Le diossine vengono cercate con metodi sofisticati nelle derrate alimentari ma, sia per il costo sia per la complessità dell’indagine, gli accertamenti sono casuali e sporadici per cui ben pochi alimenti vengono controllati e, ogni tanto, esplode un nuovo “caso diossine” perché, non essendo questi contaminanti controllati a partire dall’ambiente, la loro presenza ubiquitaria ne determina picchi improvvisi quanto inattesi nelle più diverse derrate di origine animale.
Il susseguirsi di ritrovamenti di tracce più o meno consistenti di diossine in alimenti di origine animale ha posto nuovamente il problema della sicurezza alimentare ed ha dimostrato che lo spostamento concettuale da Controllo degli Alimenti a Sicurezza Alimentare non ha comportato un reale mutamento dei sistemi di controllo e tutela dei consumatori ma solo tanta demagogia e tanta dialettica; pur con nomi diversi sono stati mantenuti gli stessi approcci organizzativi ed analitici basati sull’esame di pochi campioni prelevati più o meno a caso.
Se teniamo conto che le diossine si producono praticamente in tutti i processi di combustione ed in molte reazioni chimiche industriali ma, al tempo stesso, che entrano nella catena alimentare quasi solo per ingestione diretta da parte dell'uomo e/o degli erbivori delle scorie depositate sui vegetali, poiché sembra che solo poche famiglie botaniche siano in grado di rendere biodisponibili questi composti, appare chiaro quanto siano insufficienti i pochi esami casuali eseguiti dagli organi di controllo.
Inoltre non bisogna dimenticare che, entrate nella catena alimentare, dette molecole tendono a depositarsi nelle frazioni grasse dando fenomeni di accumulo per cui si assiste ad un processo di concentrazione nei tessuti adiposi e, quindi, in tutti i prodotti di origine animale contenenti una fase lipidica come il latte, i latticini, il burro, il tuorlo d'uovo, ecc.
È chiaro che la sicurezza alimentare non è quindi legata alla loro presenza generica, peraltro molto diffusa, quanto alle quantità presenti sui vegetali consumati dall'uomo o dagli erbivori e, nel secondo caso, al rapporto di concentrazione che si determina tra il contaminante presente sulle foglie e gli alimenti di origine animale assunti dall'uomo.
Pertanto non è sufficiente effettuare dei rilevamenti generici e casuali per conoscere la reale gravità della situazione ma è indispensabile tenere sotto controllo le variazioni della quantità presente sui vegetali per valutare l’entità dei picchi di contaminazione e quindi il rischio potenziale legato ad ogni specifico sito. Si tratta cioè di individuare i “nodi” d’ingresso del contaminante nella catena alimentare (ad esempio le aree di produzione di vegetali destinati all'alimentazione animale, in cui è possibile la concentrazione del residuo, soggette ad ampia variabilità del livello di diossine), di monitorarli per periodi sufficienti a valutare quale apporto rappresentano e di individuare i provvedimenti da adottare sul territorio (bonifica, proibizione di specifiche colture vegetali, ecc.).
Quanto detto suggerisce la necessità di rivedere le strategie d’approccio al problema ed in particolare come, per parlare di Sicurezza Alimentare, sia necessario predisporre nuovi protocolli di campionamento, individuando i “nodi” in cui le variazioni di concentrazione rilevata facciano presupporre ingressi importanti nella catena alimentare e puntare non sul superamento di limiti legali (peraltro discutibili) ma sulla variazione dei valori rilevati e sul calcolo statistico della quantità apportata alla dieta che essi rappresentano.
È, quindi, opportuno impiantare strategie di controllo basate sul monitoraggio di punti critici, impiegando metodi di screening tali da rilevare con facilità la presenza del residuo, pur lasciando ad esami seguenti, più sofisticati, conferma e tipicizzazione del contaminante.
A questo proposito è bene ricordare che i metodi attualmente in uso sono quantomai dispendiosi sia per la loro complessità, sia per i costi e non permettano, a causa degli stessi tempi di analisi, controlli di routine importanti per cui dovranno essere studiati e messi in opera nuovi sistemi di screening supportati, ovviamente, dai metodi di conferma tradizionali.
* Pier Luigi Cazzola è direttore dell'Istituto zooprofilattico di Vercelli.
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