Il vescovo e il campione
Si torna da Taranto di volta in volta arrabbiati, speranzosi,
spaventati. Questa volta ne sono tornato desolato: forse colpa mia,
forse di Taranto. Come dopo una buriana, che lascia tronchi e lamiere e
rottami, e gente che non ce la fa a rimettersi a riparare, se ne sta
abbattuta e si guarda in cagnesco. Per non tornarmene del tutto a mani
vuote, ho parlato con due personalità
cittadine: uno è l’arcivescovo, Filippo Santoro, 66 anni, l’altro è
stato campione di arti marziali, Mario Amodio, 35 anni. L’arcivescovo è
pugliese, tornò due anni fa dal Brasile. Ne ha ogni tanto nostalgia,
delle sfide grandiose di povertà, crescita, giovinezza, magagne. In
dicembre ha incontrato papa Francesco, gli ha raccontato Taranto, i
bambini del reparto di ematologia al quartiere intitolato a Paolo VI, il
primo precetto all’Ilva, l’accoglienza che ricevette all’Altoforno 5,
il più grande, nel settembre del 2012, dopo i primi sequestri, e il
convegno che la curia, con un certo piglio politico, ha promosso a
novembre per mettere assieme ministri e istituzioni, associazioni e
persone locali. Il Papa sapeva della vicissitudine della città, ha detto
che desidera venire, “sarebbe bello che fosse quest’anno, lasciami fare
i conti con l’agenda”. L’agenda è fitta ma il desiderio è certo, dice.
“Uno stile latinoamericano farebbe bene anche qui. Del resto
l’esortazione apostolica Evangelii gaudium riprende molto della
Conferenza dei vescovi di America Latina del 2007 ad Aparecida, in
Brasile, dove l’arcivescovo Bergoglio aveva guidato la redazione finale
del testo sull’evangelizzazione. Lì avevamo trascorso un mese
indimenticabile, impegnati a un dialogo che senza spacciare soluzioni
pronte non lasciasse le persone sole”.
Il vescovado è in un bel
palazzo storico della città vecchia, adiacente alla cattedrale dedicata a
San Cataldo, benché nel Borgo Nuovo sia sorta negli anni ’60 una
Concattedrale, progettata da Giò Ponti, che forse preludeva
all’abbandono di Taranto Vecchia: l’Italsider a un capo, l’avventurosa
concattedrale dall’altro, e l’isola diroccata in mezzo, lasciata
all’attaccamento di poveri e topi. Santoro dice di volerle bene, di
stare dalla parte dei giovani che vogliono riaffezionare i cittadini a
Taranto Vecchia, “e non solo il Venerdì Santo, nella notte del sacro e
della vita”.
“In un liceo di Grottaglie dopo che ho parlato delle
favelas, dei poveri senza casa, un ragazzo in gamba mi domanda: ‘Ma il
cristianesimo non potrebbe essere una nostra invenzione per alleviare
l’angoscia della morte?’ Gli dico: se hai fame ti piace un panino, e la
capisci bene la differenza da un panino virtuale. Pensi che sarei
rimasto 28 anni in Brasile per un panino virtuale? Per me decise don
Giussani: ‘Andresti volentieri in Brasile?’ Dissi di sì, subito”. Alla
vigilia di Natale Santoro ha incontrato Bondi e Ronchi, commissari per
l’Ilva, e ha raccomandato loro gli impegni che ritiene “prioritari”:
“rispettare e, possibilmente, accelerare i tempi di attuazione del
Riesame dell'Aia, cominciando dalla copertura dei parchi minerali.
Procedere con le bonifiche senza tralasciare la messa in sicurezza della
falda, bloccata dai numerosi ricorsi al Tar, che ha dato ragione
all'azienda benché la Conferenza nazionale dei servizi abbia certificato
un inquinamento allarmante. Trasformare il processo produttivo tramite
l'adozione delle migliori tecnologie esistenti che consentirebbero di
eliminare le cokerie e l'agglomerato”, eccetera. “Il mio invito a tutti
è: Almeno parlatevi, capitevi. E la legge che c’è, almeno applicatela”.
Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari e i
carabinieri del Noe hanno compiuto un’ispezione senza preavviso
nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare
a ritmo ridotto) “tirati al massimo. Anomale accensioni delle torce
dell’acciaieria non per sicurezza o emergenza ma unicamente per la
combustione di gas di scarto... Emissioni diffuse in assenza di impianti
per l’abbattimento delle polveri e dei fumi derivanti dal taglio dei
materiali ferrosi o dalla gestione dei materiali incandescenti come
nella discarica Paiole”...
Mario Amodio lo incontro in un circolo
operaio, mi ci accompagna Fulvio Colucci, che ausculta storie umane e se
le lega al dito. Mario ha 35 anni, il 2007, l’anno di Aparecida, fu per
lui l’anno di Viareggio, dove vinse il campionato mondiale di
Kick-boxing. “Mio padre era disegnatore tecnico di tubazioni, andò in
America da trasfertista, ebbe un riconoscimento all’Empire State
Building. Siamo stati 8 anni a New York e uno in Virginia”.
Mario è
esile, ha lineamenti fini, ha lavorato all’Ilva da quando aveva 18 anni
con ditte di appalto metalmeccaniche, nel 2004 è diventato dipendente
diretto, prima aiutante tubista poi carpentiere, nell’officina generale.
Nel 2005 gli hanno diagnosticato la sclerosi multipla. Nel 2008 un
carcinoma alla lingua (“Prima ero capace di toccarmi il naso, con la
lingua”). Intervento al Gemelli, recidiva nel 2009. Nel 2011 un
carcinoma all’esofago, asportato con laringe e tiroide. “Fino al giugno
del 2011 ho continuato a lavorare. Ho cambiato corpo, perduto le
sensazioni di una volta. Ma volevo tornare a mangiare. Sono come un vaso
scoperchiato, che trabocca appena mi piego. Rischio di soffocare per
una doccia. Pesavo 55-56 kg, era la mia categoria; ora 40. Per la
sclerosi non faccio più controlli perché è diventata la cosa meno
importante. Le flebo antinfiammatorie mi buttano giù terribilmente. Nel
2012 mi hanno operato di nuovo per un linfonodo, poi una radioterapia
molto pesante. Ti brucia tutto. La mia risorsa vera è mia moglie,
Felicetta. A 18 anni mi sono innamorato, per un anno ho smesso la
palestra per andarle dietro dappertutto, avevo paura di perderla, a 23
ci siamo sposati. Ho una pensione di inabilità al lavoro, 850 euro. Sono
in causa con l’Inail, dopo l’operazione del 2011, per il riconoscimento
della causa di lavoro. Sono assicurato, perché devo fare causa e
perdere tanti anni?
Avevo cominciato col karate a 11 anni, per me
era il migliore, la precisione: col kickboxing puoi far male, c’è meno
controllo. Prima pensavo solo allo sport, era la mia vita. Uscivo
dall’Ilva con la polvere minerale in gola e sulla pelle, in palestra
sudavo nero, anche dopo la doccia, sembravo uno che non si lava. Si
ammalano in tanti, i più non lo dicono: occorre confidenza per dire cose
così, e si tiene caro il lavoro. N., per esempio, è stato operato a
Pisa alla tiroide, ora ha un nuovo problema: gli hanno detto subito che
c’entrava l’inquinamento industriale. Anche lui prima pensava che
dipendesse dal fisico della persona, o da una predisposizione… Un
esorcismo, si spera sempre –non che succeda a un altro, ma che non
succeda a sé”. I casi resi noti di tiroide alla carpenteria (280 operai)
sono 6, 3 di patologie nodulari, 2 di tumori papillari e 1 midollare.
Mario la voce non ce l’ha più. Mi dice queste cose, e molte altre,
attraverso un mediocre laringofono appoggiato alla gola. “Uno l’ho
buttato via per rabbia, poi mi sono sentito perso. L’ho ricaricato tutta
la notte. Ce n’è uno al titanio, costa 800 euro, l’Asl ne dà 250”.
L’arcivescovo e il campione: mi sembra che qualcosa li riguardi, loro
sapranno che cosa. Per giunta, a Mario era stato riconosciuto per 3
volte, ogni volta per due anni, l’accompagnamento. Ora, per uno scherzo
improvviso, gliel’hanno tolto. Alla visita, gli hanno anche chiesto:
“Lei lavora?”(Adriano Sofri - Repubblica)
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