domenica 5 aprile 2009

Lettera dal figlio di un operaio Ilva.

“Sono figlio di un ex operaio Ilva, non un operaio a caso, mio padre. L’ultimo del mondo. Sono figlio dell’ultimo del mondo. Io sono un traditore. Sono un reietto. Come Bruto ho ucciso mio padre. L’ho ucciso con il silenzio. Caino me. Mio padre aveva tre figli, io l’unico maschio, ultimo a nascere. Secondo Riva a me spettava un posto di diritto in fabbrica. Per me il destino era scritto. Me le ricordo tutte le chiacchierate con mio padre. Da buon operaio, padre di famiglia, voleva per il suo unico figlio maschio, il riscatto sociale, voleva una carriera all’avanguardia. Mi diceva: studia, impegnati, costruisci il tuo futuro perché nessuno qua ti da niente. Perché il futuro si costruisce sporcandosi le mani. Mi diceva di non arrendermi perché all’Ilva non c’era neanche il padre eterno a difenderti”.



“Dopo la morte di mio padre – dice Favino – quella macchina dell’Ilva che lo aveva stritolato era guidata da un altro operaio come lui, come se non fosse successo niente. Tutto doveva ricominciare come prima e meglio di prima”
"Mio padre è morto assassinato dalla sua odiata fabbrica. Per loro era solo un ingranaggio della catena, che poteva essere sostituito. Ma io quel giorno ho perso mio padre".


Così scriveva il 13 dicembre 2008, Roberto Romano, figlio di un ex operaio Ilva. Questa la lettera letta da Pierfrancesco Favino dal palco del Circo Massimo. “Sì, mio padre era cattolico, praticante – si legge nella lettera - Io prima ci credevo. A ventitre anni con una moglie e un diploma di perito industriale il suo futuro era segnato. Come era segnata la nascita, un anno dopo, della sua prima figlia. Lavorare all’Ilva era l’unica soluzione. Operaio. In fondo alla società per diritti e protezione ci sono gli operai. Lui aveva molti doveri ma pochi diritti. Aveva il dovere di proteggere la sua famiglia, sfamandola, educandola, aveva il dovere di non scioperare perché lo sciopero significava portare a casa meno soldi perché, dopo quasi tre anni mio padre volle assieme a mia madre concepire un figlio, la fortuna ne diede due: mia sorella e me. Perché avere due gemelli significava doppio lavoro, significava visite pediatriche doppie, ogni volta che ci si ammalava ci si ammalava in due, ogni volta significava andare in farmacia e lasciare una settimana di lavoro. Ma in famiglia non si era in due ma in cinque”.

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