domenica 1 luglio 2012

Ilva. Qui prodest?

UNO STUDIO DEL CENTRO STUDI SIDERWEB HA FATTO UN CALCOLO INTERESSANTE
L’Italia senza Ilva? -0,05% del Pil

 
Quante volte negli ultimi anni, in mezzo alle tante polemiche e parole spese sull’inquinamento della città di Taranto, ci siamo sentiti dire che l’Ilva è un’azienda fondamentale per l’economia italiana, regionale, provinciale e cittadina? Tante, tantissime. Ce lo hanno ripetuto i politici, i sindacati, economisti e studiosi del mercato, guru del mondo dell’acciaio, ex sindacalisti diventati politici, ex lavoratori e dirigenti Ilva diventati ambientalisti, studiosi diventati una specie di oracolo in materia, e chi più ne ha più ne metta. Addirittura siamo arrivati all’assurdo dal sentirci dire che Taranto è una città “storicamente a vocazione industriale”. Che se non fosse per i due mari che la bagnano, ci sarebbe da credergli ad occhi chiusi. Ci è stato anche detto a più riprese che val bene foraggiare qualunque altro tipo di economia, ma solo e soltanto se essa cresca accanto a quelle industriale e non, anatema degli anatemi, che diventi una reale alternativa ad essa. Dunque, industria, Pil, esportazioni, economia che gira, soldi, stipendi, lavoro, progetti di vita, futuro. E miliardi, tanti miliardi per rendere l’Ilva il più eco-compatibile possibile. Sì, perché abbiamo anche dovuto ascoltare per anni la favola che un impianto grande due volte una città come Taranto, si possa trasformare, o meglio, ambientalizzare. Dovevamo essere tra le città più ricche e all’avanguardia del paese: vuoi mettere la fortuna di avere sul territorio Ilva, Eni, Cementir, discariche e quant’altro? Per non parlare di tutta l’economia dell’indotto? Centinaia di imprese, di imprenditori pronti a far soldi ed arricchire la provincia regina del Sud. Avremmo dovuto avere un polo scientifico tecnologico all’avanguardia, un’Università indipendente e tra le migliori nel mondo. Per non parlare delle strutture ospedaliere: vuoi anche soltanto per reggere l’urto impressionante e devastante degli “effetti collaterali” di tanto ben di Dio. Avremmo dovuto avere una città in cui la classe meno abbiente sarebbe dovuta essere al massimo il ceto medio. Per non parlare del turismo culturale e marittimo: siamo stati la capitale della Magna Grecia, possediamo opere, strutture e suppellettili unici nel mondo: altrove si venderebbero l’anima anche solo per avere un decimo del nostro patrimonio archeologico. Per non parlare del nostro clima, del nostro mare, dei nostri tramonti. Ma evidentemente più di qualcosa non ha funzionato. Visto che a partire dagli anni ’80 la popolazione di Taranto non fa altro che diminuire, anno dopo anno. Irrimediabilmente. Una fuga non verso la vittoria, ma verso la salvezza. Di migliaia di giovani, famiglie. Abbiamo perso amici, parenti, amori, sogni, speranze. E poi ancora AIA, ricorsi continui al TAR, bonifiche, campionamenti in continuo, camini che fumano, falde inquinate, scarichi a mare, zone interdette, inchieste, reati, incidenti probatori, animali abbattuti a migliaia, divieti di pascolo, malattie, tumori di ogni forma e grado e per ogni organo, bambini, donne, uomini, anziani: non si è salvata nessuna forma di vita. Inutile parlare di acqua, terra, aria.
Tutto questo per ottenere cosa? Impossibile rispondere senza farsi venire un principio di ictus. E così, in attesa che la Procura di Taranto si pronunci dopo la maxi-perizia formulata di periti nominati dal Gip Todisco, il centro studi di Siderweb, il portale della siderurgia italiana, sulla base dei dati di bilancio 2010 estratti dallo studio “Bilanci d’Acciaio”, ha provato a fare un calcolo: verificare l’impatto della possibile chiusura (alla quale non crede nemmeno il più ottimista degli idealisti) del polo siderurgico sul Pil di Italia, regione Puglia e provincia di Taranto. Uno studio del 2008 della Banca d’Italia aveva calcolato per la provincia di Taranto un valore aggiunto del 75% del Pil: un dato al cospetto del quale si è sempre fatto più di un passo indietro. Ma da allora sono passati quattro anni, e qualcosa deve essere pur cambiato, complice anche la crisi economica mondiale che però, bene o male, al momento ha soltanto sfiorato il mondo dell’acciaio. Bene, questo nuovo studio ha calcolato che “il peso diretto dell’ILVA sull’economia italiana, in termini di valore aggiunto (valore aggiunto Ilva/Pil nazionale), è pari allo 0,05%. Il peso sul Pil della Puglia è di circa l’1,24%, mentre quello sul Pil della provincia di Taranto è pari a circa il 7,7%”. Il peso, ovviamente, aumenta se si “considerano anche il valore aggiunto delle imprese dell’indotto e l’effetto sull’economia, soprattutto locale, dovuta ai consumi delle famiglie dei dipendenti (diretti e indiretti) dell’ILVA. Considerando anche queste componenti si può stimare intorno allo 0,15% il peso sul Pil italiano, inoltre se si fa riferimento all’intero comparto manifatturiero il pese raggiunge il 47,5% in riferimento alla provincia pugliese e l’8,24% sul confronto regionale. Infine in relazione all’indotto nel confronto provinciale si tocca il 12,03% del totale mentre a livello regionale il dato del valore aggiunto raggiunge il 2,4%”. Dati che parlano da soli. Ma che devono assolutamente essere da monito a tutti: perché sono la spia di un qualcosa che lentamente cambia. Il segnale che è il momento giusto per sposare la causa delle famose alternative economiche. Dati che possono essere usati anche nei tavoli di concertazione come quelli che si apriranno per il riesame dell’AIA. Certo, sempre di numeri stiamo parlando. Ma se è vero che la Procura di Taranto non chiuderà né ora né in futuro l’Ilva, è altresì indubitabile che questo territorio abbia nel suo dna le possibilità per puntare sulle sue risorse primarie: sulla sua cultura, sulla sua storia, sul suo territorio. Se poi vogliamo continuar star qui a credere alle favole…  Gianmario Leone (Taranto Oggi)

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