venerdì 17 agosto 2012

Le impressioni da fuori





Ilva di Taranto, cronache dai due mari


Taranto, caldo e disagio. Neanche il tempo di entrare nel ventre molle della città che ci fermiamo davanti a un posto di blocco della polizia. Dovete deviare, non si può andare avanti. Sono le undici e mezza, il pullman è partito stamattina alle sei da piazza Garibaldi, ha attraversato una Basentana accerchiata dalle montagne lucane e ha proseguito per la costa jonica. Proseguiamo per una strada diretta verso la zona industriale e dopo qualche chilometro il pullman si ferma di nuovo. All’orizzonte, un tir piazzato di sbieco e un centinaio di operai che bloccano la strada statale. Non si passa. Mi ritrovo all’ingresso dell’Ilva, tra la raffineria dell’Eni, una pompa di benzina piena di operai che stringono panini imbottiti e il cementificio. Grandi ciminiere non troppo lontane da noi, una superficie non quantificabile di linee, altiforni e impianti. Il colore rosso porpora domina la luce di un sole impietoso. Un nastro-trasportatore lunghissimo passa sulle nostre teste accaldate e arriva al porto industriale. Non riesco a individuare il mare. Mi aggiro tra gli operai, c’è una giornalista della televisione regionale che mette il microfono in bocca a un lavoratore, si forma un cerchio intorno a lei. C’è una sola bandiera del sindacato, ma non tira un alito di vento e quella neanche sventola. Scambio due parole con un caporeparto dell’Altoforno uno.
Gli operai sono giovani, sembrano impauriti. Alcuni di loro ostentano una sicumera legittimata dai panni sporchi che indossano. Una signora dell’area flegrea viene cooptata dalla giornalista, davanti alla telecamera esprime tutta la solidarietà ai lavoratori in sciopero e accenna usando troppe parole inutili al disastroso problema di Bagnoli, che da quando ha chiuso l’acciaieria da quelle parti non s’è mai fatto niente. Applausi, qui non si chiude, dicono, è possibile coniugare la tutela dell’ambiente con quella del lavoro. Io ho figli, ho il mutuo. Se chiudono poi vengo a mangiare a casa tua. Se la stanno prendendo con l’Ilva ma qui c’è una raffineria, il cementificio, la discarica, qui è tutto inquinato…
Le notizie che arrivano dal centro della città vengono condivise immediatamente tramite gli smartphone. La giornalista della televisione le commenta in presa diretta insieme ai lavoratori. I pensieri s’accavallano. Intanto le auto che aspettano lo sblocco della strada aumentano a dismisura. Una signora inizia a dare i numeri, deve raggiungere la litoranea per una grigliata in famiglia. Risate. Si avvicina un giovane in tenuta da mare e chiede di poter passare a un operaio. Quello lo guarda, lo squadra e dice di no, si passa solo se hai bambini piccoli. L’altro dice ma è il mio compleanno. Auguri, fa l’operaio, paga a tutti da bere, là c’è il bar. Verso mezzogiorno la strada si sblocca. Se avessi saputo la distanza così ravvicinata tra l’Ilva e la stazione centrale sarei andato anche a piedi.
