La prima documentarista italiana in viaggio tra gli operai Ilva | VD
«Una donna di 86 anni che continua a prendere di petto i problemi. Che
non sa cosa sia la sconfitta, che continua ad indignarsi e a
ribellarsi... Beh direi che questa è stata la grande lezione che ho
avuto da Cecilia». E Cecilia è Cecilia Mangini, ovviamente. Come la
racconta Mariangela Barbanente, classe ‘68, documentarista, che ha avuto
il merito di averla «spinta» nuovamente alla regia dopo quasi
quarant’anni. E come sa bene chi ha la fortuna di conoscerla di persona,
Cecilia. La «signora del documentario», la decana italiana del cinema
del reale, fotografa, sceneggiatrice, intellettuale.
Prima donna ad aver «imbracciato» la macchina da presa - in coppia con
Lino Del Fra, compagno di una vita - per esercitare la riflessione
critica sul mondo. Quello degli ultimi, dei sopraffatti. Da dove partì,
sul finire dei Cinquanta, coinvolgendo Pasolini tra i ragazzi di vita (Ignoti alla città, La canta delle marane), proseguendo nella lezione dell'antropologo Ernesto De Martino (Stendalì) e indagando sulle trasformazioni sociali dell'Italia del boom, la nascita della classe operaia, soprattutto al Sud (Brindisi ‘65, Tommaso, Essere donne), fino ai temi dell'aborto, della sessualità e dell'amore tra gli operai dell'Italsider di Taranto (Comizi d'amore 80).
Complici le comuni origini pugliesi (Mola di Bari) le due registe si sono messe in cammino. È nato così In viaggio con Cecilia,
presentato in anteprima al Festival dei popoli di Firenze e da domani
in sala (si parte dall’Eden di Roma, ore 20.30) accompagnato dalle
stesse autrici che, dopo il tour italiano, lo porteranno fino a Londra
(il 18 marzo). Un ritorno alle «origini», ai luoghi dei film di Cecilia,
per un racconto sulla post industrializzazione del Sud, visto
attraverso lo sguardo di due diverse generazioni. A partire da Taranto.
«È da lì che ho voluto iniziare - racconta Cecilia -. Da dove con la
nascita dell'Italsider, nei Sessanta, abbiamo assistito alla grande
affermazione della classe operaia. Trasformandosi in uno dei simboli
dell'industrializzazione, l'inizio della rinascita del Sud. Così come
allora sembrava». Sembrava, perché il presente ha portato altro: la
chiusura dell’Ilva, i tumori, le morti e i movimenti di protesta. «La
magistratura - commenta Mangini - ha sopperito al vuoto della politica. E
meno male. Alla fine i vuoti vengono sempre a colmarsi».
Come quel «Comitato dei lavoratori liberi e pensanti» che ha incarnato
la protesta della cittadinanza tutta, decisa a non accettare più il
ricatto del lavoro in cambio della salute. «Fino a luglio 2012 -
aggiunge Mariangela - andavamo incontro ad una città sfiduciata, invece
con l’ordinanza della magistratura qualcosa è cambiato». E lo conferma
anche Cecilia, nonostante i suoi scontri frontali con i ragazzi «muti»
della movida brindisina. Quelli che davanti al suo incalzare rispondono
di non essere informati perché «non abbiamo avuto voglia». «Quei ragazzi
lì - prosegue la regista - sono l’Italia stessa con la sua
impossibilità di avere la parola. Del resto solo a film finito mi sono
accorta di due cose fondamentali. Dal governo Monti a quello Letta
l’Ilva non è stata ancora bonificata e Clini e Passera sono tutti dei
cloni. Mentre Renzi che si mette d’accordo con Berlusconi per togliere
agli italiani la possibilità di eleggere i suoi rappresentanti è
l’ultimo atto».
Eppure In viaggio con Cecilia ha comunque il suo finale di
speranza. Facendo appello a Gramsci: «Tutti i semi sono falliti
eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e
non un’erbaccia», si legge nel cartello finale. «Ci appelliamo ad
Antonio Gramsci - conclude Cecilia - scommettendo che Taranto, con tutto
quello che vi è accaduto e che sta ancora succedendo, non sia
un’erbaccia ma un fiore. Quello della società civile rappresentata dagli
operai che vogliono di nuovo essere una classe». Riprendersi spazi e
dignità, insomma. Dopo che il «padrone» dell’Ilva, Riva - ricorda
Cecilia - disse quasi infastidito: «Quanto chiasso per due operai morti
di tumore..». Anche per questo Cecilia Mangini si è rimessa on the road,
dopo tanti anni. «Perché la vita degli operai è zero?». Per questo è
tornata «in fabbrica», non solo l’Ilva o il petrolchimico, ma la
fabbrica dei movimenti, della società civile, ritrovando anche i suoi
protagonisti di allora, ai quali nuovamente offre la parola. A loro come
a tanti altri cittadini che, invece, la parola non se la fanno togliere
così facilmente. «Un fiore non un’erbaccia», perché il finale le due
registe l’hanno voluto «ottimista», «lasciando lo spettatore - conclude
Cecilia - davanti ad un grande avvocato come Gramsci».(Unità)
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