Dall'Ilva al mega gasdotto gli affari segreti di Emma
Da una parte l'Ilva di Taranto, l'acciaieria che sta cercando una nuova vita dopo le vicende giudiziarie che hanno coinvolto la proprietà (famiglia Riva). Dall'altra il Tap, Trans adriatic pipeline, il progetto di gasdotto che dovrebbe far arrivare sulle coste del Salento il gas del Mar Caspio. Sotto traccia si stanno muovendo colossi energetici esteri e gruppi italiani, tutti intenzionati a spingere un piano che, secondo quanto è in grado di ricostruire il Giornale, si basa su uno scambio: l'esecutivo guidato da Matteo Renzi dà il via libera al progetto di gasdotto, cercando di abbattere le resistenze locali, e in cambio i grossi gruppi internazionali che sono dietro al Tap contribuiscono al salvataggio dell'Ilva mettendo in palio ricche commesse per il gruppo.
Soluzione apparentemente lineare, che però presenta nodi intricati. Un esempio? Da mesi in pole position per rilanciare l'Ilva, in cordata con i franco-indiani di ArcelorMittal, c'è il gruppo Marcegaglia, uno dei più importanti nella trasformazione dell'acciaio. Per realizzare il Tap ci vorranno centinaia di chilometri di tubi fatti proprio di acciaio. Esattamente gli stessi prodotti che Ilva e Marcegaglia avrebbero un grande interesse a fornire. Dettaglio per niente secondario: Emma Marcegeglia, che con il fratello Antonio è a capo del gruppo di famiglia, è anche presidente dell'Eni, colosso petrolifero che teoricamente dovrebbe partecipare con i russi di Gazprom alla realizzazione di un gasdotto concorrente, il South Stream. E qui il terreno minaccia di farsi sdrucciolevole con l'ombra lunga del conflitto d'interessi.
Ma chi c'è dietro al Tap? Gli azionisti rilevanti sono gli azeri di Socar (20%), gli inglesi di British Petroleum (20%), i norvegesi di Statoil (20%) e i belgi di Fluxys (19%). Sul piatto la realizzazione di un gasdotto da 870 chilometri che partirà dal confine tra Turchia e Grecia e approderà sulle coste del Salento, in località San Foca. L'obiettivo è far arrivare ogni anno in Italia 10 miliardi di metri cubi (eventualmente raddoppiabili) di gas proveniente dall'Azerbaijan (Mar Caspio). Da un punto di vista burocratico manca l'autorizzazione unica del ministero dello Sviluppo, oggi guidato da Federica Guidi, già presidente dei giovani di Confindustria nell'era Marcegaglia. È un'opera da 45 miliardi di dollari, inutile dire che ci sono commesse da far venire l'acquolina in bocca.
È proprio qui che si annoda il filo che porta all'Ilva. Il gruppo, oggi in mano al commissario Piero Gnudi (ex presidente Enel), perde a rotta di collo e deve effettuare interventi di risanamento ambientale per circa 1,8 miliardi di euro. In più deve cercare di garantire il futuro di 12mila dipendenti. La cordata ArcelorMittal-Marcegaglia, data in vantaggio per il coinvolgimento nel gruppo siderurgico, non ha nessuna intenzione di sborsare cifre simili. Di più, la Marcegaglia spa non vuole scucire un euro. Lo si apprende inequivocabilmente dall'ultimo bilancio 2013 («Si stanno valutando le migliori forme di partecipazione a un eventuale riassetto societario dell'Ilva», che però «non dovranno impegnare finanziariamente il gruppo»), più chiaro di così si muore. I franco-indiani e il gruppo Marcegaglia (ma anche eventuali pretendenti alternativi, tra cui gli altri indiani di Jindal e a quanto pare gruppi cinesi) vogliono la polpa buona dell'Ilva. Ma cosa ne guadagna l'acciaieria?
Il Giornale ha parlato con fonti che stanno sviluppando il dossier. Nessuno se la sente di uscire allo scoperto, ma il disegno riferito è chiaro. Il Tap ha bisogno di 800 chilometri di tubi, di cui 105 per il passaggio sotto l'Adriatico e 8 per il percorso in Italia. L'Ilva già adesso ha diversi tubifici nello stabilimento di Taranto. Il gruppo Marcegaglia, da tempo partner dell'Ilva, tra le altre cose è specializzato nella fornitura di tubi. Il gioco sarebbe fatto. Solo nei prossimi mesi si vedrà fino a che punto potrà svilupparsi.
Di certo già adesso emerge qualche contorno anomalo. Come conciliare con la posizione dell'Eni il fatto che la sua presidente si appresterebbe a fare affari fornendo tubi al Tap, ovvero al gasdotto concorrente rispetto al South Stream sviluppato dal Cane a sei zampe? Tanto più che la posizione della Marcegaglia al vertice del colosso energetico era già stata collegata al rischio di conflitto d'interessi in quanto la società di famiglia è un gruppo energivoro. E chissà che l'operazione non possa preludere a futuri colpi di scena. Non è una novità che il progetto South Stream non stia attraversando un grande momento. E magari l'Eni potrebbe aver buttato un occhio sul gasdotto destinato ad approdare sulle coste del Salento. Ma anche in quel caso, se è destinato a diventare fornitore del Tap, il gruppo Marcegaglia non sarebbe in una posizione da manuale. (IlGiornale)
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