Taranto, il pianto degli uomini forti dell'Ilva
Una tromba d'aria devasta lo stabilimento: un disperso,
38 feriti. Gli operai guardano la mensa che sembra bombardata: "Ancora
cinque minuti e lì dentro saremmo stati in 60 o 70" di ADRIANO SOFRI
"'U
Signore ha deciso che per noi è finita!". Avete un bell'obiettare che
non è il Signore, sono i signori. Lo spirito della città greca avrebbe
raccontato la giornata come noi non sappiamo. C'erano uomini forti ieri,
fermi per ore a fissare un mare tempestoso nel quale battelli
sballottati cercavano in tondo il loro compagno, afferrato e inabissato
con la cabina della sua gru. Piangevano nascosti l'uno nella spalla
dell'altro. "
Ieri abbiamo scioperato per avere il diritto di venire al
nostro posto di lavoro oggi. Siamo arrivati all'appuntamento con la
morte". E' vicinissima, Samarcanda.
Francesco Zaccaria, l'operaio
disperso, ha 29 anni - come l'ultimo morto dell'acciaieria, "è l'età
nostra, qui" - è di Talsano, ha genitori e fidanzata. La cabina di una
gru sta a 40, 50 metri da terra, il mare è profondo 24 metri. "Non salgo
più su una gru", dice un suo compagno. "La cabina è rivolta verso
terra, dietro il sedile c'è una parete, il mare non si vede. Se avesse
guardato il mare e visto arrivare il tornado, avrebbe forse avuto il
tempo di fuggire. Così...". Così le cabine di guida di quei mastodonti
sono state estirpate e fatte volare
come giocattoli: una è finita sul ponte della nave che stava caricando, l'altra nella melma del fondo.
I
suoi compagni fissano il mare, i sommozzatori che ogni tanto
riemergono: "Rischiano più di noi, se ti impigli là sotto con un mare
così...". Pensano alla morte propria, mancata di poco, indicano la
mensa, che sembra bombardata: "Cinque minuti dopo saremmo stati lì
dentro, noi mangiamo alle undici, in 60, 70". Dentro i cancelli della
fabbrica, a monte, incontro un giovane vigilante, Antonio S.: ha indosso
solo una tuta striminzita non sua. Era di guardia al porto, è stato
trascinato in aria per molti metri, sotto gli sguardi sbigottiti di
tanti, increduli di raccattarlo vivo. "Ho visto cose che voi umani...",
dice, e si capisce che vorrebbe scherzare, ma gli viene come se parlasse
sul serio.
I guardiani non mi lasciano entrare nemmeno oggi,
anzi oggi tanto meno. "Capannoni scoperchiati, un camino della cokeria è
crollato, ci sono stati incendi, lamiere divelte e portate a chilometri
di distanza, o pericolanti, e chissà che danni ai tubi, ai cavi". La
differenza sono le cose che dicono oggi questi addetti in divisa: le
grandi fabbriche stanno spesso a metà fra caserma e galera, l'Ilva pende
verso la galera. Se i padroni e la loro gerarchia colonialista, come la
chiama Alessandro, di "fiduciari, venuti da fuori" - e ora ritornati al
loro fuori - ascoltassero oggi queste loro sentinelle! "Ti vorrei far
entrare - mi dice uno - e poi ti vorrei accompagnare negli ospedali, a
vedere i bambini...", il resto non lo riferisco.
Oggi sarebbe
difficile scommettere dieci lire sulla sopravvivenza dell'Ilva, e una
sola lira sulla sua sopravvivenza coi Riva. Non gli rinfacciano il
tornado, il tornado è troppo per incolparne qualcuno. Vuol dire che
anche gli dei hanno voltato la faccia dagli operai e dalla città che fu
la prediletta. E però, dopo che ciascuno ha ripetuto che "una cosa così
non era mai successa", qualcuno ricorda che due anni fa era successo,
che il percorso diverso aveva salvato fabbriche e città dalla
violentissima tromba marina: e mi mostrano le immagini sui telefonini.
"La seconda volta in due anni, vuol dire che non è una fatalità unica,
che si deve pensare a difendersene. Hai sentito parlare del famoso piano
di evacuazione? Be', noi che siamo nel cuore della mischia, non abbiamo
mai fatto nemmeno la mossa di una esercitazione di evacuazione.
Figurati i cittadini, i bambini delle scuole".
