Tutto è cominciato, letteralmente, da
uno spicchio di pecorino. Fu un pezzo di formaggio, preso a Statte,
alle porte di Taranto, e fatto analizzare da Peacelink a nome di un
gruppo di cittadini, a far crollare definitivamente la speranza che la
città fosse al sicuro dai veleni. Quel cibo contaminato dalla diossina,
diede il via - in senso simbolico ma anche pratico - insieme ai rapporti
su benzoapirene e Ipa dell’Arpa e a quelli sulle polveri del Tamburi al
filone d’inchiesta che, dopo quattro anni di lavoro dei magistrati, è
sfociato nei 40 faldoni attualmente in procura col titolo di disastro
ambientale doloso e colposo.
Più o meno negli stessi anni, però, si è sviluppato l’iter che ha
portato al rilascio dell'Aia, Autorizzazione integrata ambientale,
firmata dal ministro Prestigiacomo il 4 agosto 2011. Su questa
procedura, e sull'attività della commissione di nomina governativa, pare
essersi concentrata l’attenzione degli inquirenti per altri due filoni
di inchiesta collaterali a quello su corruzione in atti giudiziari, per
il quale sono indagati i vertici dell’Ilva e un ex perito della procura.
Le indagini sarebbero mirate a politici e funzionari, per cercare di
fare luce sul sistema di complicità e sulla zona grigia tra istituzioni e
tecnici che avrebbe permesso all'azienda di “pilotare” la stessa Aia a
proprio vantaggio, oltre ad annullare i controlli ed edulcorare i dati
sull'impatto ambientale.
Fortissimi sospetti dei magistrati, surrogati in parte da “copiose”
intercettazioni telefoniche, si parla di un dossier da 600 pagine, che
ruotano in parte proprio sulla lunghissima incubazione dell'Aia che lo
scorso marzo, appena 8 mesi dopo il suo varo, è già stata dichiarata
inadeguata, tanto è vero che è in corso la procedura di revisione che si
concluderà il 30 settembre (domani a Roma si apre il tavolo tecnico).
Tra le persone più chiacchierate di questa vicenda, parallela ma non
certo meno importante a quella sull'inquinamento, visto che a quanto
pare coinvolgerebbe anche esponenti parlamentari e importanti
istituzioni locali, c'è sicuramente l'ingegner Dario Ticali, presidente
della commissione Aia Ippc.
A lui, a quanto pare, si riferiva il ministro Clini l’altro giorno
quando parlava di membri in procinto di dare le dimissioni
dall’incarico, per l’evidente incompatibilità del ruolo. Ticali infatti
sarebbe finito nelle intercettazioni svolte dalla Guardia di Finanza, in
particolare per contatti con l'avvocato Luigi Pelaggi, legale Ilva ma
anche ex capo della segreteria tecnica del ministro Prestigiacomo, ossia
colei che ha firmato l’Aia da rifare. Il caso Ilva pullula di
protagonisti che spesso hanno un doppio ruolo, presente o passato, e
collegamenti reciproci non certo entusiasmanti dal punto di vista
morale, fatti salvi i profili penali che sono al vaglio della
magistratura.
Il 16 febbraio 2009, dopo il disegno legge della regione Puglia che
prevedeva il limite di 0,4 nanogrammi a metro cubo per la diossina entro
il 2010 (e 2,5 nanogrammi per il 2009), si tenne a Roma un tavolo un
tavolo in cui il governo Berlusconi fece di tutto per indurre Vendola a
fare marcia indietro. Il ministro Prestigiacomo – due anni prima di
firmare l'Aia – fece l'avvocato dell’Ilva dichiarando «il disegno di
legge proposto da Vendola sull'Ilva di Taranto, se approvato dal
Consiglio regionale implicherebbe la chiusura dello stabilimento entro 4
mesi». Secondo il direttore dello stabilimento, l'ingegner Luigi
Capogrosso, attualmente indagato dai magistrati di Taranto «l’Ilva non
può rispettare il limite, né 2,5 nanogrammi a metro cubo, né 0,4
nanogrammi a metro cubo anche in presenza dell'impianto urea».
La ciliegina sulla torta fu messa proprio dall'ingegner Ticali, che
nell'occasione rappresentava il ministero dell'Ambiente: «Il limite
desumibile dalle tre campagne dovrebbe tendere a 3,5 nanogrammi a metro
cubo, contemplando quindi valori emissivi fino a 5 nanogrammi a metro
cubo». Il presidente della commissione per l’Aia, che doveva mettere
all'Ilva una sorta di “museruola” legislativa per contenere le sue
emissioni nei limiti di legge, ha insomma proposto per i valori di
diossina valori più alti di quelli chiesti dalla stessa fabbrica. Non
solo: siccome gli ultimi dati relativi alla diossina dicono che l’Ilva è
in grado di scendere sotto lo 0,1 (ancora meno di 0,4), vuol dire che
Ticali proponeva un limite 500 volte superiore a quello reale.
Da notare che nel 2011, Ilva ha dichiarato dopo una serie di
autocontrolli di essere nell'ambito dei nuovi limiti di legge (0,39
nanogrammi). Peccato che però una verifica fatta dall’Arpa a Roma sullo
spettometro di massa ad alta risoluzione utilizzato dagli esperti del
Cnr, che nell’occasione ha fatto da consulente all'azienda, abbia
evidenziato che il macchinario non funzionasse. Circostanza che, a
quanto pare, ha attirato l’attenzione dei magistrati per uno stralcio di
indagine. Anche la vicenda del benzoapirene, però, ha avuto un ruolo
importante nella genesi dell'Aia e delle inchieste dei magistrati. Il 4
giugno 2010 infatti Arpa rende noto che il 98% del benzoapirene che
inquina Taranto (il Tamburi) proviene proprio dalla cokeria dell'Ilva.
Di fronte a questa preoccupante evidenza, la Regione prende una
decisione incomprensibile: affida a propri tecnici un monitoraggio
diagnostico degli impianti, nonostante il più che eloquente rapporto
Arpa che è un'agenzia regionale. L'evidente sovrapposizione viene
comunicata al direttore Giorgio Assennato a cose fatte, tanto che dalle
intercettazioni risulta che il professore si sia recato a Bari ad un
incontro col presidente Vendola e i vertici dell'Ilva, e sia stato fatto
accomodare fuori dalla porta in attesa con una scelta che il
governatore non ha ancora chiarito. Risale a quel periodo peraltro la
conversazione telefonica nella quale Girolamo Archinà, ex pr Ilva, dice
«bisogna distruggere Assennato». Due mesi dopo, il 13 agosto 2010, il
governo ha emanato il decreto 155/2010 che rinvia al 2013 il limite di
un nanogrammo per metro cubo, facendo secondo molti e per ovvi motivi un
grande favore all’Ilva. (Salvatore Maria Righi - L'Unità)
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