Ilva, la Cassazione dice "no" al dissequestro di 100milioni di euro. «Riva Fire partecipò a truffa»
Rimangono ancora "bloccati" i 100 milioni di euro sequestrati lo scorso gennaio dalla guardia di Finanza di Milano nell'ambito della vicenda con al centro la presunta truffa ai danni dello stato per cui ora sono sotto processo Fabio Riva, imprenditore e figlio di Emilio, il patron dell'Ilva di Taranto morto di recente, con altre due persone e Riva Fire, la holding che controlla il gruppo siderurgico.La Cassazione, come è emerso oggi in dibattimento, l'altro ieri ha infatti confermato i sequestri disposti dal gip su richiesta della Procura respingendo i due ricorsi presentati, uno a nome della Riva Fire e l'altro a nome di Emilio Riva, quando era ancora in vita. Il primo è stato ritenuto «infondato, al limite dell'inammisibilità», e il secondo «infondato». La somma sequestrata tramite i due decreti si ipotizza sia l'equivalente dei proventi della presunta truffa che sarebbe stata compiuta per ricevere indebitamente i contributi statali alle esportazioni.
Riva Fire «non solo non esercitò alcun controllo diretto a scongiurare la truffa ma partecipò attivamente al meccanismo fraudolento puntualmente descritto nel pregevole provvedimento» con cui il gip di Milano lo scorso gennaio ha disposto il sequestr
o per equivalente di beni per 100 milioni di euro alla holding della famiglia Riva che controlla l'Ilva di Taranto.
Lo ha scritto la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza con cui è stato rigettato il ricorso presentato dai legali della Riva Fire contro il decreto di sequestro eseguito dalla Gdf nell'ambito del procedimento con al centro una presunta truffa ai danni dello Stato che sarebbe avvenuta tramite l'Ilva Sa, società svizzera creata ad hoc per aggirare la normativa (la "legge Ossola") sull'erogazione di contributi pubblici per le aziende che esportano all'estero.
I giudici, nel loro provvedimento, hanno definito il meccanismo «abbastanza raffinato nei suoi vari passaggi e nelle sue articolazioni internazionali, ma inevitabilmente "esposto" nello snodo fondamentale dell'intervento della Ilva Sa, troppo evidentemente identificabile come una costola svizzera della holding italiana, ma soprattutto come una società sostanzialmente "simulata", alla quale Riva Fire forniva però risorse organizzative reali».
E non solo. Per la Suprema Corte «Ilva Sa era indiscutibilmente una società 'fantasmà, un involucro societario costituito ad hoc per simulare un passaggio commerciale intermedio nella vendita dei prodotti Ilva spa all'acquirente finale estero, e per consentire in prima battuta alla Ilva spa, ma in definitiva al'intera holding guidata dalla Fire, di ottenere indebitamente le sovvenzioni pubbliche previste dalla Legge Ossola» (Quotidiano)
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