ma ho ritrovato molto dell’atteggiamento dei tarantini in Dubliners di Joyce".
Joyce racconta di persone sempre in bilico fra l’andarsene e il restare, sconsolate dal grigiore e dalla staticità che emana Dublino... Taranto, uno che vive qualche chilometro più su, non se la immagina proprio così...
"Le storie di Joyce si chiudono in se stesse, non succede mai niente, così a Taranto hanno tutti questa speranza interna e una vita psichica, è il pensiero che si muove ma vera azione non ce n’è. In Irlanda io ho trovato un nuovo sud, secondo me quella loro malinconia assomiglia alla nostra, non a caso Taranto come l’Irlanda è accerchiata dall’acqua. Ti dirò di più, siamo dei fanatici bevitori di birra Raffo, la nostra birra cittadina a un euro, la trovi solo lì, un po’ come la Guinness. E il nostro santo patrono, San Cataldo, è irlandese".
Il Generale Inverno di Bonomo, Foto Stampa
E
che cazzo! Pure l’epica di Taranto! Non mi dire che fate anche la
stessa musica però! In quell’ambito sarete in concorrenza con Lecce..."Lecce ha creato l’immagine del reggae e la pizzica è roba loro. Apro una parentesi. Io sono un fan del krautrock che è questo genere di rock nato in Germania negli anni ’60 e ’70, fatta da ragazzini cresciuti dopo la seconda guerra mondiale, quando la cultura popolare germanica era stata annientata. Gente tipo Stockhausen che s’è rivolta alla musica elettronica, reinventando il linguaggio germanico, lavorando sul noumenico e non sul fenomeno popolare e da cui sono venuti fuori dei gruppi importantissimi. Il primo a restaurare questa musica è stato David Bowie con la trilogia berlinese. Ho cercato di immaginare una cosa simile a Taranto, appunto non di creare una musica tarantina ma lavorare su quello che c’era sul territorio con i gruppi rock e dark, quelli schiacciati dall’arrivo della pizzica, quelli come noi che non potevano più suonare alla Festa dell’Unità". Però c’è un motivo preciso perché non vi volevano? (È la domanda che si associa perfettamente alla frittura di paranza appena planata sul piatto).
"C’è stato un equivoco, hanno identificato l’espressività rock, gotica o oscura con la destra. E poi volevano più feste e meno eventi culturali. Oppure semplicemente, visto che Taranto aveva già avuto il suo periodo dark e new wave ad inizio anni ’80, erano stanchi. Ammetto che queste sono parole di un musicista frustrato".
Eppure Taranto negli anni ’80 aveva un bella scena live...
"C’è una foto in cui vedi i Bauhaus che giocano a pallone fuori del palazzetto del basket oppure i Simple Minds che fanno tre tappe in Italia, e una è Taranto. È una città che ha esportato molti musicisti, arrangiatori, ma un gruppo tarantino non è mai uscito. Pare che non si riesca a costruire qualcosa di collettivo, anch’io con la mia vecchia band eravamo riusciti ad avere alcuni buoni successi ma poi, quando c’è stato da tirar fuori i soldi per il cd, investire, nessuno c’ha creduto. È come se si fosse demotivati. Negli anni ’80 ci fu una guerra fra due famiglie per il controllo dello spaccio d’eroina: quale realtà culturale poteva venir fuori da mafia, eroina, industria pesante e la base militare? Dove sono nato io c’erano solo palazzoni in mezzo al nulla".
Che tipo di espressività artistica c’è a Taranto? Fino alle tagliatelle credevo si trattasse di ballate o robe solari, e forse anche reggae...
"Per i motivi che ti dicevo l’espressività artistica è molto oscura, è musica venuta fuori con la new wave, i The Sound, gli Ultravox, i dark dei Bauhaus, e i dark ci sono ancora. Nei paesi i ragazzi ascoltano molto metal. Io sono un difensore della diversità, nel momento in cui il cantautorato si sposta verso il folk americano, io mi sposto verso l’elettronica e il britpop, è la mia unica maniera di sopravvivere. In una terra come Taranto i progetti musicali che hanno rincorso le mode li ho sempre sentiti poco sinceri dal punto di vista artistico, non c’è mai stata un’espressività solare ed anche per questo ti dico che lotto contro la pizzica, per far sapere all’Italia che Taranto è una città violentata dall’industria pesante di Stato. In un certo senso volevo che si sapesse che è una città brutta, non esteticamente, che è bellissima... ma quello è solo il suo passato glorioso...".
