mercoledì 12 settembre 2012

Negli altoforni e nei polmoni

Divieto di carico carbon-fossili: come privare l’Ilva di Taranto del suo fabbisogno energetico

di Giuseppe Miccoli

Le conclusioni delle perizie chimiche ed epidemiologiche sono state determinanti per la Procura tarantina. La sentenza, giudizio di primo grado del 26 luglio 2012, ha stabilito che l’Ilva di Taranto ha commesso il reato di disastro ambientale, ex articolo 321 del codice penale, da cui discende l’obbligatorietà, da parte della magistratura, del sequestro degli impianti. Per il polo siderurgico più grande d’Europa, inaugurato nel 1965 e privatizzato, dopo trent’anni, con la cessione dell'impianto ex-Italsider di Taranto al gruppo Riva, hanno avuto inizio le attività di chiusura senza facoltà d’uso (riconfermata nei primi giorni di agosto dal Tribunale del Riesame) di sei principali aree “a caldo”: i parchi minerari, la cokeria, gli altiforni, le acciaierie, l'impianto di agglomerazione (con il relativo camino E312) e il deposito di materiale ferroso.
Il blocco delle attività non è però cosa semplice, e non avverrà nell’immediato. La chiusura, se mai ci sarà, dovrà avvenire seguendo un iter progettuale a breve termine, pianificato da periti in qualità di “custodi giudiziari” nominati dalla Procura jonica. Ad evitarla, forse, l’eventuale rilascio della nuova e più stringente Autorizzazione Integrata Ambientale, che dovrà essere rimodulata da 23 esperti, nominati dal Ministero dell’Ambiente in seno alla Commissione istruttoria per l’IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) , nata, come nuova strategia comune a tutta l’Unione Europea, per aumentare le “prestazioni ambientali” dei complessi industriali soggetti ad autorizzazione.
Non è da escludere, tuttavia che le operazioni relative al blocco delle attività abbiano ricevuto, negli ultimi giorni, un’accelerazione, a causa della tempesta di polveri minerarie, provenienti dal parco dell’Ilva, che il 29 agosto ha investito il vicino quartiere Tamburi di Taranto. Per l’Arpa Puglia il maestrale ha determinato una “situazione di criticità ambientale”, rilevata dalla “rosa d’inquinamento” della centralina di monitoraggio dell’aria del medesimo quartiere, e imputata con fondamento all’Ilva. Nel contempo, si è riscontrato il superamento quantitativo e temporale della soglia dei 35 sforamenti giornalieri consentiti in un anno dalla normativa che, all’articolo 1 lettera a) del Decreto legislativo 155/2010, individua “obiettivi di qualità dell'aria ambiente volti a evitare, prevenire o ridurre effetti nocivi per la salute umana e per l'ambiente nel suo complesso”.
Il 6 settembre 2012, perciò, la Procura di Taranto, guidata dal procuratore capo Franco Sebastio e per il tramite dei carabinieri del Noe, ha proibito l’ingresso di nuove polveri minerali nell’area “parchi”: il carbone e il pet-coke, che dal porto raggiungono la fabbrica mediante il nastro trasportatore, rimarranno sulle navi. Il divieto di carico, e cioè il blocco all’ingresso delle materie prime, ha, in questa fase, serie conseguenze per l’Ilva, poiché comporta lo spegnimento dell’area a maggior fabbisogno energetico della fabbrica: quella degli altiforni. Certo non è detto che lo  spegnimento degli altiforni avvenga in maniera istantanea. Occorre prima di tutto esaurire le scorte stoccate a cielo aperto su un’area di 70 ettari. In seguito l’Ilva potrebbe chiudere la cokeria, in attesa del rilascio della nuova Autorizzazione Integrata Ambientale, acquisire sul mercato combustibili fossili e rallentare la produzione, in modo da tenere in funzione gli impianti, allo scopo di non danneggiarli. Ma questa soluzione, lineare sulla carta, è piuttosto difficile da realizzare sul piano operativo, a causa del fatto che il carbone fossile e il pet-Coke costituiscono un contributo rilevante al fabbisogno energetico dell’Ilva. Proibirne l’ingresso equivale perciò a privare lo stabilimento di gran parte del suo sostentamento.


Ilva

I dati forniti dalla stessa azienda e riportati nel Rapporto Ambiente e Sicurezza dell’Ilva di Taranto (2011) lo dimostrano. Nel capitolo dedicato al bilancio energetico ed emissioni di CO2, infatti, si legge che “lo stabilimento nel 2010 ha consumato centinaia di migliaia di Terajoule di energia essenzialmente forniti dai combustibili fossili e, in minor misura, da energia elettrica, metano e vapore”.
In particolare il Bilancio Energetico dello stabilimento articola il proprio fabbisogno di energia totale secondo una precisata tabella, in base alla quale il carbone fossile e il pet-Coke sono indispensabili per il 68%, con un consumo pari a 139.951 Tj.  Di minore entità l’utilizzo a fini energetici del Gas Naturale, pari al 7% (14.500 Tj), la fornitura di Energia elettrica da parte delle Centrali elettriche (4,3% , cioè 8.966 Tj), l’Energia elettrica da rete nazionale (2,3 %, 4.724 Tj), il Vapore dalle Centrali elettriche (1,33%, 2.764 Tj), e infine la voce Carburanti (0,29% , 610 Tj).
Il consumo totale è quindi pari a 205.554 Tj, ma esso va considerato al netto dei recuperi energetici, e cioè il recupero del Gas siderurgico, che, mediante una propria centrale, produce energia elettrica per un 15% e cioè 30.758 Tj, nonché il catrame, che contribuisce per 1,6% (3.281 Tj).
Il fabbisogno energetico totale ammonta perciò a 137.475 Tj, cifra non lontana dai 139.951 Tj derivanti da combustibili fossili. Occorrono dunque grandi quantitativi di energia, e cioè di carbone, per tenere in vita la fabbrica. Sono occorse mediamente nel 2010, per ogni tonnellata di acciaio solido prodotta 19,7 Gj di energia; erano 20,2 nel 2009 e 18,7 nel 2007. Il valore del consumo energetico specifico diminuisce in base all’aumento della produzione, scarsa secondo l’Ilva nel 2009 per la “consistente contrazione dei volumi di produzione acciaio”, più nella norma quella del 2007. (Agienergia)

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