Taranto, Tolstoj e il grande fantasy. Al festival di Roma «Marpiccolo»
Della Puglia, fino a poco tempo fa, non conosceva nulla. Poi, all'improvviso, Alessandro di Robilant, regista nato in Svizzera e cresciuto a Milano, se ne innamora. Tanto da farci un film, «Marpiccolo», prodotto da Marco Donati, con la partecipazione di Apulia Film Commission, che domani e dopodomani sarà presentato al Festival di Roma. Il regista, allievo di Comencini, Monicelli e Lattuada, preferisce il film sociale e dieci anni fa ha affrontato il tema spinoso della mafia nel lavoro Il giudice ragazz ino, film premiato tra l'altro al festival di Berlino.
Anche nel suo primo film pugliese, Di Robilant ha scelto non certo di decantare la bellezza delle spiagge, ma di approfondire la vita di Taranto in un quartiere molto particolare, il Paolo VI, dove - racconta - ho conosciuto persone incredibili, «alle quali manca solo un'alternativa».
Come nasce l'incontro con la Puglia e perché la scelta di Taranto? «Ho tardato molto a conoscere la Puglia, ma è stata una scoperta felice. Il libro che ha ispirato il film è Stupido, scritto da Andrea Cotti e in realtà non è ambientato in nessuna regione particolare. Io, invece, viaggiando in Puglia un giorno ho attraversato Taranto e sono rimasto profondamente colpito dalla sua potenza visiva. E' una città cinematograficamente interessante. Cosi in un attimo ho pensato ad un set perfetto. Nel quartiere Paolo VI ci siamo fatti conoscere lentamente, e la gente ha capito che volevamo raccontare una storia, che li riguardava, ma non in modo accusatorio».
Cosa l'ha colpita in questo quartere? «Anzitutto la vitalità e la forza di carattere della gente. Ho visto donne piene di allegria, e poi ho conosciuto un signore, che si chiama Giovanni Guarino, che ci ha aiutati in tutto. Lui, che praticamente fa l'educatore, è stato il primo a meravigliarsi della grande disciplina che la gente ha avuto nei nostri confronti. Abbiamo lasciato carissimi amici e una gioventù che mi fa rabbia... sarebbero ottime persone ma non hanno alternativa».
La Taranto che fa da scenografia al suo film è anche una città molto inquinata. «Il film si concentra più su esperienze umane che ambientali. Taranto è un palcoscenico ma non è mai in primo piano, anche se se ne sentono gli effetti».
Secondo lei, può un film «sociale» agire su un problema e contribuire a risolverlo? «Un regista spera di mettere una goccia nelle coscienze delle persone, soprattutto quando si tratta di una realtà poco visitata e quindi serve ricordarne l'esistenza. Il cinema sociale è una nostra tradizione italiana dimenticata a lungo e sostituita dalla tv, con molta superficialità. In passato, il cinema italiano ha sempre avuto un occhio sul sociale».
Il Festival di Roma è un traguardo. «Un festival è sempre una cassa di risonanza e mi auguro che il film desti la curiosità degli spettatori».
E' difficile per un regista farsi conoscere e far conoscere il proprio film? «Abbastanza difficile. L'ambiente si va restringendo così come le occasioni e spesso ci si rivolge sempre alle stesse produzioni, non lasciando molto spazio alle novità o alle persone che non hanno rapporti solidi prestabiliti con l'establishment e cioè le maggiori fonti di finanziamento, Raicinema e Medusa».
La gente del quartiere Paolo VI vedrà il film? «Il 3 novembre ci sarà una proiezione a Taranto; alcuni sono già venuti a vedere il film in una serata a Roma. A Taranto la proiezione sarà al Polo VI con musica dei Mokadelic, il 6 novembre saremo al Kismet a Bari». (La Gazzetta del Mezzogiorno)
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