Il lavoro, per 1.900 dipendenti del gruppo Riva che lavorano a Genova, riprenderà lunedì. I magazzini dei laminati del sito genovese erano vuoti: da lunedì 7 non ci sarebbe stato nulla da lavorare in fabbrica. La chiusura appariva ineluttabile ma, “guarda caso”, i coils sono arrivati giusto in tempo: una specie di “regalo” della Befana. I sindacati genovesi tirano dunque un sospiro di sollievo, ma il rischio chiusura, a fronte dei ricorsi della Procura di Taranto, è tutt’altro che scongiurato. “Una serenità anche se momentanea”, ha ammesso Claudio Nicolini, segretario generale della Fim-Cisl. “Il pericolo il chiusura è scongiurato, almeno per ora”, ha confermato Franco Grondona, segretario della Fiom-Cgil di Genova. “Si ricomincia a lavorare, seppure con le difficoltà di mercato che non sono cambiate”.
A
Cornigliano infatti, come riportammo lo scorso settembre nell’inchiesta
sull’acciaio italiano, si lavora con i contratti di solidarietà che
interessano 1.110 dipendenti su 1.720, previsti fino a fine 2013 e
rinnovabili per un altro anno. Ma un dato positivo per i lavoratori
genovesi c’è: nel decreto di stabilità è previsto che per quest’anno i
contratti di solidarietà saranno rifinanziati con un’integrazione
salariale all’80%, il 20% in più del tetto fissato per legge al 60%. Ma
se a Genova tirano un sospiro di sollievo, a Taranto l’umore è
tutt’altro che speranzoso. Lo dimostrano le dichiarazioni di Giovanni
Forte, segretario generale della Cgil Puglia, che ieri ha candidamente
dichiarato come “il gruppo Riva ha perso di credibilità. Riteniamo che
non potrà mai più essere nelle condizioni di realizzare gli investimenti
di 4 miliardi di euro. Siamo perplessi che il gruppo Riva abbia la
capacità di mostrarsi come un gruppo industriale che guarda alla
produzione ed all’interesse della comunità locale”.
Una
presa di posizione inedita, mai assunta sin qui dalla Cgil né dalla
Fiom. Forte ha rincarato la dose sostenendo che “ci sarà bisogno di un
intervento più forte da parte dello Stato, che dovrà impegnarsi di più
anche rispetto alla conduzione. Questo non vuol dire ritornare alla
partecipazioni statali: si tratta di inventare nuove forme di
partecipazioni dello Stato che oggi riguarda l’Ilva e domani altre
imprese ritenute strategiche. Bisogna riuscire, dopo il decreto del
governo nazionale, a far realizzare gli investimenti”. Una posizione
alquanto ambigua che propone ipotetiche e poco chiare “nuove forme di
partecipazione statale da inventare”. Ne è chiaro come fare per far sì
che il gruppo Riva effettui gli investimenti necessari per il
risanamento del siderurgico tarantino.
Come
sosteniamo da tempo, tutto passa dal Piano Industriale che l’Ilva non
ha ancora presentato: un documento fondamentale non solo per comprendere
la volontà del gruppo Riva (se rimanere a Taranto o meno), ma anche per
quantificare i mezzi finanziari che saranno impiegati per osservare le
prescrizioni dell’Autorizzazione Integrata Ambientale dell’ottobre
scorso, quantificate dal ministero dell’Ambiente in non meno di 3,5
miliardi di euro. Più volte in questi mesi infatti, abbiamo provato a
fare luce sull’attuale e reale situazione economica della società. In
nostro aiuto, arriva uno studio del “Centro Studi Siderweb” (portale che
si occupa della siderurgia italiana), che conferma quanto pubblicato su
queste colonne negli ultimi mesi: i debiti finanziari totali della
società ILVA Spa sono passati da 335 milioni di euro nel 1996 a 2,9
miliardi di euro nel 2011, di cui soltanto 705 milioni con le banche,
corrispondenti a circa un quarto del totale.
