martedì 22 luglio 2014

Un'altra medaglia al valore di famiglia: di padre in figlio!

Ilva: Fabio Riva condannato a 6 anni e 6 mesi


Tutti colpevoli di truffa ai danni dello stato. Nel processo che apre la stagione giudiziaria milanese a carico della famiglia Riva, proprietaria del gruppo siderurgico Ilva, è la procura a segnare il primo punto a favore. Il dispositivo, letto dal presidente Giulia Flores Tanga della terza sezione penale del Tribunale, è arrivato dopo dodici udienze condotte a ritmo serrato per i tempi usuali della giustizia italiana. Sono bastati, infatti, poco più di due mesi e mezzo per giungere a questa decisione, che prevede una condanna a 6 anni e 6 mesi di carcere per Fabio Riva, che si trova ancora a Londra e sui cui pende un mandato di estradizione, cinque anni per Alfredo Lo Monaco, cittadino italo-svizzero proprietario della finanziaria Eufin Trade e tre anni per Agostino Alberti, che al momento dei fatti contestati rivestiva il ruolo di direttore amministrativo della società Riva Fire, la holding del gruppo di proprietà della famiglia di industriali siderurgici. La condanna nei confronti di Fabio Riva è più pesante della richiesta dei pm Mauro Clerici e Stefano Civardi, che avevano proposto una pena di 5 anni e 4 mesi. Agostino Alberti è l'unico degli imputati a cui sono state concesse le attenuanti generiche.

Una penale anche per Riva Fire, ritenuta responsabile ex legge 231 del 2001 e condannata a pagare 1,5 milioni di euro, oltre al divieto di accedere a finanziamenti statali per 12 mesi e alla revoca di tutti quelli già concessi. L’elenco delle decisioni non finisce qui: il tribunale ha rinviato a un ulteriore giudizio – in sede civile - la richiesta del ministero dello Sviluppo economico di condannare la Riva Fire al pagamento di 120 milioni di danni. È stata però stabilita una cosiddetta provvisionale di 15 milioni, che Riva Fire dovrà pagare subito.

COME FUNZIONAVA LA TRUFFA
Che cosa hanno esattamente contestato i giudici agli imputati? Spiegare questa truffa non è semplice. In sostanza è stata loro addebitata la creazione di un meccanismo grazie al quale riuscivano ad ottenere fondi statali senza averne diritto, attraverso l’esportazione di tubi per svariati usi. I soggetti di questo meccanismo sono la capogruppo Ilva spa; la consociata svizzera Ilva Sa, con sede a Manno nel Canton Ticino, che acquistava le merci dalla ditta italiana per poi rivenderle ai clienti finali internazionali (una classica “trading company”); la Eufin Trade, una finanziaria anch’essa elvetica che di mestiere faceva il “forfaiting”, ovvero lo sconto pro soluto di cambiali e infine la Simest, la società pubblica che erogava il contributo in base alla cosiddetta legge Ossola. Ovvero una normativa nata per finanzia parte degli interessi passivi bancari sostenuti dalla imprese esportatrici in determinati settori (macchinari, impianti), quando concedono importanti dilazioni di pagamento ai loro compratori, concretamente fino a cinque anni. Esiste in tutti gli stati Ocse e si può dire che sia l’unica forma di “aiuto di stato” regolare. Ma i Riva creavano fittiziamente queste dilazioni grazie alla svizzera Ilva Sa, che acquistava la merce dall’Italia per poi rivenderla a clienti finali, i quali in realtà pagavano sempre in contanti.

La società elvetica emetteva dunque delle cambiali internazionali (chiamate “promissory note”) della durata di cinque anni sull’85 per cento del debito verso la Spa italiana (il restante 15 per cento doveva essere saldato subito per legge) e le portava subito allo sconto presso Eufin Trade, la quale si era già accordata con la stessa Ilva Sa per il suo riacquisto, in modo da chiudere l’operazione senza che realmente i soldi si muovessero. Ma attivando il contributo Simest per coprire gli interessi passivi nati da questo sconto di cambiale, che venivano veicolati in Svizzera da dove non rientravano più, uscendo dal faro del Fisco italiano. I contributi in realtà non erano dovuti perché con il riacquisto delle cambiali nessun credito era più attivo, ma questo a Simest non veniva comunicato e l’ente erogatore saldava invece il dovuto per i cinque anni. La stessa Eufin Trade, che in teoria avrebbe dovuto svolgere un compito molto rischioso e fino a non molto tempo fa vietato in Italia dalla Banca d'Italia, in realtà come si è visto non aveva di fatto nessun rischio perché rivendeva subito all’emittente le cambiali, finendo per essere solo un ingranaggio di questo disegno truffaldino.


