giovedì 15 ottobre 2015

Cosa si muove e non si vede in Ilva

Sul polo tarantino una bufera di numeri. Mettiamo ordine

Sembra paradossale che i conti della più grande azienda italiana per dipendenti diretti, l'Ilva di Taranto, quasi ogni mese generino una sorta di psicosi collettiva pur non essendoci una sola carta ufficiale che attesti la reale situazione economica del siderurgico tarantino. Il fatto ancora più grave, se possibile, è che queste voci vengano riprese da tutti i quotidiani locali e nazionali, rilanciate sui social network da politici e sindacalisti e da esponenti della società civile trasformatisi in guru dell'economia mondiale dell'acciaio, e che siano utilizzate ad hoc come armi di terrorismo psicologico di massa da chi ricopre incarichi istituzionali di tutto rispetto ma che mastica molto poco, e male, la materia.
La scorsa settimana in tutta Italia è stata rilanciata la notizia secondo la quale l'Ilva perderebbe tra i 30 e addirittura i 50 milioni di euro al mese (150 soltanto nel trimestre estivo): una cifra abnorme, che manderebbe all'aria qualunque azienda nel mondo nel giro di pochi mesi. La fonte della notizia non è stata specificata. L'azienda non è intervenuta sulla vicenda limitandosi a convocare i sindacati metalmeccanici a Roma il prossimo 29 ottobre. E così, inevitabilmente, è stato rilanciato anche l'allarme sugli stipendi di ottobre da versare sui conti correnti dei dipendenti diretti il prossimo 12 novembre. Notizia poi immediatamente smentita dagli stessi sindacati.
Dunque, qual è la reale situazione economica dell'azienda? Ufficialmente, nessuno può dirlo con certezza assoluta. Nel 2014 l’Ebitda (il margine operativo lordo) è stato negativo per 334 milioni di euro. Secondo le previsioni aziendali, confermate nelle ultime ore, le perdite del 2015 si aggireranno intorno ai 280 e i 300 milioni di euro: dunque non più di 25 milioni di euro al mese, cifra molto lontana dagli allarmi sparati ai quattro venti nei giorni scorsi.
La produzione e le commesse
Chiarezza va fatta anche per quanto concerne le commesse: nei prossimi giorni ripartirà il Treno Nastri 1 (TNA1) e il Tubificio 1 per quattro settimane grazie ad una commessa, anche se minore, di 1500 tubi. Attualmente l'Ilva produce 13mila tonnellate di ghisa al giorno, ed è in marcia con tre altiforni: l'1, il 2 e il 4. Ma ciò non impedirà di chiudere la produzione annua al di sotto dei 5 milioni di tonnellate di acciaio. La cosa interessante è però un'altra e riguarda le manovre che stanno riguardando il Tubificio 2, quello che produce tubi dal diametro maggiore.
Sempre nelle scorse settimane infatti, si è diffusa l'ennesima notizia infondata, secondo la quale l'Ilva avrebbe perso la commessa per la costruzione dei tubi del progetto TAP (il gasdotto Trans Adriatico, Trans-Adriatic Pipeline) inerente il tratto che dall'approdo della costa salentina congiungerà il gasdotto con un tratto di 8 km interrato a un metro e mezzo fino al terminale di ricezione (PRT) che verrà installato tra i comuni di Vernole e Melendugno, per poi riallacciarsi alla rete nazionale di Snam rete Gas a Mesagne, in provincia di Brindisi, attraverso un altro condotto di 56 km che costruirà Snam stessa.
Il fatto è che l'Ilva quella commessa non l'ha persa per il semplice fatto che non l'hai mai ottenuta. Il Consorzio che si occupa del progetto, infatti, non ha ancora deciso a chi affidarsi, ma fonti governative sostengono che la trattativa è in corso e che a breve potrebbero arrivare «buone notizie». Del resto, se il governo italiano non ha mai fatto opposizione alla costruzione del gasdotto e all'approdo dello stesso in una delle zone più belle della costa salentina nonostante la ferrea opposizione delle popolazioni locali, dei Comuni interessati dal progetto e dalla stessa Regione Puglia, è facile intuire che abbia posto delle condizioni al Consorzio, tra le quali appunto quella di rifornirsi dei tubi affidando la commessa proprio all'Ilva.
