mercoledì 23 gennaio 2013

La questione è di pecunia. Ma Riva non ci sente e lo stato sussurra

Un'apparente analisi a 360 gradi in realtà viziata da molti dogmi italiani.
Ecco il senso di questo articolo che in maniera apparentemente scientifica non fa altro che ripetere quello che la vecchia economia mondiale ripete per ogni situazione in cui emerga la contraddizione tra il profitto privato e il bene pubblico creata dal meccanismo dell'accumulazione e della concorrenza.
L'analisi di questo articolo è comparsa sul validissimo blog Corporeus Corpora, ne riportiamo le parole in calce invitandovi a visitare il blog per gli aggiornamenti sull'Ilva.

Dall'Ilva rischio contagio per il Paese

Prima l'acciaieria di Taranto. Poi tutto il gruppo Riva. Quindi, l'economia italiana. L'Ilva è un gigantesco organismo industriale che sta sperimentando una paralisi produttiva, una asfissia finanziaria e una acefalia strategica. Da Taranto, potrebbero presto originarsi cerchi concentrici in grado di sommergere un bel pezzo di Paese.
La fabbrica è bloccata per il conflitto fra magistratura e politica sui tempi, sul grado di cogenza dei lavori di risanamento e sulla possibilità (negata dalle toghe) che questi ultimi avvengano mentre il ciclo produttivo è in funzione.
Il gruppo vive una crisi di liquidità che nasce dal sequestro delle merci (non commerciabili) e dall'indisponibilità dei Riva a fare affluire mezzi finanziari propri – estranei alle attività italiane – a Taranto. L'acefalia strategica è causata dagli effetti sulla governance del gruppo provocati dai guai giudiziari della famiglia lombarda: le decisioni più importanti vengono rese pubbliche dal presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, ma si formano soprattutto nel dialogo fra gli avvocati e Emilio Riva, il fondatore dell'azienda agli arresti domiciliari che ha rappresentato (finora) il maggiore argine a ogni ipotesi di disimpegno totale da Taranto, insieme ai banchieri preoccupati dei danni che una liquidazione dell'Ilva potrebbero produrre ai bilanci dei loro istituti di credito. Il combinato disposto di queste criticità rischia di fare di Taranto un epicentro da cui le onde si potrebbero presto sprigionare. Prima investendo nella sua totalità il (fu) primo gruppo siderurgico italiano, poi diffondendosi nei gangli e nel sistema nervoso della manifattura attraverso il virus patogeno del collasso delle forniture, quindi ritornando indietro sotto forma di disastro economico-sociale, con il rischio di inghiottire tutta Taranto.
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Gli effetti interni al gruppo
Le conseguenze sono prima di tutto industriali. Taranto è il cuore produttivo del gruppo. A Taranto si fa (si faceva) tutto: bramme, coils, lamiere, tubi saldati, profilati. Dunque Genova, Racconigi, Salerno, Novi Ligure, Pratica e Senas (in Francia), Salonicco (in Grecia) e Biserta (in Tunisia) dipendono (dipendevano) da Taranto, l'unico impianto dove esiste (esisteva) l'integrazione fra il ciclo del caldo e il ciclo del freddo.
Il danno è sistemico: se tu sequestri i semilavorati prodotti dagli altoforni di Taranto, non azzeri solo la produttività di questi ultimi e non decurti solo la redditività della gestione industriale. È anche un tema di lenta e inesorabile stasi commerciale. Le vendite dei distributori dei prodotti dell'Ilva non possono che assottigliarsi sempre più: i centri di servizio in Italia (a Torino, a Paderno Dugnano, a Legnaro e a Marghera) e all'estero (Lione, Chatillon Le Duc e Rouen in Francia, Tunisi nel Nord Africa) si ritrovano sprovvisti dei prodotti. Ed entrano in una dimensione di grave incognita anche le imprese che si occupano della logistica e dei servizi del gruppo (Ilva Servizi Marittimi, Muzzana Trasporti, Innse Cilindri, Sanac). Così, sul medio periodo, la doppia ipotesi Cig-mobilità non riguarda esclusivamente i 15.500 addetti che lavorano nella produzione dell'Ilva, ma pure le 1.200 persone impegnate nei servizi, nella commercializzazione e nella logistica, collegate alla società operativa, che pesa per il 70% nelle attività del gruppo Riva, o comunque inserite nel perimetro del gruppo.

