Viaggio attraverso l’inferno delle campagne pugliesi
“Quando in un capannone spruzzano il veleno, per almeno 48 ore nessuno può entrarci. In realtà ci fanno entrare anche dopo poche ore. Capita molto spesso. Le mascherine ce le portiamo noi da casa. Da sempre me ne fabbrico una con una fascia di cotone e indosso un fazzoletto in testa. Questa è la seconda volta che finisco in ospedale per avvelenamento". Teresa è una donna sulla cinquantina, energica e dinamica, capelli ossigenati e unghiadipinte da uno smalto blu elettrico, racconta la sua avventura mentre facciamo colazione con una deprimente pappina di mele, senza zucchero e senza anima, in una delle camere dell'ospedale di Grottaglie, in provincia di Taranto. Lei e Maria, una sua collega, sono qui per un "incidente" sul lavoro. “Quando qualcuno si avvelena e sviene, le donne la spogliano, le infilano un camice pulito e la portano in ospedale". "Perché il camice?", "Perché in ospedale non sentano la puzza del veleno. Il proprietario della terra generalmente preferisce investire in camici piuttosto che in mascherine, forse più costose”. Posa il cucchiaio, e decide che il digiuno è più dignitoso della pappina.
Teresa sostiene che la qualità di queste brodaglie ospedaliere peggiora di volta in volta: la prima volta che è finita in ospedale, sempre per la stessa ragione, era addirittura "commestibile". "L'anno scorso sono stata ricoverata perchè mentre lavoravo due uomini stavano spruzzando del veleno. Ci arrivava in faccia, protestavamo. Ci sarà stata una segnalazione e l’ispettorato del lavoro ha fatto un blitz. Gli ispettori ci hanno circondate. Gli uomini che spruzzavano il veleno sono riusciti a scappare tra i campi. Il caporale ci ha costrette a dire che non li conoscevamo e che probabilmente venivano da un’altra campagna. Gli ispettori si sono poi chiusi in ufficio col capo e dopo un po’ se ne sono andati. A metà giornata accusavo una forte nausea e mal di testa e in serata mi sono ricoverata. Una giovane donna incinta s’è sentita male ed è svenuta. La madre e la sorella che lavoravano con noi l’hanno soccorsa. Abbiamo avvisato il capo che ci ha consegnato un camice rosso da farle indossare, poi abbiamo chiamato l’ambulanza e sono andate in ospedale. Il proprietario si è rifiutato di pagar loro quella giornata perché non l’avevano conclusa. La ragazza ha abortito, ma dopo appena 20 giorni è tornata all’opera. La madre e la sorella invece sono rientrate a lavorare il giorno dopo…”.
Fuori dall'ospedale c'è la Puglia, una terra investita dal progresso senza essere mai passata per la storia, vestita dalle sue campagne gialle e assolate, che se parlassero racconterebbero sempre le stesse storie, le stesse del secolo scorso. Maria fa fatica ad alzarsi: "Ma perchè? Resto qui, ne approfitto e mi faccio una vacanza! Se domani mi dimettono, dopodomani devo tornare in campagna".
Una volta, mentre lavorava, il caporale ha chiesto a una ragazza di 18 anni al suo primo giorno di lavoro di andare a pulire il pullman. Lei, senza esitare, è andata. Lui l’ha seguita e ha iniziato a palparla. La ragazza ha lanciato un urlo, tutte hanno capito di che si trattava ma nessuna ha mosso un dito. "Solo io e una mia collega ci siamo precipitate sul pullman minacciandolo di andare dai carabinieri", incalza Maria, orgogliosa: "Ha smesso e siamo tornate a lavorare. La ragazza non s’è più presentata, ma non l’ha nemmeno denunciato". Si ferma e fa silenzio, mi guarda con uno sguardo d'intesa, confuso tra la rabbia e la rassegnazione, e aggiunge: "Si vergognava magari, o forse non poteva permettersi di perdere quel lavoro". Maria ha ventotto anni, la sua carriera nei campi è iniziata tre anni fa dopo una breve esperienza al call center: "La vera ragione del nostro silenzio è sempre la stessa - mi spiega - se denunci un caporale, la voce circola e nessuna azienda agricola locale è più disposta ad assumerti, e intanto il capo ‘se ne esce’ con una multa. In fondo non ne vale la pena … ”. Maria si alza tutte le mattine alle 3 e ogni giorno torna a casa alle 3 del pomeriggio, stremata, e deve occuparsi della casa e della famiglia. Si è sposata a 20 anni e ha un bambino di cinque anni di cui si prende cura la madre. Il marito lavorava all'Ilva di Taranto, ma adesso è in cassa integrazione. E come lei tante altre, e tutto questo per 30/40 euro al giorno, le più fortunate. Maria, invece, lavora per soli 25 euro: “L’anno scorso in un’azienda agricola della provincia di Taranto, alcune donne hanno incrociato le braccia per un aumento di 3 euro sul loro salario giornaliero di 17. Alla fine si è giunti ad un accordo e sono riuscite ad ottenere un euro in più".
