L’Ilva attende. Mentre la siderurgia italiana è al capolinea
Comincia oggi in commissione Ambiente della Camera la votazione degli
emendamenti al decreto legge 136 che riguarda l’Ilva di Taranto e la
Terra dei Fuochi in Campania. La votazione dovrebbe concludersi in
serata: il testo andrà in aula a Montecitorio domani. Almeno questo
stando al calendario dei lavori, visto che l’inizio della
discussione è stato fissato per le 18 di domani. Relatore in commissione
sul decreto legge, il parlamentare Pd Alessandro Bratti. Dopo il voto
della Camera, il provvedimento passerà al vaglio del Senato per la
definitiva conversione in legge.
Ovviamente, l’emendamento più atteso è quello in merito all’aumento
di capitale dell’Ilva Spa. Unica strada per ottenere le risorse utili ad
attuare il piano ambientale, che il decreto 136 del 3 dicembre scorso
aveva imposto fosse approvato tramite decreto del ministro dell’Ambiente
Andrea Orlando, entro e non oltre il prossimo 28 febbraio. Come oramai
candidamente ammesso anche da Bondi però, dopo che su queste colonne lo
abbiamo scritto per anni, le risorse finanziarie per risanare l’area a
caldo del più grande siderurgico d’Europa, non ci sono. Né ci sono mai
state.
Con l’aggiunta di un altro problema, non meno grave, sottolineato
dallo stesso Bondi: col trascorrere dei mesi infatti, gli impianti fermi
in attesa dei lavori previsti e quelli ancora in funzione che
dovranno però fermarsi anch’essi come previsto dall’AIA, richiedono
sempre più risorse per la loro manutenzione. Come riportato la scorsa
settimana infatti, i costi della manutenzione hanno avuto nel 2013 un
aggravio di 16 euro in più a tonnellata: ovvero quasi 100 milioni di
euro. Tra lavori per risanare gli impianti e quelli per
la manutenzione ordinaria e straordinaria, l’Ilva a tutt’oggi avrebbe
bisogno di minimo 3 miliardi di euro da impegnare subito. Il tutto,
è bene non dimenticarlo mai, a scapito dei lavoratori, sempre
più esposti ad incidenti imprevedibili nei reparti più a rischio.
Già nei mesi scorsi, era apparso chiaro che soltanto un aumento di
capitale avrebbe potuto “risolvere” la questione del risanamento. Bondi
ha atteso finché ha potuto, ma a fine dicembre ha dovuto scoprire le
carte. Tra l’altro, pare che finalmente ci si sia resi conto del fatto
che imporre l’aumento di capitale ai Riva, sia del tutto fuori luogo.
Non fosse altro perché l’Ilva è commissariata sino al 2016. Inoltre, non
si capisce secondo quale principio il gruppo lombardo oggi dovrebbe
impegnarsi in un’opera di risanamento colossale per una fabbrica che ha
gestito per quasi un ventennio senza bisogno di dover investire
sull’ammodernamento degli impianti.
Il testo originale dell’emendamento discusso nei
giorni scorsi, prevedeva infatti la possibilità per il commissario
straordinario di “obbligare le società ad aumentare il capitale sociale
con conferimenti esclusivamente in denaro (in pratica la famiglia Riva e
i soci di minoranza) entro un tempo limitato: 60-90 giorni al
massimo”. Qualora le risorse così reperite non dovessero bastare, o non
dovessero per nulla arrivare, “al commissario straordinario verranno
trasferite le somme sequestrate nell’ambito di procedimenti penali a
carico dell’impresa o dei suoi soci anche per reati diversi da quelli
ambientali o connessi all’attuazione dell’AIA. Somme che non saranno
recuperabili in caso di proscioglimento e che non sostituiranno quelle
che lo Stato o altre parti lese dovranno ricevere in caso di condanna”.
Quest’oggi invece, l’emendamento su cui si andrà a discutere
prevederà ben altro. Ovvero che il tempo entro cui risolvere il nodo
finanziario scadrà il prossimo 31 dicembre. Questo perché non solo
si è compreso che i Riva non s’impegneranno finanziariamente. Ma
soprattutto perché, come ripetiamo da tempo immemore, l’idea di
utilizzare i 2 miliardi di euro (confluiti in gran parte nel Fondo
Giustizia) sequestrati al gruppo dalla Procura di Milano nell’ambito
dell’inchiesta per frode fiscale, si è rivelata essere una
vera barzelletta. Qualora il decreto fosse stato convertito in legge con
questa dicitura infatti, i legali dei Riva avrebbero presentato il
ricorso già annunciato, vincendolo a mani basse: secondo quale principio
democratico infatti, si sottraggono 2 miliardi di euro e non si
restituiscono a fronte di un’assoluzione?
Tra l’altro, a Roma si sono “accorti” che un’operazione del genere,
ovvero ottenere quei 2 miliardi di euro, avrebbe comportato un’attesa
ben più lunga di 2-3 mesi. Dunque, entro il 2104 o avverrà l’aumento di
capitale o niente: visto che comunque è impensabile che il processo per
frode fiscale ai Riva, che tra l’altro deve ancora iniziare,
possa terminare entro l’anno (anche se nel decreto il passaggio sui
soldi sequestrati ci sarà). Stante così le cose, è dunque ipotizzabile
che anche il piano ambientale slitti a data da destinarsi. Idem per il
piano industriale, che le banche finanzieranno soltanto dopo aver avuto
la certezza assoluta che l’Ilva avrà i soldi necessari per attuare i
lavori previsti dall’AIA. Non è di certo un caso se nel corso dei mesi,
il piano industriale è stato posposto a quello ambientale.
