Mercoledì 4 novembre scorso il Senato ha approvato la conversione in legge del d.l. 135/09, un pacchetto di norme che riforma i servizi pubblici locali. A destare preoccupazioni è stato, in particolare, l’articolo 15 del decreto, che rappresenta un gran passo avanti verso la privatizzazione dei servizi idrici. L’articolo, infatti, prevede l'obbligo di affidare, a partire dal 2011, la gestione dell’acqua a società private o a capitale misto pubblico/privato. In questo caso, però, sono fissati dei tetti massimi di capitale pubblico, che per le società quotate non può superare il 40%. Una novità sostanziale, quindi, visto che già oggi gli enti pubblici possono decidere di affidare i servizi a privati attraverso gare, mentre con la nuova legge saranno obbligati a farlo, salvo deroghe in casi eccezionali e con l’autorizzazione dell’Antitrust. Nemmeno l’approvazione di un emendamento del PD che afferma “la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche” è riuscita a tranquillizzare le associazioni che fanno capo al Forum dei Movimenti per l’Acqua. Infatti, sono già state annunciate proteste e manifestazioni, fino ad un presidio sotto Montecitorio dove la Camera, il 12 novembre prossimo, discuterà e – probabilmente – approverà la legge in via definitiva.
Ciò che i difensori dell’acqua pubblica contestano è che l’assoggettamento alle regole di mercato dei servizi idrici non possa che entrare in contrasto con il diritto di accesso all’acqua per tutti, secondo la definizione di acqua «bene comune e diritto umano universale», e con le politiche di corretta gestione e risparmio. Eclatante, in questo senso, è il caso di Publiacqua a Firenze che, a seguito di una campagna di sensibilizzazione sul risparmio idrico, ha compensato i mancati introiti, conseguenza del virtuoso comportamento degli utenti/clienti, con un aumento tariffario del 9,5%.
In Italia la prima privatizzazione dei servizi idrici risale al 1999, quando ad Arezzo la loro gestione fu affidata ad una S.p.A. controllata per il 54% dal pubblico e per il 46% dal privato. Anche ad Arezzo c’è stato un aumento progressivo delle tariffe, oggi tra le più care d’Italia, a fronte di bassissimi investimenti per il miglioramento dei servizi. Un altro caso noto è quello di Acqualatina S.p.A. (51% pubblico e 49% privato, con quote della multinazionale Veolia), oggetto di numerose indagini giudiziarie per presunti illeciti e di ricorsi al TAR contro gli aumenti delle tariffe, accompagnati da un servizio peggiorato e da investimenti nulli. E’ evidente come le società dell’acqua, nei fatti, operino in un regime di assoluto monopolio, che costringe gli utenti ad accettare le tariffe ed i servizi, non potendo approvvigionarsi d’acqua in altro modo.
Tra le critiche alla nuova legge c’è quella del Governatore della Puglia, Nichi Vendola, che ha alzato il tiro promettendo la ripubblicizzazione dell’Acquedotto pugliese. Proprio l’Acquedotto pugliese, il più grande d’Europa, rappresenta un’importante anomalia: fu trasformato in S.p.A. nel ’99, le azioni sono state trasferite nel 2001 alla Puglia (87%) e alla Basilicata (13%), in previsione di una futura vendita – non ancora avvenuta – ai privati. Di conseguenza, in una sorta di schizofrenia gestionale, l’Acquedotto pugliese è costretto dalla “natura” di Spa a perseguire il massimo profitto, mentre la sua proprietà pubblica ha il dovere di badare al bene dei cittadini. Da qui la necessità di una legge regionale che ne sancisca la riconversione da Spa ad ente di diritto pubblico. Sicuramente un arduo compito, sia perché in contrasto con la nuova legge (peraltro, fortemente voluta dall’ex presidente Fitto) che per i malumori dell’area PD della maggioranza. Staremo a vedere. Anche perché la gestione dell’acqua in Puglia presenta non pochi ostacoli. E’ necessario, soprattutto, far fronte alle enormi perdite lungo le condutture obsolete. Si stima, infatti, che dai 20mila chilometri di rete venga perso il 30% circa di acqua.
Anche molte delle condutture che portano l’acqua a Taranto sono colpite da gravi perdite. A tal proposito, è difficile rimuovere dalla memoria dei tarantini il “black-out” idrico di 5 giorni dell’estate 2007. A tener vivo il ricordo, comunque, ci pensano le quotidiane sospensioni dell’erogazione che caratterizzano gran parte dell’area urbana, soprattutto città vecchia e borgo. Al solito, l’anomalia tarantina è data dalla presenza della grande industria. Per mandare avanti il sistema produttivo, infatti, le aziende richiedono enormi volumi d’acqua dolce. Ad esempio, per anni l’Ilva ha prelevato 520 litri d’acqua al secondo dai fiumi Sinni e Tara. Prelievo ridotto da circa un anno a 280, ma comunque elevato se si considera che il consumo d’acqua pro capite giornaliero in Italia è di 250 litri.
Questo ha comportato, per Taranto, una privatizzazione de facto del bene-acqua, con i cittadini costretti a ricorrere alle cisterne per fare fronte ai continui tagli delle erogazioni e alla costosa ed inquinante abitudine dell’acqua in bottiglia per rimediare alla scarsa qualità dell’acqua dei rubinetti. Sarebbe necessario, quindi, che nell’ambito di un piano di gestione generale le risorse idriche destinate all’industria fossero sottoposte ad una corretta razionalizzazione, ad esempio imponendo alle aziende l’installazione di sistemi di riutilizzo dell’acqua dolce oppure destinando a industria e agricoltura l’acqua recuperata dai depuratori. Per far questo, è indispensabile che i servizi idrici abbiano come unico fine il bene comune, il che significa fornire a tutti, soprattutto alle fasce economicamente deboli, il volume minimo d’acqua necessario ad assicurarne condizioni di vita accettabili (fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a 50 litri al giorno). Cosa che un sistema pubblico, attraverso una gestione trasparente, democratica, sostenibile e indipendente da gruppi di potere, può garantire.
© Giulio Farella
Pubblicato su TarantOggi del 9 novembre 2009
Fonti
Margherita Ciervo, Geopolitica dell'acqua, Carocci Ed.
http://www.acquabenecomune
http://www.cittadinanzatti
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