UNO STUDIO DEL CENTRO STUDI SIDERWEB HA FATTO UN CALCOLO INTERESSANTE
L’Italia senza Ilva? -0,05% del Pil
Quante volte negli ultimi anni, in mezzo alle tante polemiche e parole
spese sull’inquinamento della città di Taranto, ci siamo sentiti dire
che l’Ilva è un’azienda fondamentale per l’economia italiana, regionale,
provinciale e cittadina? Tante, tantissime. Ce lo hanno ripetuto i
politici, i sindacati, economisti e
studiosi del mercato, guru del mondo dell’acciaio, ex sindacalisti
diventati politici, ex lavoratori e dirigenti Ilva diventati
ambientalisti, studiosi diventati una specie di oracolo in materia, e
chi più ne ha più ne metta. Addirittura siamo arrivati all’assurdo dal
sentirci dire che Taranto è una città “storicamente a vocazione
industriale”. Che se non fosse per i due mari che la bagnano, ci sarebbe
da credergli ad occhi chiusi. Ci è stato anche detto a più riprese che
val bene foraggiare qualunque altro tipo di economia, ma solo e soltanto
se essa cresca accanto a quelle industriale e non, anatema degli
anatemi, che diventi una reale alternativa ad essa. Dunque, industria,
Pil, esportazioni, economia che gira, soldi, stipendi, lavoro, progetti
di vita, futuro. E miliardi, tanti miliardi per rendere l’Ilva il più
eco-compatibile possibile. Sì, perché abbiamo anche dovuto ascoltare per
anni la favola che un impianto grande due volte una città come Taranto,
si possa trasformare, o meglio, ambientalizzare. Dovevamo essere tra le
città più ricche e all’avanguardia del paese: vuoi mettere la fortuna
di avere sul territorio Ilva, Eni, Cementir, discariche e quant’altro?
Per non parlare di tutta l’economia dell’indotto? Centinaia di imprese,
di imprenditori pronti a far soldi ed arricchire la provincia regina del
Sud. Avremmo dovuto avere un polo scientifico tecnologico
all’avanguardia, un’Università indipendente e tra le migliori nel mondo.
Per non parlare delle strutture ospedaliere: vuoi anche soltanto per
reggere l’urto impressionante e devastante degli “effetti collaterali”
di tanto ben di Dio. Avremmo dovuto avere una città in cui la classe
meno abbiente sarebbe dovuta essere al massimo il ceto medio. Per non
parlare del turismo culturale e marittimo: siamo stati la capitale della
Magna Grecia, possediamo opere, strutture e suppellettili unici nel
mondo: altrove si venderebbero l’anima anche solo per avere un decimo
del nostro patrimonio archeologico. Per non parlare del nostro clima,
del nostro mare, dei nostri tramonti. Ma evidentemente più di qualcosa
non ha funzionato. Visto che a partire dagli anni ’80 la popolazione di
Taranto non fa altro che diminuire, anno dopo anno. Irrimediabilmente.
Una fuga non verso la vittoria, ma verso la salvezza. Di migliaia di
giovani, famiglie. Abbiamo perso amici, parenti, amori, sogni, speranze.
E poi ancora AIA, ricorsi continui al TAR, bonifiche, campionamenti in
continuo, camini che fumano, falde inquinate, scarichi a mare, zone
interdette, inchieste, reati, incidenti probatori, animali abbattuti a
migliaia, divieti di pascolo, malattie, tumori di ogni forma e grado e
per ogni organo, bambini, donne, uomini, anziani: non si è salvata
nessuna forma di vita. Inutile parlare di acqua, terra, aria.
Tutto
questo per ottenere cosa? Impossibile rispondere senza farsi venire un
principio di ictus. E così, in attesa che la Procura di Taranto si
pronunci dopo la maxi-perizia formulata di periti nominati dal Gip
Todisco, il centro studi di Siderweb, il portale della siderurgia
italiana, sulla base dei dati di bilancio 2010 estratti dallo studio
“Bilanci d’Acciaio”, ha provato a fare un calcolo: verificare l’impatto
della possibile chiusura (alla quale non crede nemmeno il più ottimista
degli idealisti) del polo siderurgico sul Pil di Italia, regione Puglia e
provincia di Taranto. Uno studio del 2008 della Banca d’Italia aveva
calcolato per la provincia di Taranto un valore aggiunto del 75% del
Pil: un dato al cospetto del quale si è sempre fatto più di un passo
indietro. Ma da allora sono passati quattro anni, e qualcosa deve essere
pur cambiato, complice anche la crisi economica mondiale che però, bene
o male, al momento ha soltanto sfiorato il mondo dell’acciaio. Bene,
questo nuovo studio ha calcolato che “il peso diretto dell’ILVA
sull’economia italiana, in termini di valore aggiunto (valore aggiunto
Ilva/Pil nazionale), è pari allo 0,05%. Il peso sul Pil della Puglia è
di circa l’1,24%, mentre quello sul Pil della provincia di Taranto è
pari a circa il 7,7%”. Il peso, ovviamente, aumenta se si “considerano
anche il valore aggiunto delle imprese dell’indotto e l’effetto
sull’economia, soprattutto locale, dovuta ai consumi delle famiglie dei
dipendenti (diretti e indiretti) dell’ILVA. Considerando anche queste
componenti si può stimare intorno allo 0,15% il peso sul Pil italiano,
inoltre se si fa riferimento all’intero comparto manifatturiero il pese
raggiunge il 47,5% in riferimento alla provincia pugliese e l’8,24% sul
confronto regionale. Infine in relazione all’indotto nel confronto
provinciale si tocca il 12,03% del totale mentre a livello regionale il
dato del valore aggiunto raggiunge il 2,4%”. Dati che parlano da soli.
Ma che devono assolutamente essere da monito a tutti: perché sono la
spia di un qualcosa che lentamente cambia. Il segnale che è il momento
giusto per sposare la causa delle famose alternative economiche. Dati
che possono essere usati anche nei tavoli di concertazione come quelli
che si apriranno per il riesame dell’AIA. Certo, sempre di numeri stiamo
parlando. Ma se è vero che la Procura di Taranto non chiuderà né ora né
in futuro l’Ilva, è altresì indubitabile che questo territorio abbia
nel suo dna le possibilità per puntare sulle sue risorse primarie: sulla
sua cultura, sulla sua storia, sul suo territorio. Se poi vogliamo
continuar star qui a credere alle favole… Gianmario Leone (Taranto Oggi)
Nessun commento:
Posta un commento