Ieri una scuola di
Statte, vicina alla zona industriale, è stata investita, bambini sono
stati feriti. Nella tarda mattinata c'era stato un enorme blocco del
traffico in tutte le direzioni, sopportato assai civilmente. Lungo la
strada si incontravano camion rovesciati, auto scaraventate sopra altre
auto. Operai dell'Ilva, dopo l'evacuazione degli impianti - un'area
vasta, ricordate, molto più della città - cercavano di tornarsene a
casa, e intanto si gridavano notizie, è lì che ho imparato la formula di
"incidente rilevante".
Vuol dire un accidente le cui
conseguenze vanno oltre i confini dello stabilimento e investono
l'abitato, una specie di Big One tarantino, nel nostro caso; la
normativa deve risalire a Seveso. L'ha gridato un tale, "Lasciamo le
macchine e andiamocene a piedi, qui si rischia l'Incidente Rilevante".
Teniamo a mente le due nozioni: l'Incidente Rilevante, che può esserci,
che è stato sfiorato ieri, e il Piano di Evacuazione, che non c'è. E
aspettiamo le smentite, che non è stato sfiorato ieri, non seminiamo il
panico, e che c'è, il Piano, in qualche cassetto della segreteria
universale.
Al rientro in centro, di sera, di nuovo la strada
bloccata: stavano rimuovendo l'amianto di un fabbricato smesso e
sequestrato. Taranto è sotto sequestro, a volte con facoltà d'uso: come i
caricatori dell'Ilva, anche loro da dodici anni. Finalmente abbiamo
attraversato la città vecchia, il gioiello segreto della città. La notte
prima il giovane Angelo Cannata, che è un sindaco "di fatto" di Taranto
vecchia, mi aveva guidato nella via Cava, che se non fosse per la
monnezza aprirebbe le sue porte dentro sotterranei mirabili, e al
palazzo cinquecentesco di San Giuseppe alla Marina, suggestivo come la
bellezza quando è malridotta. E' pericolante, mi ha avvertito. E'
crollato ieri sera: il tornado ha fatto una quantità di svolte per
insinuarsi in quel labirinto di vicoli.
C'era una conferenza
indetta dai verdi ieri, da Angelo Bonelli e Alessandro Marescotti, non
ho potuto andarci, ero al porto. Però la giornata ha rimescolato con una
mano colossale le carte della partita fra ambientalisti e
industrialisti, ammesso che le categorie siano queste. La notte prima
avevo assistito a un'assemblea dei "Liberi e pensanti" alla porta D
dell'Ilva, operai soprattutto, ma anche medici e pasticcere e
archeologi, in cui le ragioni della salute e del lavoro venivano
trattate con una passione intelligente. Mi ha colpito il modo in cui il
loro impegno comune mostra di aver fomentato un'amicizia, che la grande
fabbrica ostacola e mortifica.
La lotta suscita la solidarietà:
qui sembra qualcosa di più intenso, orgoglioso e affettuoso. Già fra
loro era prevalsa l'idea di non andare a Roma, di evitare un impegno
rituale, di vittimismo o di disordine pubblico: ieri la trasferta romana
è stata disdetta. Resta quel ricongiungimento forzato tra la questione
sociale e la questione climatica, per dirla così, fra l'ambiente
ravvicinato compromesso dalla mano padronale, e l'ambiente vasto
compromesso dalla mano umana.
Veniva davvero da piangere ieri a
guardare la devastazione, e confrontarla agli scenari da ordine pubblico
cui autorità competenti riducono i conflitti sociali. Cassonetti
rovesciati, roba da ragazzi, a guardare quello spettacolo vacillante e
colossale, come nei film sovietici sull'acciaio. Non trovereste un
operaio che dica di augurarsi la chiusura dell'Ilva, e però citerò la
risposta che mi ha dato l'altra notte Cataldo B.: "Io tiro fuori da qui i
mezzi per mantenere la mia famiglia, e mi batto come tutti, ma ti
mentirei se non dicessi anche che nel mio intimo desidero con tutta la
forza che questa fabbrica scompaia, e con lei questo modo di lavorare e
di vivere insieme".
Siccome ieri il vento ha fatto rotolare fino
ai miei piedi un casco rosso dell'Ilva personalizzato, come avviene, da
una scritta dell'operaio che l'ha perso nella bufera, la ricopio: "Il
mondo va a rotoli xché gira al contrario. Qual è il verso giusto?"
Glielo restituirò, se mi leggesse; se no, lo tengo come promemoria.
(29 novembre 2012)