Lamberto Dini riscopre l’acciaio di Stato: «Nazionalizziamo se nessuno compra»
«L’Italia non può permettersi di fare chiudere l’Ilva. Deve trovare un compratore e, se non lo trova, deve nazionalizzare lo stabilimento siderurgico di Taranto. Non ci sono altre strade». Lamberto Dini fu il presidente del consiglio che nel 1995 completò la privatizzazione della siderurgia di Stato consegnando l’Ilva a Emilio Riva. Dopo 19 anni, con l’Ilva sotto inchiesta per disastro ambientale e in attesa di un nuovo padrone che ne eviti il fallimento, Dini disegna l’ipotesi di un percorso inverso: un ritorno all’acciaio di Stato. «L’Ilva di Taranto è il più grande e forse il più efficiente centro siderurgico europeo. Non si può permettere che chiuda» dice. Ex direttore generale della Banca d’Italia, più volte ministro e poi premier dal 1995 al 1996, Dini è stato senatore fino al 2013. Ormai fuori dalla politica, a 83 anni continua la sua attività di consulente finanziario ed è presidente dell’advisory board della società Time and Life. «Seguo con grande attenzione le questioni italiane, in particolare quelle economiche e finanziarie».Presidente, perché ipotizza la nazionalizzazione?«La produzione dell’acciaio deve essere salvaguardata. Serve qualcuno che rilevi l’Ilva. Il problema di oggi, a parte quelli connessi all’intervento della magistratura, è che non ci sono imprenditori o finanzieri italiani disposti a sborsare alcuni miliardi necessari per rilevare l’impianto».
Le trattative per la cessione ruotano in realtà intorno a qualche centinaia di milioni.«I miliardi servono per risanare. Se non si risana, non si produce. Chi ha quattro miliardi? Si pensa a Mittal perché non c’è nessuno in Italia disponibile a rilevare lo stabilimento. C’è anche l’ipotesi Arvedi, che evidentemente pensa a una cordata con soci esteri perché da solo non ce la farebbe. L’ideale sarebbe che l’Ilva rimanesse in mani italiane, ma andrebbe bene anche una mano estera se un piano industriale garantisce il mantenimento dell’occupazione o addirittura l’espansione della produzione. Questo è un impianto da risanare e mantenere in vita. Perderlo sarebbe un errore gravissimo. Quindi o si trova un acquirente o l’ultima ratio è valutare la nazionalizzazione».
Le pare una soluzione percorribile?«Non ci sono ostacoli europei. Subentrerebbe lo Stato come produttore d’acciaio, punto e basta. Ora c’è come commissario nominato dal governo il professor Piero Gnudi, persona validissima. Ha il compito di fare un piano industriale. Ma dove si prendono i soldi per finanziarlo? Il governo Renzi ha approvato un piano area di 1,8 miliardi ma non è precisato da dove debbano venire i fondi. A parte la decisione dei giudici di Milano di assegnare all’Ilva 1,2 miliardi di euro sequestrati ai Riva per un’altra inchiesta, serve un compratore disponibile a mettere i soldi necessari a risolvere tutti i problemi. Altrimenti c’è bisogno di un sostegno grande da parte delle autorità pubbliche affinché la magistratura sia soddisfatta e tolga il sequestro facendo tornare lo stabilimento alla normalità».
Se l’immagina davvero, presidente Dini, un ritorno alla fase pre 1995, cioè allo Stato produttore di acciaio?«Guardi, quella non è stata una cattiva gestione. Sull’Iri si può dire molto, ma aveva manager che gestivano bene le partecipazioni statali, almeno in gran parte. Non erano inefficienti. Lo Stato ora trovi le risorse. Siamo di fronte a una questione prioritaria».
Se il management Iri era così competente e l’Ilva funzionava, perché poi si decise di privatizzare un’azienda che era e resta strategica per l’economia nazionale?«Tutto questo è avvenuto nel periodo in cui lo Stato intendeva smettere di fare panettoni e gelati e privatizzare le imprese industriali».
I panettoni non erano strategici quanto l’acciaio.«Il programma era fare uscire lo Stato dall’industria. Anche dalle telecomunicazioni. Oggi è rimasta una partecipazione su Enel, Eni e Finmeccanica, strategica nella produzione di strumenti per la Difesa. Certo poteva andare meglio. Ma avere la sciato l’impianto di Taranto deteriorarsi con le conseguenze note è stato un crimine».
Crede che tutta la fase delle privatizzazioni del 1995 sia stata inevitabile?«Non fu inevitabile: fu una scelta. Se l’acciaio restava nelle mani dello Stato, nessuno poteva dire nulla. Ci sono le Ferrovie, poteva esserci un’industria siderurgica. Le regole della concorrenza europea impediscono gli aiuti, non la gestione. Lo Stato quindi oggi può nazionalizzare la siderurgia, ma deve essere competitivo».
Rifarebbe tutto ciò che fece tra 1994 e 1995?«Nell’insieme, sì. Non ci sono stati altri casi come il caso Ilva».
Fu sbagliato vendere a Riva?«In quel momento i Riva erano affidabili, mostravano di laavere le capacità di gestire anche quella grandissima realtà che è l’Ilva di Taranto. I danni ambientali, i danni alle persone, però, sono un fatto gravissimo. L’espulsione dei Riva da questa realtà è il minimo che si possa fare oggi. Questo è un fallimento grande: i Riva dovevano investire e non creare il problema ambientale che ha portato all’intervento della magistratura e al sequestro».
Si disse nei giorni della privatizzazione: il governo Dini ha privilegiato Riva, lo ha sostenuto per legami parentali o di amicizia...«Io non ho mai avuto alcun rapporto con i Riva, non li ho mai incontrati. Le decisioni prese risalgono al 1994, al governo Berlusconi di cui ero ministro del Tesoro. Nel 1995 ero io a Palazzo Chigi ma avevo un ministro dell’industria molto competente, il professor Alberto Clò. Le decisioni furono del governo, io le avallai. Nel 1995 si completava un percorso cominciato nel 1994. Ora posso parlare con dispiacere di quello che è successo».
Si è detto anche: la magistratura vuole fare la politica industriale. È d’accordo?«No. L’intervento della magistratura è dovuto ai danni ambientali e ai danni alle persone. Si parla di dieci miliardi».
Se ci fosse stata una politica industriale, tutto questo sarebbe successo?«Guardi, non è più il momento di una politica industriale. Solo gli esponenti della Cgil reclamano in piazza una politica industriale. Oggi siamo in un mercato aperto, concorrenziale. Non si possono dare aiuti o sussidi agli imprenditori, l’unico mezzo è la nazionalizzazione di un impianto: questo rientra nelle regole europee. Certo la soluzione di mercato è la migliore. Al momento nessuno in Italia è disposto a farsi avanti per rilevare lo stabilimento Ilva. Mi auguro che qualcuno compri. Oppure ci pensi lo Stato». (CdM)
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