I salari, i sotterfugi, le megatruffe
Per legge, l’attuale salario giornaliero di un bracciante in Puglia (ogni regione adotta politiche diverse) è di 36,67 euro (nel 2007 era di 42,82), più i contributi. Chi non supera le 180 giornate lavorative annuali ha anche diritto all’assegno di disoccupazione. Dal 2008, i braccianti che lavorano dalle 151 alle 180 giornate l’anno si son visti ridurre l’assegno di disoccupazione del 20%.
Maria e Teresa lavorano circa 190 giornate l’anno, ma si fanno registrare non più di 100 giornate. Percepiscono i contributi per la pensione e un salario di 25 euro (i restanti 11 euro se li spartiscono il proprietario e il caporale ‘sottobanco’): "Le giornate ‘a nero’ non mi danno il diritto ai contributi, ma guadagno 5 euro in più, inoltre non rischio di perdere il diritto all’assegno di disoccupazione”, spiega Maria, e mi racconta che in un'azienda in cui lavorava una sua amica l’anno scorso le contadine non hanno ottenuto l'assegno di disoccupazione, poiché il datore di lavoro non aveva registrato loro nemmeno una giornata: "Succede anche questo. Tuttavia, quell’azienda pagava 40 euro al giorno, più delle altre, per cui le donne sono rimaste, ma hanno protestato ottenendo il diritto alla registrazione”.
Un sindacalista spiega che il ridimensionamento del settore agricolo è una delle cause principali di questa situazione: "Il lavoro è poco, è diminuito negli ultimi tempi. Sia per l’introduzione dei macchinari agricoli una decina d’anni fa, sia per l’arrivo degli extracomunitari, disposti a lavorare anche per molto meno. Inoltre il settore agricolo è in crisi, e la domanda dei prodotti sul mercato è diminuita. C’è tanta domanda di lavoro ma poca offerta, per cui i proprietari terrieri se ne approfittano”.
I fantasmi delle campagne
Molto spesso 50 braccianti devono fare il lavoro di 100, per cui le giornate lavorative diventano ulteriormente pesanti. Perché questo accade? Gli altri 50 braccianti esistono sulla carta ma non sul campo. Li chiamano “Braccianti fantasma” o anche “Falsi Braccianti”: maxi truffe all’Inps che negli ultimi anni hanno fatto eseguire numerosi arresti. Ma il fenomeno non si è ancora estinto. Di cosa si tratta? I proprietari terrieri assumono in maniera fittizia numerosi braccianti, spesso amici o conoscenti. Questi vengono inseriti nel sistema informatico dell’Inps, percependo, senza aver mai realmente fatto una giornata di lavoro, indennità previdenziali ed assistenziali per un importo di decine di migliaia di euro.
“Al proprietario conviene”, mi spiega un bracciante, che si spacca la schiena da 10 anni per mantenere sua moglie e i suoi due figli all'università: “Per la vendemmia in un dato campo, per esempio, sono necessarie 5mila ore di lavoro e dunque 50 braccianti (che il proprietario della terra dovrebbe pagare e per i quali dovrebbe versare i contributi). Assume 50 persone, ma di queste, in realtà, solo 30 lavorano ai campi, le altre 20 sono tutte ‘fantasma’, nel senso che le loro giornate vengono registrate ma non vanno davvero a lavorare in campagna. Queste 20 persone non deve pagarle e non deve versare per loro i contributi, perché sono loro a pagarli. Le altre 30 che invece (davvero) vanno in campagna devono fare il lavoro anche per i 20 fantasmi. Siccome spesso non è possibile, il datore di lavoro assume una decina di operai a nero, che deve pagare qualche euro in più rispetto agli altri, ma per i quali non deve versare i contributi. È tutto un sistema assurdo per ridurre al massimo i costi di produzione, e si poggia sul consenso della gente che non ha voglia di lavorare ma non vuole rinunciare ai benefici della disoccupazione e della pensione. Le persone che invece lavorano ‘veramente’ percepiscono spesso un salario inferiore rispetto a quello previsto dalla legge. Inoltre non viene rispettata nessuna misura di sicurezza”.
Molti hanno creato fittizie aziende agricole dichiarando numerosi falsi braccianti, ottenendo dall’Inps i previsti registri di lavorazione. Questi contadini fantasma possono così percepire un’indennità di disoccupazione agricola per un importo di molte decine di migliaia di euro. Nel febbraio del 2009, per esempio, la Tenenza della Guardia di Finanza di Manduria (provincia di Taranto) ha denunciato 53 persone per truffa aggravata ai danni dell’Inps perché, utilizzando falsi contratti di affitto di fondi rustici e la fittizia assunzione, avrebbero beneficiato indebitamente dei contributi assistenziali e previdenziali e omesso di versare i relativi contributi.