Il
rimanente 75% sono debiti finanziari nei confronti delle altre società
del Gruppo ILVA e della controllante Riva FIRE Spa. Il famoso gioco
delle scatole cinesi. Nello stesso periodo, il patrimonio è passato da
620,8 milioni a 2,4 miliardi di euro; i debiti finanziari risultano
quindi pari a 1,2 volte il patrimonio. I debiti finanziari sono
aumentati soprattutto nell’ultimo quadriennio (da 1,8 a 2,9 miliardi) a
causa della riduzione dei flussi di cassa provocata dai risultati
negativi della gestione industriale (-805 milioni di euro). Dunque,
stante così le cose, è palese il fatto che l’Ilva al momento “non
disponga” delle risorse per ottemperare agli investimenti richiesti
dall’AIA. Secondo un calcolo dello studio, tali interventi, che dovranno
concludersi entro il 2016, rappresentano il 76% di tutti gli
investimenti che l’ILVA ha effettuato nello stabilimento di Taranto dal
1995 al 2011.
Inoltre,
le somme più rilevanti si concentreranno nei primi tre anni (2013-15) e
dovranno convivere da un lato con un inevitabile rallentamento
dell’attività per consentire gli interventi sugli impianti finalizzati a
ridurre l’impatto ambientale, dall’altro con condizioni di mercato non
certo esaltanti a causa della modesta crescita della domanda di acciaio
in Europa e della compressione dei margini indotta dalla maggiore
concorrenza tra i produttori mondiali di acciaio. Tutto ciò, sottolinea
lo studio, avrà un impatto negativo sulla redditività della gestione
industriale, che verrà anche gravata degli ammortamenti connessi ai
nuovi investimenti (+750 milioni di euro tra il 2013 e il 2016) e degli
oneri finanziari per la quota di investimenti finanziata con mezzi di
terzi (350 milioni nel quadriennio, nell’ipotesi che il 50% degli
investimenti sia finanziato con debiti onerosi; 700 milioni di euro
nell’ipotesi di finanziare il 100% degli investimenti con debiti
onerosi).
Alla
fine del periodo considerato, i debiti finanziari della società
salirebbero a 4.500 (50% degli investimenti finanziati con prestiti),
6.200 miliardi di euro (100% degli investimenti finanziati con
prestiti), mentre il patrimonio diminuirebbe per far fronte alle perdite
d’esercizio provocate dal peggioramento dei risultati della gestione
industriale e dai maggiori oneri finanziari. Dunque, in assenza di un
consistente aumento di capitale, la società registrerebbe una
significativa perdita. La conclusione dello studio è intuibile, oltre
che ovvia: “senza un intervento dello Stato per alleggerire gli oneri
connessi agli investimenti che l’ILVA dovrà sostenere nei prossimi anni
e/o un apporto di capitali freschi da parte dei soci attuali o altri che
potrebbero entrare nella compagine azionaria, la prosecuzione
dell’attività dell’ILVA nel medio periodo appare molto difficile”.
Peccato
che in questo studio non si tenga volutamente conto che il gruppo
disponga di un abbondante riserva di liquidità stoccata soprattutto
nelle holding estere situate tra Lussemburgo e Olanda. Ecco perché
l’Ilva oggi sostiene, “a buona ragione”, che senza la prosecuzione
dell’attività produttiva e la vendita del materiale a tutt’oggi sotto
sequestro, non potrà garantire la sopravvivenza del siderurgico
tarantino e di tutti gli altri impianti (19 in tutto) disseminati sulla
penisola. La verità, dunque, è una soltanto: il tesoro di famiglia è
stato già messo al riparo. A dimostrazione del fatto che la reale
volontà d’investire su Taranto è soltanto uno specchietto per le
allodole. Il gruppo Riva è pronto al disimpegno: al massimo sarà
disposto a portare avanti gli investimenti, ma spalmandoli su più anni e
con l’aiuto dello Stato e dell’Unione Europea.
Quanto
basta per far concludere il ciclo vitale delle batterie dei forni che
alimentano la cokeria: 5, 10 anni al massimo (perché tutti sanno, Clini
in primis, che gli investimenti richiesti non potranno mai essere
effettuati entro il 2016). In caso contrario, con la Consulta che da
ragione alla Procura di Taranto, si toglierà il disturbo in anticipo sui
tempi previsti. Tanto, per l’eventuale risarcimento danni da versare
nelle casse del Comune, ci sarà tutto il tempo per una lunga ed
estenuante battaglia legale. Idem per i costi della bonifica: visto che
per 35 anni il siderurgico è stato di proprietà statale. E ché il
principio “chi inquina paga” vale soltanto in Europa e non in Italia. Il
peggio, dunque, deve ancora venire.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 05.01.13)
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