mercoledì 12 settembre 2012

Domande senza risposta

Alcoa, Ilva, Carbosulcis: le principali tappe di tre vicende tutte italiane

di Chiara Proietti Silvestri (RIE)

Negli ultimi mesi si è assistito al susseguirsi di tre casi di cronaca industriale; sul piatto della bilancia la chiusura degli stabilimenti in ragione della loro anti-economicità, dello sperpero di denaro pubblico prodotto o dell’impatto ambientale nocivo versus il destino di centinaia di lavoratori costretti alla cassa integrazione. Una storia in realtà lunga decenni: nonostante, infatti, i nuovi sviluppi che giustificano il loro ritorno sulle pagine nazionali – che siano sentenze o scioperi eclatanti – queste tre vicende sono tutt’altro che nuove alle cronache italiane. Al di là delle differenze che le contraddistinguono, esse riflettono una crisi industriale del Paese che impone, oggi più che mai, di stabilire una chiara politica nazionale in materia. Per capire la sorte del nostro comparto manifatturiero e le condizioni normative, sociali, ambientali del suo sviluppo.
Qui di seguito intendiamo fornire un quadro sintetico delle vicende in questione.

L’azienda americana Alcoa, terzo produttore al mondo di alluminio, acquisisce nel 1996 la società a partecipazione statale Alumix, disponendo un'unità produttiva di alluminio primario a Portovesme, in Sardegna, a cui si deve l’intera produzione di alluminio primario dell’Italia. I problemi per lo stabilimento di Portovesme, in produzione dal 1973, arrivano nel 2009 quando l’azienda inizia a collezionare perdite operative continue a causa degli alti costi di produzione - in gran parte dipesi dall’alto consumo di energia della centrale - e del calo del prezzo dell’alluminio sul mercato internazionale, una situazione aggravata dalla crisi economica attuale. Nel 2010, Alcoa firma un memorandum d’intesa con governo e sindacati nel quale l’azienda mostrava la volontà a mantenere operativo l’impianto in accordo con un piano industriale di investimento. Sempre nel 2010, il governo italiano emana il decreto legge 3/2010, recante misure per la sicurezza dell’approvvigionamento di energia elettrica nelle isole maggiori (il cosiddetto decreto “salva Alcoa”), che prevedeva tariffe elettriche agevolate poi bollate dall’UE come aiuti di stato. Alla fine del 2011, nonostante fosse stato sostenuto il 70% degli interventi previsti nel piano firmato l’anno precedente, Alcoa ha dichiarato che le condizioni generali impedivano all’impianto di essere profittevole e competitivo. A gennaio 2012 arriva il comunicato dell’azienda che intende chiudere lo stabilimento di Portovesme che ha una capacità produttiva di 150.000 ton/anno e dà lavoro a 500 lavoratori.

La Sardegna ospita anche l’altro stabilimento al centro del dibattito attuale: la miniera di carbone di Nuraxi Figus, l’ultima ancora operativa in Italia, di proprietà della Carbosulcis. La sua storia inizia a metà dell’Ottocento quando fu approvata la prima concessione per la coltivazione del giacimento di carbone; uno sviluppo che incontrerà una prima crisi in concomitanza con il crollo del 1929. Nel 1935, fu l’intervento statale a risollevare le sorti dell’attività mineraria e a rilanciare il settore che incrementò così i livelli produttivi e occupazionali. Un’ulteriore crisi fu scongiurata negli anni ‘60 quando l’Enel, proprietaria delle miniere, decise per il blocco dell’attività estrattiva ritenuta anti economica; i rischi sulle ricadute occupazionali della zona portarono nel 1976 l’Ente minerario Sardo e l’EGAM, poi assorbita dall’ENI, a costituire la Carbosulcis al fine di rilevare dall’Enel la proprietà e la gestione delle miniere e salvarle dalla chiusura definitiva. Negli anni si cercò di creare un mercato per il carbone solforoso del Sulcis prevedendo progetti di gassificazione e di produzione di energia termoelettrica, mai andati in porto; la produzione riprese solo nel 1988 a seguito della legge mineraria del 1985 che stanziava finanziamenti pubblici per il rilancio del bacino carbonifero. Nel 1995 Carbosulcis fu messa in vendita per essere privatizzata ma l’asta andò deserta; le prospettive di chiusura portarono ad una nuova ondata di lotte sindacali, forti proteste e occupazioni delle miniere. In questi anni, l’Eni decide di uscire definitivamente dal settore carbonifero e la miniera del Sulcis viene presa in carico dalla Regione Sardegna per gestire la transizione alla privatizzazione che ad oggi non si è ancora compiuta.

L’acciaieria di Taranto viene costituita all’inizio degli anni ‘60 dall’Ilva che a quel tempo aveva il nome di Italsider. A seguito di una serie di vicende aziendali che hanno portato alla liquidazione di Italsider, l’azienda, divenuta Ilva, verrà smembrata dal processo di privatizzazione che porterà i suoi impianti siderurgici alla chiusura o alla vendita. Quest’ultimo è il caso del grande polo siderurgico di Taranto che sarà ceduto nel 1995 al Gruppo Riva. I problemi dell’impianto pugliese, a differenza dei due poli sardi del carbone e dell’alluminio, non sono strettamente connessi alla sua economicità e competitività sul mercato bensì agli impatti ambientali delle sue attività. È su tali aspetti che si giocano le sorti del complesso industriale e delle migliaia di lavoratori diretti in esso impiegati: il 26 luglio 2012, infatti, il GIP di Taranto ha disposto il sequestro dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva. Dalle ragioni esposte nell’ordinanza emergerebbe la carenza di misure di sicurezza che avrebbe inasprito il grado di inquinamento dell’attività in loco. Ciò nonostante, la forte ricaduta occupazionale dell’azienda ha portato in piazza migliaia di lavoratori a manifestare contro la chiusura del polo siderurgico.

Risulta chiaro come gli eventi di Taranto e della Sardegna riflettano, più in generale, le problematiche che si riscontrano a livello nazionale di incertezza regolatoria e, prima ancora, politica e industriale. L’inefficacia della politica e la tutela degli interessi esistenti, a scapito delle generazioni future, hanno protratto nel tempo situazioni critiche oggi divenute delle vere e proprie emergenze, costose sia in termini di denaro pubblico speso che di vite umane coinvolte. Serve, quindi, una politica industriale seria che definisca obiettivi e strumenti chiari ed efficienti, essenziali oggi in un contesto di mercati liberalizzati e competitivi in cui situazioni di riconversione industriale e territoriale sono sempre più frequenti. (Agienergia)

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