A Taranto si sente questo fermento culturale ritrovato dalla Puglia anche, pare, grazie al lavoro di Vendola?
"No, la Puglia è una regione molto lunga. I soldi che arrivano Taranto non li vede, non a caso la città ha anche dichiarato dissesto economico con la giunta Di Bello. Un esempio, non ci sono locali dove suonare, sono sempre gli stessi due che poi in estate passano il testimone ad altri due. Ripeto, c’è l’industria lì, noi per questo saremmo votati al rock e all’elettronica, potrebbe essere una capitale dell’industrial. Partono mille progetti ma si autodistruggono, ci chiedono in cambio di seguire lo stereotipo del Puglia raggae sound. La tecno è nata a Detroit, i The Stooges o i Garage Punk sono nati lì, Liverpool ha il porto mercantile, nella Berlino est degli anni ’80 sono andati Depeche Mode o Nick Cave e così via, però è la pizzica a portare turismo ed avere mecenati... la Puglia, come l’Abruzzo o la Calabria o la Basilicata, merita di più".
Sarebbe come riconvertire almeno un po’ la vostra sfiga...
"La sfiga ce la portiamo nel sangue, perché la gente continua a morirci. Il problema è sempre quello, per fare la cultura ci vogliono i soldi ma non hanno capito che non esiste più l’operaio di una volta, quello di oggi legge Nietzsche, va ai concerti, si informa. Non gli basta i contentini".
Comunque ora hai un cd terminato, anche se prodotto in Romagna, come ti sei trovato da immigrato nel centro/nord Italia?
"La Romagna è ospitale, è vero, ma non considerano mica il polacco o il senegalese alla pari loro, è una finta integrazione, ad assumerlo costa meno di tasse, è vero, ma devi essere forza lavoro, nient’altro. Con quelli del sud sono molto diffidenti, non sono abituati all’ondata operaia come a Milano e Torino che hanno già digerito l’immigrazione. Ho sentito delle strane vibrazioni quando il meridionale – io – si è permesso di fare un disco...".
Nel tuo disco si parla di fabbrica e della tua città d’origine, puoi dirmi qualcosa?
"La mia trilogia della fabbrica l’ho scritta dieci anni fa, il pezzo Otto ore al giorno narra della routine di quel tipo di lavoro, Una scelta parla dell’occupazione e degli incidenti sul lavoro, mentre I pesci non lo sanno racconta l’inquinamento dal punto di vista dei pesci, questi una grande risorsa di Taranto. Quando ti vedi sopprimere gli allevamenti di cozze perché sono contaminate, ti girano i coglioni, manco le cozze m’hanno lassato...".
«Siamo arrivati all’amaro, senti Giuseppe, com’è finita la faccenda del ladro?». «E te che ne sai?». «Il mestiere». «Comunque, s’è tirato dalla finestra ed è scappato... s’è fregato il mio marsupio, c’era solo una muta di corde per chitarra elettrica». «Mmh… così non funziona, ci vuole una colluttazione, o che si sia calato con la carta igienica, che ne so, per l’immagine dico». «Ma è andata così!».
Giuseppe è un ragazzo vero, con una visione critica (anche della storia del ladro che non trascrivo però) di ciò che lo circonda, il buon prodotto di una terra avvelenata ma pieno di sogni e speranze. Sì, vaffanculo, sogni e speranze. Qui sotto vi proponiamo la canzone Una scelta tratta dall’album Il generale inverno in vendita dal 27 novembre e distribuito da Audioglobe, ascoltandola forse, se ci siete passati, sentirete il gelo di quell’esperienza. Il disco funziona e ci piace. Auguri buon Giuseppe, la prossima volta invece della frittura ci mettiamo l’arrosto e almeno un antipasto. E anche un po’ più di bianco... e arrivederci Taranto (redazione permettendo). (RollingStone)
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