"La mia famiglia distrutta dal fosforo" i superstiti raccontano le armi proibite ALBERTO STABILE per La Repubblica
Un caccia israeliano su Gaza
GAZA - A piedi nudi e a capo coperto, con le lunghe vesti che lambiscono l'acqua, le donne della famiglia Abu Halima cercano di cancellare i segni della devastazione che si è abbattuta sulla loro casa di Beit Lahiya. Ogni centimetro di pavimento, ogni palmo di parete vengono puliti con scope, spazzole e chili di detersivo, ma quell'odore che pervade le stanze resiste anche al vento che irrompe dalle finestre senza infissi. L'odore nauseante, dicono gli esperti, del fosforo bianco.
Sull'uso di questa sostanza, non vietato se adoperata in campo aperto, ma illegale se usata contro le persone o in ambienti densamente abitati, l'esercito ha annunciato l'apertura di un'inchiesta, affermando, tuttavia, di aver sempre agito nell'ambito della legalità. Amnesty international, invece, ha dichiarato di essere in possesso di "prove indiscutibili" che Tsahal abbia utilizzato ordigni al fosforo in modo indiscriminato. Da qui l'accusa di aver commesso "crimini di guerra".
Il governo israeliano ha subito reagito e, dopo aver imposto la censura sui nomi di soldati e ufficiali coinvolti nell'operazione, ieri ha annunciato di aver approvato uno scudo legale protettivo a favore dei militari israeliani nel caso dovessero essere chiamati a rispondere d'aver commesso violazioni dei diritti umani da qualche tribunale straniero. "Israele - ha detto Olmert - darà pieno sostegno ai comandanti e ai soldati che sono stati mandati a Gaza, così come loro hanno protetto noi con i loro corpi durante l'operazione". Il Guardasigilli e il ministro della Difesa, oltre ad un gruppo di legali, faranno parte di questo "ombrello" protettivo.
Omar Abu Halima, 18 anni, uno degli figli di Sabah e Sadallah Abu Halima, racconta quel pomeriggio d'inferno. I carri armati israeliani erano a un centinaio di metri dalla palazzina di famiglia di tre piani che sorge, allineata ad altre quattro o cinque case delle stesse dimensioni, nella zona chiamata Atara, dove finisce l'abitato di Beit Lahiya e cominciano le serre e i campi coltivati. Zona di fragole e agrumi, ma anche, qua e là, data la vicinanza al confine israeliano, di lanci di Qassam.
"Ero nella casa accanto, da un mio zio, quando abbiamo sentito tre o quattro esplosioni, una dietro l'altra. Mi sono precipitato. La nostra casa era avvolta da un fumo denso e bianco che non faceva respirare e dalle fiamme. Sono salito al secondo piano e ho visto mia madre avvolta nel fuoco. Nel corridoio c'erano i miei fratelli Abed di 14 anni, Said di 10, Hamza di 8 abbracciati a mio padre Sadallah, che di anni ne aveva 45. Bruciavano. Hamza diceva: voglio pregare, voglio pregare, ma subito dopo morì. Gli altri erano già morti. Mio padre non aveva più la testa". Nel reparto ustioni dell'ospedale Shifa, dove è ricoverata Sabah Abu Halima, la madre, anche lei di 45 anni, il primario Nafez al Shaban, laureato a Glasgow, specializzato negli Stati Uniti, è certo che a provocare le ustioni subite dalla donna e da altri feriti sia stato il fosforo. Racconta di essersi trovato per la prima volta nella sua carriera di fronte a piaghe che continuavano a bruciare, anche dopo ore, emanavano un odore insopportabile e soprattutto resistevano al normale trattamento di chirurgia plastica. "Tanto che - dice - su suggerimento di colleghi giordani ed egiziani che avevano avuto esperienze simili in Libano, abbiamo dovuto amputare".
Una tragedia nella tragedia è rappresentata dalla mancanza di soccorsi, sia nel caso degli Abu Halima, che in quello della famiglia Abd Rabbo, nel villaggio di Jabaliya (vicino all'omonimo campo profughi). Per dirla in breve, morti e feriti della famiglia Abu Halima sono stati messi su due macchine e su un trattore. La macchina con i morti, secondo il racconto dei sopravvissuti, bloccata al primo posto di blocco israeliano, è stata capovolta da un caterpillar militare. I cadaveri sono rimasti per giorni sull'asfalto. Sabah Abu Halima, la madre ferita, ha potuto raggiungere l'ospedale su un carro trainato da un asino.
Inutile chiedere se in zona ci fossero miliziani di Hamas. "Qui siamo tutti al Fatah - dice Osam, un vicino che era inquadrato nell'Autorità palestinese e continua a prendere lo stipendio da Ramallah -. Se ci fosse stato qualcosa ce ne saremmo andati". Anche se la domanda: "Andati dove?", resta senza risposta.
A Gaza, in questi giorni, non si parla soltanto di armi proibite, ma anche di armi sconosciute, come il missile che ha ucciso otto ragazzi, tre femmine e cinque maschi davanti alla Educational School dell'Unrwa, in pieno centro. Un ordigno che diffonde una pioggia di schegge piccolissime, taglienti come rasoi, di forma quadrata, dal lato di due o tre millimetri come quelle che brillano controluce, nella radiografia del braccio e del ginocchio di Adib al Rais, che si è salvato perché era all'interno del negozio. Il missile, all'impatto, ha provocato un buco sull'asfalto largo dieci centimetri e profondo trenta. Ma sul muro distante tre metri, sulle porte di ferro del piccolo supermercato e sui corpi delle vittime hanno infierito le schegge, grandi come coriandoli.
Nessun commento:
Posta un commento