mercoledì 29 gennaio 2014

Nelle sale e nell'aria

La prima documentarista italiana in viaggio tra gli operai Ilva | VD

«Una donna di 86 anni che continua a prendere di petto i problemi. Che non sa cosa sia la sconfitta, che continua ad indignarsi e a ribellarsi... Beh direi che questa è stata la grande lezione che ho avuto da Cecilia». E Cecilia è Cecilia Mangini, ovviamente. Come la racconta Mariangela Barbanente, classe ‘68, documentarista, che ha avuto il merito di averla «spinta» nuovamente alla regia dopo quasi quarant’anni. E come sa bene chi ha la fortuna di conoscerla di persona, Cecilia. La «signora del documentario», la decana italiana del cinema del reale, fotografa, sceneggiatrice, intellettuale.
Prima donna ad aver «imbracciato» la macchina da presa - in coppia con Lino Del Fra, compagno di una vita - per esercitare la riflessione critica sul mondo. Quello degli ultimi, dei sopraffatti. Da dove partì, sul finire dei Cinquanta, coinvolgendo Pasolini tra i ragazzi di vita (Ignoti alla città, La canta delle marane), proseguendo nella lezione dell'antropologo Ernesto De Martino (Stendalì) e indagando sulle trasformazioni sociali dell'Italia del boom, la nascita della classe operaia, soprattutto al Sud (Brindisi ‘65, Tommaso, Essere donne), fino ai temi dell'aborto, della sessualità e dell'amore tra gli operai dell'Italsider di Taranto (Comizi d'amore 80).
Complici le comuni origini pugliesi (Mola di Bari) le due registe si sono messe in cammino. È nato così In viaggio con Cecilia, presentato in anteprima al Festival dei popoli di Firenze e da domani in sala (si parte dall’Eden di Roma, ore 20.30) accompagnato dalle stesse autrici che, dopo il tour italiano, lo porteranno fino a Londra (il 18 marzo). Un ritorno alle «origini», ai luoghi dei film di Cecilia, per un racconto sulla post industrializzazione del Sud, visto attraverso lo sguardo di due diverse generazioni. A partire da Taranto. «È da lì che ho voluto iniziare - racconta Cecilia -. Da dove con la nascita dell'Italsider, nei Sessanta, abbiamo assistito alla grande affermazione della classe operaia. Trasformandosi in uno dei simboli dell'industrializzazione, l'inizio della rinascita del Sud. Così come allora sembrava». Sembrava, perché il presente ha portato altro: la chiusura dell’Ilva, i tumori, le morti e i movimenti di protesta. «La magistratura - commenta Mangini - ha sopperito al vuoto della politica. E meno male. Alla fine i vuoti vengono sempre a colmarsi».
Come quel «Comitato dei lavoratori liberi e pensanti» che ha incarnato la protesta della cittadinanza tutta, decisa a non accettare più il ricatto del lavoro in cambio della salute. «Fino a luglio 2012 - aggiunge Mariangela - andavamo incontro ad una città sfiduciata, invece con l’ordinanza della magistratura qualcosa è cambiato». E lo conferma anche Cecilia, nonostante i suoi scontri frontali con i ragazzi «muti» della movida brindisina. Quelli che davanti al suo incalzare rispondono di non essere informati perché «non abbiamo avuto voglia». «Quei ragazzi lì - prosegue la regista - sono l’Italia stessa con la sua impossibilità di avere la parola. Del resto solo a film finito mi sono accorta di due cose fondamentali. Dal governo Monti a quello Letta l’Ilva non è stata ancora bonificata e Clini e Passera sono tutti dei cloni. Mentre Renzi che si mette d’accordo con Berlusconi per togliere agli italiani la possibilità di eleggere i suoi rappresentanti è l’ultimo atto».
Eppure In viaggio con Cecilia ha comunque il suo finale di speranza. Facendo appello a Gramsci: «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un’erbaccia», si legge nel cartello finale. «Ci appelliamo ad Antonio Gramsci - conclude Cecilia - scommettendo che Taranto, con tutto quello che vi è accaduto e che sta ancora succedendo, non sia un’erbaccia ma un fiore. Quello della società civile rappresentata dagli operai che vogliono di nuovo essere una classe». Riprendersi spazi e dignità, insomma. Dopo che il «padrone» dell’Ilva, Riva - ricorda Cecilia - disse quasi infastidito: «Quanto chiasso per due operai morti di tumore..». Anche per questo Cecilia Mangini si è rimessa on the road, dopo tanti anni. «Perché la vita degli operai è zero?». Per questo è tornata «in fabbrica», non solo l’Ilva o il petrolchimico, ma la fabbrica dei movimenti, della società civile, ritrovando anche i suoi protagonisti di allora, ai quali nuovamente offre la parola. A loro come a tanti altri cittadini che, invece, la parola non se la fanno togliere così facilmente. «Un fiore non un’erbaccia», perché il finale le due registe l’hanno voluto «ottimista», «lasciando lo spettatore - conclude Cecilia - davanti ad un grande avvocato come Gramsci».(Unità)

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