Per l'Ilva di Taranto il futuro è made in India?
Un’intera città appesa al filo. È così che Taranto vivrà i giorni che mancano da qui a venerdì 17 ottobre. Quel giorno, infatti, i giudici di Milano dovranno emettere un verdetto storico. Dovranno decidere se le ricchezze sequestrate alla famiglia Riva, proprietaria dell’Ilva, possono essere utilizzate per risanare la grande acciaieria tarantina, un gigante dell’industria siderurgica europea, messo in ginocchio dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie sull’inquinamento causato nella città dei due mari.Durante gli anni passati, il vecchio patron Emilio Riva - scomparso qualche mese fa - e i suoi familiari avevano infatti accumulato in Svizzera un tesoro miliardario, controllato attraverso una serie di società offshore. Quei soldi, però, sono finiti al centro di un’ulteriore serie di procedimenti giudiziari, costati ai Riva le accuse di truffa e evasione fiscale e il sequestro preventivo da parte della magistratura. Di qui la mossa di Piero Gnudi, il commissario scelto dal governo di Matteo Renzi per portare avanti il risanamento e tentare la vendita dell’Ilva: chiedere al tribunale lo scongelamento dei fondi, pari a 1,2 miliardi di euro, che dai conti personali dei Riva potrebbero tornare su quelli dell’azienda. Dove servirebbero a riparare il malfatto, ovvero a rimettere a norma gli impianti, in modo da rispettare il piano ambientale redatto perché l’acciaieria possa riprendere a funzionare a pieno regime.
La decisione che i giudici prenderanno ha però una portata decisiva anche per l’intera industria italiana, e non soltanto per il futuro dei 15 mila dipendenti dell’Ilva. Da qualche mese, infatti, nello stabilimento tarantino e negli impianti più piccoli, a Genova e Novi Ligure, è iniziato il pellegrinaggio dei possibili compratori. Dati e numeri produttivi, condizioni di efficienza e affidabilità di macchinari e altoforni, stato dell’arte degli interventi fatti per limitare l’impatto inquinante, rischi e controversie legali in cui l’azienda potrebbe rimanere impelagata, sono stati studiati dai manager di due diversi gruppi, il colosso franco-indiano Arcelor Mittal e un concorrente più piccolo, sempre indiano, che si chiama Jindal. Non è detto però che si vada per forza verso un’Ilva “made in India”: un terzo candidato, il cui nome non è stato ancora ufficializzato, ha chiesto quello che in gergo tecnico viene chiamato accesso alla “data room”, ovvero la possibilità di studiare le carte.
Anche se offerte vincolanti non ne sono ancora arrivate, è dunque un fatto che la lotta per la conquista dell’Ilva stia entrando nel vivo. Proprio ad accelerare la vendita, infatti, servono i soldi dei Riva. Le prescrizioni di adeguamento degli impianti alle normative ambientali prevedono spese per 1,8 miliardi, finora effettuate per soli 250 milioni. Da qualche mese, infatti, i lavori sono stati ritardati: in cassa non c’era più un euro ed è stata necessaria una legge ad hoc per permettere a Gnudi, che in passato è stato presidente dell’Enel e ministro nel governo Monti, di chiedere alle banche un prestito ponte, con cui pagare gli stipendi e tranquillizzare i fornitori. Ora la strategia del commissario governativo è chiara: se il tribunale di Milano concederà l’utilizzo dei soldi dei Riva, potrà trattare da posizioni un po’ più forti con gli acquirenti, che chiedono anche di essere sollevati dalle controversie legali con i Riva, il Comune di Taranto e le numerose altre parti coinvolte in una vicenda tanto spinosa. «Ma quando ripartiranno i cantieri per rendere l’Ilva pulita, su Taranto inizierà a rispuntare il sole», dice il deputato cittadino Michele Pelillo, che vede «un aspetto anche emotivo» nella prospettiva di fare i lavori con i soldi sequestrati ai Riva: «In città sarebbe molto gradito».
Al di là delle decisioni dei magistrati, molto difficili da pronosticare, sull’intero processo di vendita restano però numerose incognite. La prima riguarda le reali intenzioni di Arcelor Mittal, il candidato al momento «nello stadio più avanzato» delle trattative, come l’ha definito il ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. Il gruppo guidato da Lakshmi Mittal, un magnate indiano che vive a Londra, sta valutando un’offerta da presentare insieme al gruppo mantovano Marcegaglia. Fra i requisiti richiesti dal commissario Gnudi per vendere le attività produttive dell’Ilva, c’è quello di mantenere l’occupazione. Eppure, stando ai calcoli degli analisti, Mittal potrebbe massimizzare i benefici di un’acquisizone dell’Ilva solo se potesse operare in maniera diametralmente opposta, ovvero favorendo le sinergie con i propri impianti in Francia e in Spagna e consolidando la propria quota del mercato europeo dei laminati piani in acciaio, che superebbe il 40 per cento (da sola l’Ilva si ferma al 7 per cento, come si vede nel grafico in pagina). Paradossalmente, ha scritto qualche tempo fa la banca svizzera Ubs, il vero vantaggio per gli altri produttori - e fra questi Arcelor Mittal - sarebbe una chiusura degli altoforni di Taranto, un colpo che dimezzerebbe la sovraccapacità produttiva che affligge l’Europa dell’acciaio e farebbe schizzare verso l’alto i margini di profitto di tutti i concorrenti.
Qualche domanda nasce anche dal coinvolgimento di Marcegaglia nella cordata. Il gruppo guidato dai fratelli Antonio e Emma Marcegaglia, fresca presidente dell’Eni per nomina del governo Renzi, dopo anni di perdite è infatti alle prese con un pesante indebitamento e con una lunga riorganizzazione. E, scrivono gli analisti di Ubs, avrebbe poco interesse a entrare nelle attività di produzione di acciaio da minerale, gli altoforni di Taranto, quelli più importanti dal punto di vista della forza lavoro. Al contrario potrebbe trarre forti vantaggi se potesse rilevare alcune attività dell’Ilva, e in particolare i nastri in acciaio laminato. Ma fra i “pro” per Marcegaglia che gli analisti della banca vedono nella partecipazione a una cordata per l’Ilva, ce n’è uno che stride parecchio con gli obiettivi di mantenimento del numero di addetti che Gnudi intende perseguire: la chiusura delle attività che sono in più diretta concorrenza con quelle dell’azienda mantovana. Rispetto alla coppia Mittal-Marcegaglia, il secondo candidato acquirente indiano, Jindal, è partito parecchio tempo dopo. L’interesse è nato ufficialmente dopo un incontro fra Sajjan Jindal, uno dei fratelli che gestiscono il gruppo nato nello Stato dell’Haryana, nell’India nord-occidentale, e il premier Renzi. La riunione era stata fissata per discutere l’impegno di Jindal a rilevare le attività ex Lucchini a Piombino, dove l’imprenditore indiano sta mettendo a punto un’offerta che, sperano in Toscana, potrebbe rimettere in gioco anche la produzione di acciaio da minerale, data ormai per spacciata dopo la chiusura dell’unico altoforno dello stabilimento. Pochi giorni dopo, però, gli uomini di Jindal si sono recati prima a Genova e poi a Taranto, dove hanno creato tre gruppi di lavoro per studiare le varie fasi produttive dell’Ilva.
Anche qui, però, le indicazioni certe sono per ora poche. Inizialmente, infatti, Jindal si era presentato a Piombino solo per acquistare i cosiddetti laminatori, dove l’acciaio viene lavorato, e non l’altoforno. Poi, man mano che i contatti procedevano, è emersa la possibilità di realizzare in futuro quello che viene chiamato un impianto di preriduzione, un procedimento chimico che permette di produrre acciaio dal minerale, una tecnologia che limita fortemente l’impatto inquinante del carbone utilizzato negli altoforni (vedi intervista qui a fianco).
Dopo questo primo passo, Sajjan Jindal starebbe però accarezzando il sogno di lanciarsi in un vero e proprio salto triplo: nel suo mirino c’è l’Ilva, un’acciaieria di stazza ben più grande di quella toscana e dove il passaggio alla tecnologia del preridotto rappresentava il cardine del piano industriale presentato dall’ex commissario Enrico Bondi, che il governo ha sostituito con Gnudi prima dell’estate. Dettaglio non indifferente: Bondi, in passato risanatore di Parmalat, era stato mandato via dopo i pesanti attacchi che gli erano stati rivolti dalla lobby della siderurgia, e in particolare dal presidente della Federacciai, Antonio Gozzi, da sempre fautore del ritorno dei Riva.
Che Ilva sarà, dunque, è ancora presto per dirlo. I passaggi industriali, legali e finanziari da mettere a punto sono ancora molteplici. Perché nessuno dei compratori vuole farsi carico dei rischi legali che incombono sull’operazione. Si parla di una “newco”, una nuova società che si porterebbe dietro solo la parte buona, quella industrale, lasciando il fardello delle controversie in carico alla vecchia Ilva. Ma il primo mattone di ogni soluzione restano quei 1,2 miliardi sequestrati ai Riva, necessari per rimettere in regola gli impianti. Se non arriveranno, bisognerà rifare tutto da capo. (L. Piana, L'Espresso)
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