Taranto, fatti guardare. Angioletto mi fa da stalker-Cicerone. Un autobus che costeggia la città vecchia praticamente abbandonata, il castello aragonese, il mar piccolo, il mar grande, le giraffe dei vecchi cantieri navali Tosi dismessi, un ponte girevole e i palazzi in cui si sono riuniti i ministri per discutere della vicenda Ilva. Al rione Tamburi hanno dipinto le palazzine con lo stesso colore rosso porpora della polvere proveniente dalle collinette di minerale all’interno dello stabilimento. Mimetismo urbano, da quel quartiere ti affacci e vedi le ciminiere. Questa città non si spiega, eppure rappresenta un’immagine paradigmatica nel tempo in cui il lavoro diventa primo nemico del lavoratore. Pippo Fava, in una sua inchiesta degli anni Ottanta sull’industrializzazione in un sud agricolo in balia di uno sfruttamento mascherato da progresso, parlava di tre momenti: la grande illusione, la realtà e la speranza. Questa è l’epoca della disillusione disperata, e da questa parte di sud selvaggio e contaminato l’immagine del conflitto in atto è fin troppo nitida, seppur contraddittoria. Continuo ad avere difficoltà con l’orientamento. Cos’è quella costa laggiù? Ci sono troppe navi che aspettano in rada, lo skyline dell’Ilva onnipresente, l’arsenale e il porto commerciale. La polizia accerchia gli angoli delle piazze, le camionette della guardia di finanza bloccano gli accessi. Sono intrappolato. Hanno creato una zona rossa, e appena fuori, una manifestazione organizzata dal comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti. C’è chi ha sparato raffiche di proiettili d’inchiostro su di loro, dalle colonne di un giornale. Io vedo giovani, famiglie con i bambini nei carrozzini e striscioni, vedo operai, precari, disoccupati e cittadini alle prese con un processo spontaneo e costituente, e per sua natura eterogeneo. Li sento rivendicare diritti inviolabili tra un coro e l’altro.
Ci allontaniamo dalla piazza presidiata da un cordone di polizia e arriviamo in un’altra piazza non lontana. Francesca porta la voce del comitato tra i cori da stadio di sottofondo. «Dopo l’ordinanza della Todisco si sono creati dei disordini a Taranto perché si diceva che gli operai avessero bloccato il ponte e la città. E si stava incominciando ancora una volta a delineare quell’immensa frattura di chi protesta per il lavoro e chi protesta per la salute. Quando siamo andati a vedere cosa succedeva sul ponte, abbiamo capito che gli operai erano stati mandati in sciopero dall’azienda, e si sono trovati con noi per la prima volta, è nato un sodalizio. Non è mai successo finora che gli operai scendessero in piazza e dicessero ai cittadini che là dentro si muore. Gli allevatori hanno dovuto sopprimere seicento capi di bestiame, il raggio interdetto al pascolo parte da cinquecento metri a ridosso dell’Ilva e arriva a venti chilometri, verso l’inizio della litoranea. Non ci vuole uno scienziato a capire… Ognuno di noi ha un morto o un malato di tumore in famiglia. Noi siamo nati per questo, perché questa cosa ce la ripetono da cinquant’anni. Chiedono sempre anche provocatoriamente: “Ma volete la salute o il lavoro?”. Non è una domanda che si può fare, è un falso problema. È un pretesto per creare fratture. Il problema a Taranto c’è, è evidente. Se vai al rione Tamburi e tira vento ti brucia il naso, senti il sapore di metallo in bocca. Il nostro obiettivo è richiamare più gente possibile, far capire agli operai che non siamo contro di loro, che noi siamo con loro. Un’esigenza primaria per noi è che non esiste la scelta tra salute o lavoro. È un ricatto. Se il Gip ritiene che chi inquina paga, se c’è qualche cosa d’illegale, che vada messo a norma e che i lavoratori vengano tutelati. I colpevoli ci sono».
Cataldo, operaio Ilva del reparto impianti marittimi, mi parla sforzandosi: «Quella è una fabbrica in cui vengono cancellati i diritti, viene annullata la dignità. Se tu sei iscritto al sindacato sbagliato, se ti rifiuti di eseguire lavori non in sicurezza, tu sei uno che non farà mai strada, se tu sei uno che partecipa agli scioperi non farai mai strada. Se invece sei uno sempre presente, che dice sempre si anche quando c’è da rischiare la vita, che dice sempre si anche quando dovrebbe dire no, che non ha un pensiero libero di lavoratore, allora potresti fare strada. Questa è l’azienda. Io ci lavoro da quattordici anni, là dentro, ci lavorava mio zio. Ci sono entrato in un periodo storico particolare, quando le menti strateghe dell’Ilva, durante il ricambio occupazionale ai tempi dei benefici dell’amianto, hanno deciso di assumere solo ed esclusivamente figli e parenti dei dipendenti, in modo da tenere a quelli che uscivano per la gola, e a quelli che entravano per le palle. Dopo sei anni avevano ammaestrato tutti alla rinuncia ai diritti. Ora chi è uomo non può subire in eterno, anche se il posto di lavoro è pane per i nostri figli».
