giovedì 15 gennaio 2009

La Cassazione condanna l'Ilva per mobbing!

Il dipendente era stato oggetto prima di un demansionato e dequalificazione, poi licenziato. La sezione del lavoro della Cassazione gli riconosce la ragione

Il danno esistenziale cancellato nei mesi scorsi dalle sezioni unite Cassazione dopo anni di decisioni contrastanti, viene «rilanciato» dalla sezione lavoro. La sentenza, pur accogliendo in parte il ricorso delle acciaierie Ilva relativo ad una causa intentata da un lavoratore, conferma il diritto del dipendente a vedersi risarcito il «danno esistenziale da demansionamento» aggiungendo che la prova può basarsi anche su «presunzioni».

Insomma un classico caso di mobbing che la normativa italiana non prevede specificatamente come definizione, ma lo ricomprende nel codice civile nelle figure di dequalificazione e demansionamento mentre nel penale, le formulazioni delle ipotesi di reato possono essere diverse.

In pratica, nonostante la recente decisione «anti-esistenziale» delle sezioni unite, sarà più facile ottenere il risarcimento perché il lavoratore non è obbligato a dimostrare «documentalmente» la propria richiesta. Le motivazioni della pronuncia precisano però che «come affermato dalla sentenza 26972 del novembre scorso» emessa dalle sezioni unite, si tratta di un risarcimento «da inquadrare nella categoria del danno non patrimoniale».
Il caso affrontato dai magistrati della sezione lavoro (con la sentenza 29832) riguarda un dipendente della Ilva di Genova, Giorgio B., che licenziato una prima volta dal suo impiego di sesto livello, era stato reintegrato in servizio per ordine del giudice ma «incaricato di espletare mansioni di infimo profilo», come «fare fotocopie e ritagliarne i margini per poterle rilegare».
Alla sua richiesta di «essere adibito a mansioni adeguate» l’azienda non ha risposto. Da qui la decisione di Giorgio B. di non presentarsi al lavoro incorrendo così in un nuovo licenziamento il 3 aprile del 2000. I giudici di merito, nel 2006, hanno dato ragione al lavoratore dichiarando illegittimo anche il secondo licenziamento e accogliendo la richiesta di risarcimento di danni «materiali, morali ed esistenziali». Questi ultimi, in particolare, «per un ammontare pari al 50 per cento della retribuzione maturata nei dieci anni tra il 1990 e il 2000».
L’Ilva ricorre in Cassazione ma la Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la decisione invitando i giudici d’appello a motivare meglio la condanna dell’azienda al risarcimento, fissa dei «paletti».

In particolare, spiega che «il danno esistenziale è quel pregiudizio, non soltanto emotivo e interiore, che altera abitudini e relazioni, inducendo il lavoratore a scelte di vita diverse quanto alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno». La Corte aggiunge infine che «tale danno va dimostrato con tutti i mezzi consentiti», tra i quali «assume rilievo la prova per presunzioni». Insomma, se il lavoratore è demansionato il danno alla «realizzazione della personalità» si può anche presumere.

Nessun commento: