DA COPENHAGEN A TARANTO
DIBATTITO AL CLORO ROSSO!
GIOVEDI' 18 FEBBRAIO ORE 18DIBATTITO AL CLORO ROSSO!
INTERVENGONO: Marcello Caracciolo: forum nazionale Sinistra Ecologia e Libertà, Alessandro Marescotti: Peacelink
MODERA: Gino Martina: Radio Popolare Salento
VIDEOINTERVENTO DI Luca Tornatore: ricercatore dell'Univ. di Trieste arrestato e poi assolto durante il Cop15
Da Copenhagen a Taranto…il fallimento del COP15
Le aspettative di Copenhagen
Dal 12 al 16 dicembre 2009, i grandi della terra si sono dati appuntamento nella capitale danese per affrontare le problematiche ambientali del pianeta.
Difatti, tutti gli studi del settore convergono nell’affermare che , a causa della crescita esponenziale dell’inquinamento, le condizioni dell’ecosistema terrestre sono gravemente compromesse.
I cambiamenti climatici sono la più grande minaccia ambientale che l’umanità si trova ad affrontare. L’aumento della temperatura terrestre, oggi pari a +0,8°C, è stato causato per la maggior parte alle emissioni di gas serra dei Paesi industrializzati, che continuano ad aumentare. Se non si interviene ora, tale aumento potrebbe arrivare a +6°C entro il 2100.
La scienza è molto chiara su cosa occorre fare per evitare impatti climatici catastrofici: le emissioni di CO2 devono essere stabilizzate al più presto, nei prossimi sei anni, per poi essere portate il più possibile vicino allo ZERO entro il 2050.
Eppure, nonostante i fenomeni climatici si sono aggravati per anni sotto i nostri occhi , la politica non ha mai compiuto i passi necessari per arrivare a un accordo mondiale per salvare il Pianeta.
La Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici di Copenhagen rappresentava l’ultima possibilità di intervenire in tempo, perché, in caso di un mancato accordo sulla riduzione immediata delle emissioni, le possibilità di arginare gli effetti più catastrofici sarebbero compromessi.
Copenhagen rappresentava l’ultima chiamata, dove i capi di stato avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di rompere lo stallo che affligge i dibattiti sul clima, prendendo impegni concreti sul taglio delle emissioni e sul piano finanziario, cogliendo l’opportunità di stimolare la ripresa economica, favorendo scelte energetiche pulite e creando milioni di nuovi posti di lavoro verdi.
Il fallimento di Copenhagen
Di fronte all’emergenza di attuare interventi sinergici ed efficaci per fronteggiare l’allarme ambientale, ha prevalso il vantaggio economico competitivo degli stati industrializzati e di quelli in via di sviluppo, che rivendicano anch’essi il loro diritto ad inquinare.
L'atteggiamento dei negoziatori americani, la valanga di emendamenti e parentesi, di sicuro ha confermato i peggiori sospetti dei paesi in via di sviluppo, che accusano i paesi ricchi - Usa, Ue, aiutati dalla presidenta danese - di cambiare le carte in tavole: da due anni si tratta su come estendere il Protocollo di Kyoto, con il suo sistema di tagli obbligatori delle emissioni per i paesi ricchi e misure di transizione tecnologica per i paesi in via di sviluppo, e ora loro cambiano i termini del discorso. «Di fondo, gli Usa vorrebbero essere trattati come la Cina».La proposta americana è sostituire il Protocollo di Kyoto con la formula che chiamano «pledge and review», o «sistema
delle proposte verificabili», dove ogni grande paese propone il suo obiettivo volontario (quanto tagliare le emissioni) e poi si vedrà se l'ha rispettato.
: l'Unione europea offre di tagliare le emissioni del 20% rispetto al 1990 entro il 2020, il Giappone arriva al 25%, gli Usa dicono che taglieranno del 17% ma rispetto al livello del 2005 (ma molto dipende da una legge sul clima che avrà vita difficile al senato di Washington), la Cina taglierà del 40-45%...
E però, per impedire che l'atmosfera terrestre si surriscaldi oltre la soglia del disastro non basteranno gli impegni individuali volontari: serve un accordo globale, che indichi i limiti alle emissioni globali e distribuisca impegni obbligatori.
A Copenhaghen gli Stati chiamati a ristabilire programmi di sviluppo sostenibile hanno proteso verso una logica di tutela dei loro apparati produttivi ed il pietismo emotivo per la salvaguardia ambientale ha costituito solo una vera e propria beffa. La mancanza di un accordo globale ne è stata la dimostrazione lampante!
Perché Taranto a Copenhagen?
La questione ambientale tarantina, alimentata dalle contraddizioni di un sistema legislativo che pone l’uomo e suoi diritti ai margini delle selvagge politiche industriali, dovrebbe proiettarsi su uno sfondo nazionale ed internazionale.
L’Ilva di Taranto, uno dei più grandi impianti siderurgici d’Europa, produce il 93% della diossina nazionale, causando malattie polmonari e un numero sempre crescente di vittime tra i civili.
Il territorio ionico seppur possa investire in fonti energetiche alternative è ancora legato ad un modello economico ormai obsoleto.
Gli impianti industriali, (siderurgico, raffinerie e cementifici), sorti negli anni '60, se inizialmente rilanciarono l’economia e lo sviluppo dell’area tarantina, nei successivi decenni si rivelarono dei veri e propri boomerang, per la deturpazione dell’ambiente, i danni alla salute dei cittadini e la precarietà del lavoro offerto.
Il Summit internazionale di Copenhagen ha rappresentato un’ occasione per poter porre attenzione sulla problematica Tarantina, affinché le devastanti conseguenze di un sistema capitalistico fortemente in crisi, non fossero circoscritte all’interno di un’ottica territoriale, ma europea ed internazionale.
Quindi la motivazione di aver partecipato alle giornate di Copenhagen va rintracciata nella diffusa consapevolezza di proiettare la condizione Tarantina come emblema delle più gravi contraddizioni di un sistema produttivo tiranno e ostile.
Sulla base di tali presupposti il discorso ambientale a Taranto è solo parte del dibattito relativo alla creazione di alternative e proposte a misura d’uomo.
La profonda crisi delle logiche produttive e delle dinamiche capitaliste è da cogliere come un’opportunità per attuare processi di rinnovamento e trasformazione.
L’accento va posto sulla diffusione di una nuova cultura che rilanci strategie per far fronte alla tutela di bisogni primari: da un reddito sociale garantito che possa offrire protezione economica a tutte le fasce di cittadinanza, ad un modello di sviluppo in direzione della valorizzazione del territorio, dei suoi beni culturali, di efficienti spazi di istruzione e di ricerca ed di un’economia ad impatto zero.
Insomma la nostra aspirazione traspare dal desiderio di creare in Taranto, un fulcro autorganizzato per l'attuazione di un welfare locale, in contrapposizione alle dinamiche economiche, che fino ad ora hanno tracciato solchi profondi e dannosi nella nostra città.
Concernente alla questione prettamente ambientale, Taranto ha ricevuto un apparente beneficio dalla Legge regionale anti-diossina del 16 Dicembre 2008.
La disposizione legislativa in esame stabilisce i limiti precisi delle emissioni tossiche degli impianti industriali e, ignorando quelli altissimi consentiti dalle normative italiane, si allinea, finalmente, ai limiti della maggior parte dei paesi industrializzati.
Pur riconoscendo che la legge regionale costituisca un punto di inizio per una regolazione degli inquinanti, occorre un monitoraggio continuo, un controllo 24 h su 24 sulle emissioni di diossina. Tale presupposto fondamentale, nonostante sia sancito nell’articolo 3 della legge regionale, aimè non viene rispettato dall’ILVA.
Infatti il polo siderurgico, potrebbe operare una mera “diluizione dei fumi con aria pulita” durante i controlli, per poi ritornare ad inquinare quando i tecnici dell’ARPA tornano a casa la sera...
Un ulteriore passo per protendere verso una nuova Taranto è proprio l'effettiva riduzione degli elementi nocivi nel nostro cielo. Un conto è sancire una determita clausola, altro è applicarla concretamente. E noi come Cloro Rosso abbiamo la seria intenzione di creare una coscienza diffusa, affinchè da opinioni condivise sull'inquinamento dell'Ilva, si passi ad un vero e proprio movimento di lotta per la riappropriazione dei nostri diritti e del nostro futuro.
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