Ettore è arrabbiato, ascolta la conversazione, mi scambia per un giornalista e inizia a fare il facinoroso. Lo capisco. Troppe parole strumentalizzate. Cataldo prosegue dopo averlo placato. «Siamo arrabbiati tutti per come ci hanno ridotti. Ci uccidono per il lavoro. Questa è la vergogna, quando la mia città va a bussare a una porta e dice a chi apre “ci stai uccidendo”. Questa persona dice: “o così o metto tutti per la strada”. C’è un lavoratore che ha parlato in assemblea oggi, trentotto anni, cinque figli, ammalato di tumore, è stato licenziato. Nove mesi di chemio. Per queste persone come s’interviene? A chi stanno pensando di arricchire? Ecco la rabbia di Ettore, lo devi giustificare perché è sanguigno, ha il cuore grande… Taranto non era una città da adibire ai veleni. Le risorse sono altre. Qualcuno ha deciso che Taranto doveva essere la pattumiera d’Italia, che doveva vivere di veleni, anzi doveva morire di veleni. Qualcuno ha deciso strategicamente che dobbiamo avere il quaranta per cento di disoccupazione, perché chi ha quel posto di lavoro che ti uccide se lo deve tenere e se lo deve difendere. Per sostenere la propria famiglia. Non è possibile che io posso scambiare il posto di lavoro avvelenando la mia famiglia, perché la mia famiglia vive in questa città. Allora non posso essere più oggetto di negoziazione. Quel motocarro con cui siamo arrivati in piazza quel giorno, quando chi doveva darci risposte si è limitato solo a darci un’appartenenza politica, un’appartenenza a dei gruppi, a contarci e ad assegnarci un colore, invece di darci risposta sulle legittime richieste che noi facevamo… ancora le aspettiamo, le risposte. Le bandiere e i colori che dividono li lasciamo a loro, a noi ci rispondessero sulle nostre ragioni! Noi lavoratori che abbiamo deciso di fare questo comitato non siamo contro i lavoratori dell’Ilva. C’è chi ha interesse a metterci contro l’un l’altro. Con questi lavoratori noi abbiamo condiviso i manifesti fuori alle portinerie. I nostri colleghi morti li abbiamo visti insieme, li abbiamo pianti insieme. Non possono nascondersi dietro a un dito. Noi non siamo più sindacalisti, abbiamo dato le dimissioni perché ci vergognavamo. Se domandi ai lavoratori di Taranto riguardo al sindacato ti diranno tutti che sono dei corrotti. Collusi e venduti. Si sono dimostrati per quello che sono. Sono assoggettati totalmente all’azienda. L’ambiente è più importante del lavoro. Perché si muore. Basta non tengo più voce».
Pomeriggio assolato, nella radio della macchina di Angioletto Gianna Nannini canta Questo amore è una camera a gas. Dal rione Salinella nei pressi dello stadio a Taranto due, tagliamo di netto i quartieri popolari semi-deserti. Casermoni in mezzo alle immense sterpaglie. Passeggiamo per i vicoli della città vecchia, tra i portoni murati e le chiese sconsacrate. Uno scenario surreale. Andiamo a discutere con quelli del comitato di quartiere. Ci fermiamo da zio Gaetano a mangiare un panino in mezzo alle palazzine, in un parchetto archeologico, alle spalle di una cattedrale che assomiglia al cementificio accanto all’Ilva. Scritte sui muri ricordano un compagno scomparso da poco per un incidente stradale. Raffo cozze e scontri, come recita uno stendardo degli ultras. Le famose cozze tarantine, il prodotto locale… Un’ordinanza ne vieta la vendita perché sono contaminate. Mi ritrovo in mezzo a gente che questo territorio lo vive, nel bene e nel male. Una minoranza attiva che agisce di fronte a una paradossale condizione di subordinazione e conflitto. Barcolliamo per la giornata arroventata e faticosa. E mentre ci avviamo verso la litoranea, io e Angioletto continuiamo a ragionare su questa città preda di chi ancora intende rinnovarla autodistruggendola. (andrea bottalico - Napolimonitor)

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