Piombino: la storia è finita
Ciò detto, mentre l’Ilva attende invano una via di salvezza, l’intera
siderurgia italiana rischia di estinguersi entro l’anno. Prendiamo ad
esempio la situazione della Lucchini di Piombino. Antonio Gozzi,
amministratore delegato della Duferco, società con sede in Svizzera, nei
giorni scorsi ha confermato che c’è una cordata, che
comprende Duferco, Acciaierie Venete e Feralpi, interessata ad
alcuni asset del gruppo di Piombino.
“Siamo molto prudenti - ha dichiarato Gozzi -. E’ una situazione
difficile, perché c’è grande sovraccapacità in Europa”. Lucchini,
secondo produttore di acciaio in Italia dopo l’Ilva, è in
amministrazione straordinaria dal 2012. Piero Nardi, l’amministratore
nominato dal governo, ha fissato come scadenza il prossimo 20
gennaio per la presentazione di manifestazioni di interesse per la
totalità o parte degli asset. Lo stabilimento di Piombino, il principale
sito di produzione del gruppo Lucchini, l’anno scorso ha registrato una
drastica riduzione della produzione. E’ molto improbabile infatti, che
l’altoforno di Piombino continuerà a funzionare dopo la vendita. Nardi
ha detto che è disposto ad accettare offerte che non includano
l’altoforno, anche se l’acquirente deve impegnarsi a costruire un forno
elettrico, più facilmente gestibile e che può essere spento con relativa
facilità. “Per me la storia dell’altoforno di Piombino
è finita”, ha affermato senza troppi giri di parole Gozzi. “Se c’è un
acquirente, gli chiederemo se è intenzionato a mantenere l’altoforno in
attività”, chiosa invece dichiarato la Fiom. Per Nardi l’altoforno deve
essere chiuso perché non ha più materie prime. Attualmente Piombino
produce 2.300 tonnellate al giorno rispetto ad una piena capacità di
6.000 tonnellate.
Servola: dal 1 febbraio stop all’altoforno
Non se la passano meglio a Trieste. Separatamente dalla vicenda
Piombino infatti, Lucchini vuole vendere anche l’impianto di Servola,
dove centinaia di lavoratori sono a rischio licenziamento in caso di
mancata cessione dell’attività. Il gruppo Arvedi aveva cercato di
affittare l’impianto, ipotesi oramai saltata, ma resta in corsa per
l’acquisizione dell’asset triestino.
Anche in questo caso l’amministratore Nardi pare intenzionato a
chiedere la presentazione delle manifestazioni d’interesse per Trieste
nell’arco di un mese. Quasi certamente sarà indetta una gara di vendita
pubblica: il bando dovrebbe essere pronto entro il 31 marzo. Sia come
sia, giovedì scorso la Lucchini ha comunicato alle segreterie
territoriali di Fim, Fiom e Uilm, lo stop, a partire dal primo di
febbraio, dell’attività dell’altoforno, per lavori di “adeguamento” non
più rinviabili.
Come nel caso dell’Ilva però, a Trieste c’è anche un notevole
problema di inquinamento ambientale. La centralina di rilevamento
mobile più vicina all’impianto di Servola, ha registrato nel corso del
2013 (fino al 21 dicembre scorso), 89 sforamenti del valore delle PM10
(contro le 35 massime previste dalle normative), mentre in 50 casi
i dati non sono stati resi noti. Per quanto riguarda il
benzopirene, secondo il segretario dell’associazione “Nosmog onlus”,
Adriano Tasso “i servolani hanno respirato, negli ultimi 5 anni, la
stessa quantità di questa sostanza cancerogena, che secondo la normativa
europea di tutela della salute, sarebbe consentita in 25 anni”.
Problemi che vanno ad aggiungersi alla bonifica del suolo e dei
fondali marini antistanti allo stabilimento. E proprio la scorsa
settimana, stata firmata a Roma, al ministero dello Sviluppo
economico, “una dichiarazione d’intenti che indica le linee condivise e
l’iter amministrativo e cronologico individuato affinché alla Ferriera
di Servola siano garantite continuità produttiva e
sostenibilità ambientale”. Lo stabilimento di Trieste impiega circa 485
persone ed è in grado di produrre circa 500.000 tonnellate di ghisa. Non
sappiamo se ve ne siete accorti. Ma la siderurgia italiana sta morendo.
Ilva inclusa. “Il fascino della storia, come quello del mare, risiede
in ciò che cancella: l’onda che sopraggiunge fa sparire dalla sabbia la
traccia della precedente” (Gustave Flaubert, Rouen, 12 dicembre 1821 –
Croisset, 8 maggio 1880, “Attraverso i campi e lungo i greti”).
Gianmario Leone (TarantoOggi, 13.01.2014)
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