Lorenza e la sua battaglia solitaria
Negli anni ’90 la questione dei braccianti agricoli in Puglia ha occupato le prime pagine di numerosi quotidiani nazionali. Poi tutto è tornato a tacere.
Ad aver infiammato l’interesse mediatico fu la battaglia di Lorenza Conte, bracciante di Oria (provincia di Brindisi), diventata poi presidente del Consiglio Comunale.
Il 27 agosto del 1993, si verificò l'ennesimo incidente: tre donne di Oria persero la vita mentre un caporale le portava a lavoro (stipate in 18 su un pulmino di 9 posti, per sole 23mila lire al giorno). Erano le 3 e mezza del mattino. Il Sindaco di Oria, Sergio Ardito, delegò a Lorenza tutte le iniziative necessarie per contrastare il fenomeno del caporalato, in quanto donna, bracciante e consigliere comunale.
All’epoca i partiti politici, i sindacati e le istituzioni, al di là delle frasi di circostanza, non mossero un dito. Gli organi preposti sottovalutarono il problema. “Poi, il caporalato era un fenomeno illegale, ma godeva di un forte consenso di massa. Neppure la mafia ha mai suscitato un tale riscontro presso le popolazioni siciliane”, dichiarò Lorenza in un’intervista rilasciata nel 2007 alla studentessa Serena Marzo, impegnata in una tesi sul caporalato, figlia anche lei di braccianti sfruttati nelle campagne pugliesi.
Verso la fine degli anni ’90 Lorenza riuscì ad organizzare un gemellaggio con un’azienda agricola di Policoro (provincia di Matera), per organizzare un servizio di trasporto pubblico che portasse le donne in campagna e sottrarle così ai pulmini dei caporali (sgangherati, insicuri e sovraffollati).
Il comune stanziò 40 milioni come contributo per il trasporto. Le donne pagavano solo 2mila lire e 4 le metteva il comune. Finalmente, un centinaio di donne potevano andare a lavoro libere, su mezzi pubblici e sicuri. E senza caporali, il cui giro d’affari subì così un duro colpo. Questo servizio è stato erogato per un anno e mezzo, non senza guai. Appena tre giorni dopo l'inizio dell'esperimento, a Villa Castelli (provincia di Brindisi) incendiarono ben sette pullman. Alla fine anche l'azienda di Policoro fece marcia indietro e tornò ai caporali.
La sua è stata una battaglia difficile. Nel 1994, l’intensa attività di questa donna fece sì che venisse aperta una Commissione Parlamentare.
Ma, aldilà dei risultati sbandierati, i risultati effettivi sono stati scarsi. Ancora oggi, anche se pochi lo sanno, il problema esiste. L’aspetto più grave di questa faccenda è che il problema è entrato ‘nell’ordine delle cose’.
“Se per abusi si intendono condizioni di lavoro difficili e sottopagate, è difficile che le braccianti reagiscano, così come non è facile trovare sindacalisti che si preoccupino delle condizioni di lavoro delle donne nelle aziende”, mi spiega Lorenza, e continua: “La mia risulta infine una battaglia politica e culturale praticamente persa. Ormai nel mondo della politica e dello stesso sindacato il ‘sistema dei caporali’ è di fatto legalizzato e/o accettato come il male minore: vedi le varie forme di precariato e di lavoro in affitto legalizzate. Rispetto agli anni ’90, gli stessi caporali hanno capito che non bisogna ‘esagerare’. Gli incidenti gravi, come quelli che allora hanno mobilitato l'opinione pubblica, non si sono più verificati, perché i pullman (sia pure sgangherati ma comunque più sicuri) hanno preso il posto dei furgoni”.
Tutte le donne che ho incontrato in questo viaggio attraverso le campagne pugliesi raccontano le loro storie, ma non lotteranno. Tutte hanno una famiglia da mantenere, molte hanno figli alluniversità. Teresa tra due anni andrà in pensione. Ha lottato, ha pagato, ma ora è stanca: “Si tratta della guerra delle formiche contro i titani. Il mondo funziona così: chi ha i soldi ha ragione”, mi spiega, “andrò in pensione ma continuerò ad andare in campagna. Molte donne in pensione continuano a fare giornate, ovviamente a nero”.
“C’è crisi”, si fa spallucce e si continua a lavorare: “Devo farmi il corredo", "Devo sposarmi", "Mio marito è in cassa integrazione", "Abbiamo debiti", "Ho il mutuo", "Mia figlia ha bisogno di un intervento delicato e non ci fidiamo dell'ospedale pubblico", "Ho visto una borsa che mi piace, ma costa 300 euro". "Sopporto e vado avanti”.
Fonte Articolo21
1 commento:
molto intiresno, grazie
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