sabato 13 dicembre 2008

nella lettera di una vedova le parole di un operaio ucciso dalla fabbrica

"Il giorno in cui misi piede per la prima volta come operaio nel cantiere Ilva di Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai mi era accaduto nella mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla fine di quella giornata. Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di mobilità e decine di domande inoltrate a ditte del settore, un contratto a due mesi mi aveva dato respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato in trasferta qualche anno prima. Quella sensazione che avevo ora però, era di definitiva appartenenza a quel luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro. Dovevo avere un´espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia moglie mi abbracciò forte, dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa di meglio. Invece restai in quella ditta per due anni, passai in un´altra come caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima, divenendo vice-capocantiere circa tre anni dopo.
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A fumi e vapori si aggiungeva il `polverino´, come lo chiamavano qui, che si sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi minerali, in una sorta di moderna rivisitazione dell´Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente, il tutto era avvolto dalle note dell´"Inno alla gioia" di Beethoven, diffuse dagli altoparlanti per sottolineare il momento culmine della "colata". A questo scenario pian piano non ci feci più caso, se non per il fatto che gradualmente contribuiva ad aggravare la mia allergia. La prima estate che affrontai in Ilva fu una delle più calde in assoluto. Toccò i 40° e a noi toccò ristrutturare un altoforno ancora caldo, situato vicino a un altro in funzione, a 1.800°.

In seguito bisognò revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole inutilizzabili: condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno. Strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità funambolica. Difficile raccontare questo stato di cose a chi non conosceva quell’ambiente.

E infatti non lo raccontavo... Mia moglie era l’unica a conoscere nei dettagli la mia realtà lavorativa.
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n passato avevo subito troppe vessazioni solo per essermi opposto a delle ingiustizie, da parte di capi tesi ad affermare il proprio ruolo, per non nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al fianco dei miei operai per condividere rischi e fatica. Era nel periodo delle "fermate", vale a dire il blocco produttivo di un settore del cantiere, che permetteva a noi di intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che tutto andasse per il meglio. Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. Non lo lasciavo perché volevo mettere un po’ di risparmi da parte per avviare una attività indipendente
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A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta, si moriva anche. Le morti ci lasciavano attoniti, a pensare all´esagerato tributo da pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante.

Eroi, martiri del lavoro? Nessuna medaglia, non funerali di stato. E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che chiedeva sacrifici in nome di interessi economici, e non si prodigava ad attuare migliori misure di sicurezza, definendo "morti fisiologiche" quelle 2-3 che in media si verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000 persone. Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso. Protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la morte cercando di non pensarci. D’altronde nella nostra ditta non era mai morto nessuno.

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Siamo a venti metri da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas che trasportava. Indossiamo maschere collegate a bombole d´aria perché potrebbero esserci residui di gas, non è la prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare. E infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male. Questo gas è inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore ma ormai è certo che da qualche parte c’è una perdita, comincio ad avere mal di testa. Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né l’Ilva si possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non va, non gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non lavorare più.

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Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi. Ultimamente sono stato anche un po´duro con lui, ma non vorrei mai che si trovasse costretto un giorno a fare questo.

Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le forze.
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Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un bell’aspetto, dice. Non posso, siamo una squadra ed io ne sono anche responsabile. Infatti i problemi non sono ancora risolti; insistiamo, ricominciano le telefonate. Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il completamento del lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio completarlo. Stasera a casa voglio abbracciare Franca, Gabriele e Roberta. Dire loro quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e poi voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così stanco che all’improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi, squilla il cellulare, dormo."

Amore mio, è passato un anno da quando non ci sei più. Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi. Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore di una realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro adorato papà. Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto cadere tra le sue braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata prima. Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci col tuo amore e la tua tenerezza. Dev’essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché continuo ad amarti tanto e ad avere la forza di vivere senza di te.
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