dal libro Morti bianche di Samantha Di Persio
L’infortunio di Antonino Mingolla è accaduto il 18 aprile del 2006. Mio marito lavorava con la ditta Cmt un’impresa che aveva vinto un appalto di manutenzione degli impianti all’Ilva. Era vicecapocantiere per la sua esperienza pluriennale. Quel giorno insieme alla sua squadra doveva sostituire una valvola su una tubazione che conduce del gas prodotto dagli altiforni. Un lavoro che si effettua con la maschera collegata a bombole di aria. L’Ilva prima di cominciare questa procedura deve mettere in sicurezza, cioè sospende l’erogazione del gas e immette nella sezione azoto per bonificare eventuali residui, lo sfiatamento avviene attraverso delle caminelle. Le valvole vengono chiuse dagli addetti Ilva prima di consegnare il lavoro alla ditta esterna. Per rafforzare la “sicurezza”, davano in dotazione le maschere di cui ho detto prima, le quali hanno a disposizione un rilevatore, ma sembra che quel giorno nessuna maschera abbia segnalato la presenza di gas.
I tubi sui quali lavoravano gli operai erano enormi, avevano un diametro di tre metri, posti ad un’altezza di venti metri. Erano costeggiati da ballatoi: da una parte c’era l’entrata con le scale, la via di accesso e di conseguenza di fuga. Mentre dov’era mio marito c’era un ballatoio 2m x 4m, costeggiato da una ringhiera, perciò ogni qualvolta che Antonino doveva spostarsi, comunicare dall’altra parte del cantiere o semplicemente allontanarsi per tenere sotto controllo gli operai o per un malore, doveva scavalcare un tubo di tre metri. Una situazione anomala, e tutt’altro che sicura. Un’azienda quando appalta dovrebbe soprintendere affinché ci sia il rispetto delle norme di sicurezza anche per le opere provvisionali. Come non pensare che ci siano state violazioni sia dell’Ilva che della Cmt? Nonostante le condizioni non perfettamente a norma la squadra di mio marito comincia la procedura di manutenzione. Del resto era stato così sempre. La ditta incomincia a sezionare il tubo, immettendo dischi ciechi che scorrono su un binario fino a chiudere le bocche, in modo che il gas non esca e si possa lavorare sulla valvola.
Antonino è morto alle quattro del pomeriggio. Il suo turno doveva finire alle 15. Rimase un’ora in più per il suo senso di dovere, voleva portare a termine la manutenzione. Dalla mattina c’erano stati dei problemi nell’inserimento dei dischi. Infatti un altro collega verso le 10 si era sentito male, sempre per le esalazioni nell’aria di sostanze gassose tossiche. Parlando con lui, mi disse che aveva cambiato la bombola. La procedura per sostituirla era la medesima delle altre volte: si allontanavano in zona di sicurezza. Quella mattina, lui si è sentito male con capogiri e nausee quando ha rimesso la maschera. Quindi penso che nell’aria c’erano alti quantitativi di monossido che si è depositato anche sulla maschera. Solo il processo stabilirà con certezza. Per ora c’è uno scarica barile di responsabilità.
Io e Antonino avevano la stessa età: 46 anni al momento dell’incidente, eravamo genitori di due figli adolescenti, oggi hanno 15 e 16 anni. Avevamo fatto la scelta che lui lavorava ed io crescevo i nostri ragazzi. Cerco di non far mancare nulla ai miei figli, in modo che possano vivere il più possibile serenamente, e devo dire che loro sono molto comprensivi. Mi sento in dovere di lottare, insieme alle altre famiglie che sono state lasciate sole dai sindacati e dalla politica. Solo il sindacato autorganizzato Slai-Cobas di Taranto ci ha dato un sostegno e ci hanno consigliato di costituire l’associazione 12 giugno. L’Ilva non si è mai fatta viva, nemmeno nel tentativo di conciliazione fatto dal mio avvocato.
Antonino aveva paura, c’erano stati troppi incidenti. Ad esempio ricordo un suo racconto, una volta un operaio vicino a mio marito cadde dall’impalcatura, sotto c’erano i nastri trasportatori. Chiesero di farli fermare, per recuperare l’uomo. L’Ilva non può fermare la produzione. Dal 2000 fino al 2007, 16 uomini hanno perso la vita lì dentro. Quello è, e rimane l’inferno di Dante, vale la pena associare la frase: “lasciate ogni speranza voi che entrate!”. Solo così fra un po’ di paura e di ironia mio marito riusciva ad andare a lavoro. Io sono costernata che ci siano circa 1300 morti ogni anno a causa del lavoro, e di questi troppi non hanno voce, non vengono neanche menzionati. Si parla di una media di 3,5 morti al giorno, io pregherei di non frazionare e spezzettare ulteriormente i corpi, si tratta di persone e devono rimanere integre. Voglio che non si spenga la speranza della giustizia, perché è difficile affrontare i processi, io di fronte al colosso Ilva mi sento una formica. Non riesco a credere che questi processi dopo soli sette anni vanno in prescrizioni, nel corso del tempo le udienze possono essere rinviate per sciocchezze, si allungano i tempi senza giustificazioni valide ad esempio non si presentano i testimoni. Il rispetto e la tutela non c’è neanche dopo una tragedia di cui mio marito non ha colpe. Ci sono 13500 persone che lavorano per l’Ilva, ed altre 8000 per l’indotto. Non rimane che unirsi alle altre famiglia dell’associazione 12 giugno, e tutte le altre che vorranno unirsi, per farci forza fra di noi e provare ad andare in giro per l’Italia per parlare e raccontare a quanti vogliono combattere insieme a noi.
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