L’indotto e la forza lavoro: quali le prospettive
Ciò che al momento più preoccupa i sindacati infatti, oltre al fatto di avere 2 mila operai diretti in solidarietà (anche se in realtà secondo 'radio fabbrica' potrebbero essere molti di più visto il poco lavoro), è la situazione di grande sofferenza in cui si trovano le aziende dell'indotto. Molte sono le aziende che lentamente hanno chiuso i battenti negli ultimi mesi. Questo non solo per il fatto che Ilva è nuovamente in ritardo con i pagamenti, ma soprattutto perché le aziende dell'indotto vantano nei confronti del siderurgico un credito pregresso di ben 150 milioni di euro, secondo le stime di Confindustria Taranto. Il problema è che essendo l'azienda in amministrazione controllata, dopo che il tribunale di Milano nello scorso gennaio ha constatato uno stato di insolvenza per quasi tre miliardi di euro (oltre 20mila le istanze di insinuazione al passivo presentate dai creditori), e procedendo spedita verso una pesante ristrutturazione che porterà alla nascita della new.co, quei crediti pregressi finiranno inevitabilmente nella bad company: in pratica difficilmente le aziende dell'indotto otterranno qualcosa. E difficilmente basteranno le risorse finanziarie di 400 milioni di euro stanziate mesi fa dal governo.
Nonostante questo caos di incertezza generale, il silenzio del governo centrale e dei commissari Ilva sottende il fatto che un piano ci sia e che lo si stia seguendo in silenzio, nonostante tutto. Non bisogna dimenticare infatti quanto dichiarò il premier Renzi a fine 2014 e nel marzo dello scorso anno: «È un'azienda strategica per il paese: la risaniamo e poi la rilanciamo sul mercato».
Per la new.co si attende il 2016
È chiaro quindi che in questo momento di transizione sono escluse due ipotesi: la vendita dell'azienda ad un privato e la gestione della stessa a metà tra il pubblico, lo Stato, ed un privato. Dunque, l'unica strada percorribile alternativa alla chiusura è quella della new.co, che nei piani del governo sarebbe dovuta nascere in autunno, mentre sarà costituita non prima dell'inizio del 2016: nelle prossime settimane infatti è prevista la presentazione del piano di ristrutturazione elaborato dai commissari al Mise, che dovrà essere approvato dal ministero e dal governo, che aprirà le porte alla nuova società a cui affittare gli impianti per i prossimi anni. Piano al quale sono interessati soprattutto i sindacati che temono che si realizzi quanto da sempre temuto: ovvero esuberi per 2-3mila operai.
La nascita della new.co è infatti direttamente collegata alla costituzione del Fondo turnaround, una società di servizio approvata dal governo con un decreto la scorsa estate, che prevede l'ingresso nel fondo di enti e fondi d'investimento: secondo l'agenzia di stampa Reuters al momento si parla di una una cifra intorno agli 1,6-1,8 miliardi di euro. Si tratta di Cassa Depositi e prestiti (che ha approvato lo scorso 16 giugno “la manifestazione di interesse, preliminare e non vincolante, a partecipare, con un ammontare fino a 1 miliardo di euro in qualità di investitore garantito, al capitale della società di servizio per la patrimonializzazione e la ristrutturazione delle imprese italiane”), dell'Inail (200 milioni), delle Poste Vita (100 milioni), di Enpam e Inarcassa (50 milioni ciascuno), Orlando Italy e Bridge Point Capital (200-300 milioni), Oaktree e Muzinich (100-200 milioni).
Dunque, tutto si muove pur sembrando immobile. Servirebbe soltanto più onestà intellettuale all'esterno e più chiarezza e comunicazione dall'interno dell'azienda. Ma questa è un'altra storia.
Gianmario Leone - Siderweb

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