L'onda d'urto sull'Italia
Secondo l'ufficio studi di Siderweb l'Ilva imperniata su Taranto vale lo 0,06% del Pil nazionale. L'ufficio studi di Confindustria ha valutato in 9 miliardi di euro l'impatto massimo del danno provocato da una implosione di Taranto. In una economia italiana in cui la lavorazione dell'acciaio è una componente fondamentale, una rapida consunzione del gruppo Riva aprirà varchi enormi per i concorrenti stranieri. Serviranno 5,5 milioni di tonnellate di import aggiuntivo di acciaio. Naturalmente questo costerà alle nostre piccole e medie imprese: in termini di extra costi per la logistica e di servizi e costi finanziari aggiuntivi per l'import. Se, poi, si aggiungono gli oneri a carico dello Stato in caso di chiusura di Taranto (gestione della Cig e della mobilità e minori imposte) alla fine si arriva a nove miliardi di euro di danno provocato da una ipotetica liquidazione di Taranto. C'è, poi, il tema dell'effetto sistemico-finanziario di un annichilimento dello stabilimento di Taranto, passaggio essenziale nella progressiva dissoluzione dell'Ilva. La quale ha debiti finanziari prossimi ai tre miliardi di euro, pari a 1,3 volte il capitale netto. Il 25% dell'esposizione è verso le banche. Il 75% concerne debiti infra-gruppo. Dunque, esiste un problema diretto per le banche. Ma c'è soprattutto la certezza che, se cade l'Ilva, implode l'intero gruppo Riva. Con tutti gli annessi e connessi per un sistema industriale come l'Italia che, dopo avere perso la grande elettronica, l'informatica e la chimica, perderà anche la siderurgia. Con una conseguenza specifica: mentre l'estinzione delle attività industriali prossime alla frontiera tecnologica pone un problema di assenza strategica del Sistema Paese in comparti ben delineati e precisi, l'ipotesi di una scomparsa dalla grande siderurgia mina la natura più profonda e trasversale dell'intera manifattura italiana, che per definizione è una economia trasformatrice. Niente più acciaio? Si introduce un elemento di debolezza strutturale e pervasiva per tutta la manifattura: dall'automotive al bianco, dalla meccanica di precisione ai beni strumentali. Con un incremento dei costi intermedi, un calo della produttività e una riduzione della capacità competitiva del nostro export.

Il dramma di una città
Il blocco produttivo dell'Ilva continuerà? La paralisi commerciale anche? L'asfissia finanziaria dispiegherà tutti i suoi effetti, tanto che alla fine l'acciaieria di Taranto, semplicemente, morirà? La prospettiva per la città pugliese è quella di una rapida desertificazione industriale.
Tralasciamo il problema ecologico: la smobilitazione dell'Italsider da Bagnoli con l'assenza di bonifiche mostra come sia complicato porre rimedio agli impatti ambientali quando una fabbrica viene semplicemente chiusa. La questione è di pecunia. Dodicimila persone lavorano all'Ilva, alla quale è riferibile una quota pari al 75% del Pil dell'intera provincia. Un grado di dipendenza difficilmente riscontrabile in altre parti d'Italia.
Nessuno è in grado di prevedere, con un modello econometrico, gli effetti su un territorio così circoscritto dell'estinzione di un tale gigante industriale. Una cosa è certa: il dossier Ilva passerebbe rapidamente dalla scrivania del ministro dell'Economia a quella del prossimo ministro degli Interni. Dramma economico. Enorme problema di ordine pubblico.(Paolo Bricco Sole24h)

Dal blog Corporeus Corpora:
Tutto vero. Molto chiaro, documentato, onesto. Anche nel riferire dell'indisponibilità economica della proprietà e della pressione dei gruppi bancari. Come della dipendenza dell'intero gruppo Riva da ILVA Taranto. E dell'intera provincia, a sua volta. Pura monocultura.

