Gli amari primati di un Comune fallito, la città è anche tra le più inquinante d'Europa.
Taranto, l'odissea di 500 operai: "Almeno non rubiamo"
Cassa integrazione senza sussidio. "Così torniamo a lavorare in nero"
TARANTO - "Finora non sono andato a rubare", dice Sandro Pignatale, quarantenne, operaio della Siderpower di Taranto, piccola azienda di appalto all'interno dell'enorme impianto siderurgico dell'Ilva. Da marzo è in cassa integrazione, ma da giugno non riceve più alcun sussidio: "Vivo alla giornata". Il suo datore di lavoro non è più in grado di anticipare la cassa integrazione (più o meno 800 euro mensili) perché ha finito i soldi e l'attività produttiva si è totalmente fermata. E l'Inps, che per legge in questi casi dovrebbe sostituirsi all'impresa, ancora non l'ha fatto. Lo farà, anche se soltanto alla fine del mese scorso ha fissato i criteri per selezionare le aziende che possono "abdicare" all'istituto previdenziale.
Ritardi burocratici, incertezze amministrative, debolezze di un sistema di ammortizzatori sociali impreparato ad affrontare la Grande Crisi del nuovo secolo. Vale in tutta Italia, ma soprattutto vale al sud; lì dove esistono ancora tracce di una industrializzazione incompiuta. Così il ripetuto "nessuno è stato lasciato senza sostegno" da parte del governo, suona - da queste, come da altre parti - un po' beffardo.
Taranto è l'unico comune italiano che è fallito, schiacciato nel 2007 da 900 milioni di debiti. E Taranto, città dell'Ilva, è forse il luogo più inquinato d'Europa, sicuramente d'Italia. Ora Taranto rischia un nuovo primato: quello, appunto, di avere più cassintegrati senza alcun sussidio. Solo nel settore metalmeccanico i sindacati stimano almeno 500 lavoratori in questa condizione.
La disoccupazione sta esplodendo: su 200 mila abitanti, 22 mila sono i senza lavoro. Da gennaio ad agosto - secondo gli ultimi dati dell'Inps - le domande per ricevere l'indennità di disoccupazione sono cresciute del 52 per cento. I metalmeccanici in cassa integrazione, compresi quelli dell'Ilva (quasi cinquemila) sono poco più di diecimila. Un terzo dell'industria metalmeccanica "è in ginocchio", sostiene Beppe Lazzaro, segretario generale della Fim-Cisl locale.
Il futuro, come il presente, dipende molto dall'Ilva di Emilio Riva, che ha riaperto da pochi giorni l'altoforno numero 2, che sta gradualmente recuperando gli ordini dopo una discesa della produzione fino al 30 per cento e un'impennata del ricorso alla cassa integrazione. Il mercato mondiale dell'acciaio sembra dare segni di risveglio, ma questa è una ripresa lenta, molto lenta.
E allora come si fa a vivere senza soldi, pur con lo status di cassintegrato? Pasquale Richella ha 44 anni, anche lui operaio, racconta che in casa ora entrano solo 600 euro, quelli che prende la moglie, addetta alla pulizie in una scuola. 600 euro al mese che servono per pagare il prestito che hanno con la banca. Poi? "Faccio dei lavoretti, quello che capita". La verità è che dietro la cassa integrazione che non arriva o che è insufficiente per sostenere tutte le spese, riemerge il nero.
Una sorta di "sommerso popolare", fatto nelle piccole, piccolissime imprese. Quello dei lavoretti, appunto. Che un tempo facevano, per fare esperienze, i ragazzi e che ora cercano gli over 40, già segnati dai ritmi e dai fumi della fabbrica. Li fanno quasi tutti i lavoretti. "Il nero? Hai voglia! Ora è consentito...", sostiene Carmelo Leggeri, 54 anni, dipendente della Eutectique, impresa metalmeccanica di ripristino delle attrezzature sempre all'Ilva, che ha chiesto la cassa integrazione per ristrutturazione. Il che comporterebbe anche qualche investimento, difficile, però, da immaginare quando si è prosciugata la liquidità.
Carmelo riceve un'indennità per un'invalidità permanente causata da un incidente sul lavoro: 500 euro. Spiega che ormai paga solo la bolletta della luce. Punto. Nonostante le banche gli chiedano di rientrare dal rosso. "Mi chiamano, ma io che posso fare?". Ha quattro figli (uno dei quali ha perso il lavoro) che lo aiutano.
Lavoro nero, dunque. Giuseppe Liverano, 46 anni, dipendente della Dbl (montaggi industriali): "Non puoi che arrangiarti. Sei obbligato a lavorare in nero anche se sei a rischio". Lui aiuta qualche carrozziere, perché era quello il suo mestiere. Poi fa l'imbianchino, il muratore. Si va al mercato a scaricare la casse della frutta. Si vive alla giornata e si cercano aiuti tra i famigliari o tra gli amici non in difficoltà. Non si pagano più i debiti. E si vive in casa: il sabato non la pizza ma C'è posta per te con Maria De Filippi. E - per chi può - si ritorna in famiglia, almeno all'aiuto dei parenti. Chi non ce la fa, ricorre a nuovi debiti in una città piena (troppo piena) di agenzie finanziarie. Strozzinaggio.
In questo violento indietreggiare, torna anche la prospettiva dell'emigrazione. D'altra parte è lo Svimez che nell'ultimo rapporto parla di 300 mila giovani che ogni anno dal sud vanno al centro-nord a cercare lavoro e che circa 120 mila di quelli cambia definitivamente la residenza. Fabrice Polito ha 32 anni, è figlio di immigrati. È nato in Francia ed ha già lavorato in Germania e - come dice - "in alta Italia". "Certo che ci penso a emigrare". Ha tre figli e una moglie che non lavora. Aspetta la cassa integrazione, poi si vedrà.
Si torna indietro: dall'occupazione come quella di Valeria Scapati che lavorava alla Dogre, società appaltatrice di servizi comunali, alla disoccupazione. Il Comune - si sa - è fallito. Valeria sarebbe in "mobilità in deroga", ma ha ricevuto l'indennità a singhiozzo. Le avevano anche spiegato che sarebbe stata ricollocata: welfare to work, outplacement, formazione, li chiamano. Nulla. A Taranto - ma non solo - ora è di nuovo il tempo del lavoro nero, prodotto tutto italiano.
ROBERTO MANIA (La Repubblica)
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