Ma Bricco dimentica, o semplicemente non è questo il tema del suo articolo, che:

  • gli altiforni si potevano fermare. E poi far ripartire. In un anno, diciamo, considerando le tempistiche di ammodernamento, posto che i mezzi finanziari vi fossero. Perdendo certo commesse, lucri, attivando costi sociali non indifferenti. Ma salvaguardando un contesto sanitario ed ambientale ai limiti dell'esplosione, per colpe di politica, azienda, sindacati, enti locali. E se vogliamo anche popolazione ed operai.
  • Ciò non si è fatto per i motivi di cui sopra, perchè si credeva di poter come sempre aggirare il problema. E non è tutto: il mercato stesso dell'acciaio è in Europa quasi esaurito. Come dimostrano le chiusure dalla Polonia alla Francia, passando per Terni e Marghera. Perchè infrastrutture, edilizia, auto nel vecchio continente non se ne possono far più su larga scala. I mezzi finanziari non vi sono, nè possono essere reperiti, semplicemente perchè non c'è più prospettiva.
  • Non solo. ILVA è nello specifico uno stabilimento obsoleto, ideato negli anni '50 e aggiornato in parte negli '80. Campa dei vantaggi derivanti dalle enormi dimensioni, dal mancato rispetto della popolazione che vive a 200 metri dalle sue ciminiere e dal deposito minerali all'aperto più grande del mondo. Pare sia più economico raderlo al suolo e rifarlo allo stato attuale dell'arte, piuttosto che mettervi mano, tentando di renderlo compatibile con il circostante. Nessun privato investirebbe in un progetto suicida. Certo non i Riva, detenuti, nè le loro banche.
  • L'Italia ha perso il treno delle produzioni ad alta tecnologia. Vorrebbe mantenere in piedi le manifatture a bassa e media. Mentre noi eravamo fermi il mondo marciava assai: cinesi, indiani, per non dire dei coreani e brasiliani, sono ormai pieni competitors (o quasi), col grande vantaggio di avere materia prima e mercati sul posto. Conseguenza: cercare di protrarre le condizioni terzomondiste di città come Taranto, al fine di provare a mantenersi sul mercato per qualche anno... e poi sarà quel che sarà. E' evidente che se ciò può andar bene a via Solferino, non va per nulla bene a via Pupino. 
  • Taranto ha Eni, ILVA, Arsenale, base Nato, antenne Echelon, Cementir ... massimo impatto ambientale, 2/3 del territorio indisponibili alla popolazione. Al contempo è una città miserevole, zeppa di degrado sociale ed economico. Con servizi pubblici di infimo ordine. Succube di Bari. Il Sole24ore ricordi anche la cecità del trattare come schiavi 200.000 cittadini di questo Stato, sfruttandone debolezze storiche e culturali. Senza alcun contraccambio che non fosse lo stipendio operaio, spesso dissipato in medicine. E in ospedali indecenti. A parte, ovviamente, gli indegni 30 denari accettati dalla politica e dai sindacati, per impedire ogni dissenso.
Italsider, ILVA sono costati lo sviluppo turistico e agroalimentare cui questo territorio, dall'evo antico ininterrottamente sino ad oggi, è vocato. Anche per ragioni climatiche, che consegnano circa 9 mesi di tempo bello e mite al circondario. Sviluppo concesso invece a luoghi, quali la riviera romagnola, che non possiedono nemmeno un decimo della bellezza naturale della costiera tarantina, unica per compresenza di scogli e conche sabbiose. Una riviera che ormai arranca, per limiti intrinseci, dietro alle proposte ben più allettanti di Spagna, Grecia, Turchia, Salento non tarantino. La cecità non ripaga.

Per questi ed altri motivi, pur consci dei costi terribili, non ben calcolabili, che ne deriveranno per tutti i tarantini e l'intero paese, non possiamo accettare ancora soluzioni di compromesso. E avallare i loro sostenitori.

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