LE INTERCETTAZIONI: “A BONDI I SOLDI PUZZANO?”
L’importanza di questo procedimento non si ferma, però, alla semplice scoperta della truffa, che tra il 2008 e il 2013 aveva permesso di incamerare fondi per circa 100 milioni di euro, l’85 per cento veicolati in Svizzera e divisi tra Ilva sa ed Eufin Trade. È stato utile per cercare fare luce sul complicato rapporto di forze che si è creato tra le procure che indagano sui reati dell’Ilva, la famiglia Riva, i commissari straordinari e il governo, che ha effetti paradossali, come si vedrà.

Il ruolo del commissario Enrico Bondi, ad esempio. Rimosso nel giugno scorso dopo una lunga pressione di Federacciai, guidata dall’industriale Antonio Gozzi (gruppo Duferco), cui il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi ha alla fine ceduto, nominando al suo posto Piero Gnudi, ex presidente dell'Enel e consigliere “a titolo gratuito” del ministro Guidi. Una scelta che, almeno in un primo momento, non dev'essere per nulla dispiaciuta ai Riva, che nei confronti di Bondi avevano aperto un fuoco di sbarramento che sul governo qualche effetto sembra averlo avuto. Perché tanta ostilità nei confronti di Bondi che, in fondo, era stato lo stesso Emilio Riva a chiamare al capezzale del gruppo Ilva poco prima del commissariamento, con lo scopo di tentare un salvataggio in extremis?
Forse c'entra proprio l'indagine giudiziaria milanese. Una volta insediatosi, infatti, era stato proprio il manager aretino a bloccare l’operatività della società svizzera Ilva Sa, nella convinzione che quello schema operativo fosse truffaldino. Una scelta che aveva consentito proprio al ministero dello Sviluppo Economico – parte civile in questo procedimento – di arrestare la truffa che lo vedeva come parte lesa. La mossa di Bondi, però, era stata accolta con qualche sconcerto fra i manager dell'Ilva più vicini ai Riva: A tal proposito i pm hanno evidenziato una gustosa intercettazione di uno di loro che, parlando con la Eufin Trade, diceva: «Sì, la nuova direzione, qui, gli puzzano i soldi. Facevamo i business finanziari, no, non va bene, non gli piacciono, qui al commissario e a tutta la sua banda... e allora non scontiamo più (le promissory note, ndr), basta». Continuava il manager: «È un business della miseria, gli puzzano i soldi al nuovo commissario? Stanno rivoluzionando più Milano che non Taranto. Era da sanare Taranto, sembra che devono sanare gli uffici di Milano, cacchio, che casino». Per poi concludere con una dichiarazione plateale: «Che strana banda è la banda del Commissario, non ha imparato l’Abc, pecunia non olet».


MA RENZI SALVA IL TESORO DEI RIVA
Già, pecunia che non olet. lo sanno bene i Riva che rivendicano per Ilva ancora un ruolo nonostante i guasti della loro gestione. Lo ha ben evidenziato Claudio Riva in una lunga intervista a “Il Sole 24 Ore”, dove diceva che la famiglia era pronta a investire ancora sulla società, anche se non da sola. Ma sono gli stessi Riva cui la procura di Milano contesta di aver succhiato indebitamente almeno 1,7 miliardi di euro, finiti in trust di Jersey e parzialmente sequestrati in Svizzera? Ecco che tornano le grandi contraddizioni di questa complicata vicenda, sulla quale giovedì 10 luglio è intervenuto il governo di Matteo Renzi, con un decreto che permetterà alle banche di continuare a finanziare la società, ora virtualmente al dissesto. E qui c'è un ulteriore giallo: nelle bozze preliminari del decreto compariva un passaggio che bloccava la possibilità del commissario di utilizzare per il risanamento ambientale i fondi sequestrati ai Riva, uno stop salutato con grande apprezzamento dal fronte degli industriali e della famiglia Riva. Nel testo finale quel passaggio è però sparito. Il governo Renzi ha infatti dato ai legali l'incarico di studiare se questa mossa, che Bondi non ha mai fatto mistero di voler mettere in pratica, è legittima oppure no.

Nel frattempo, però, il governo sembra voler andare oltre. Renzi e il ministro Guidi sembrano preferire un'altra ipotesi: vorrebbero che il piano industriale per il salvataggio dell'Ilva venisse predisposto dai nuovi azionisti, e il neo commissario Gnudi sta tentando di mettere insieme una cordata che comprenda il gruppo anglo-indiano Arcelor-Mittal e alcuni industriali italiani. Stando alle indiscrezioni di stampa, però, la possibile cordata avrebbe fatto sapere di ritenere esagerati i costi stimati per il risanamento ambientale, e di non aver intenzione di farsene carico in toto. Di qui il problema, anche politico, perché annunciare adesso che il risanamento si farà solo in parte è una mossa che può far esplodere le tensioni in città. E bloccare l'utilizzo dei fondi sequestrati ai Riva – previsto esplicitamente dal governo di Enrico Letta – sarebbe un'ulteriore decisione difficile da digerire. Eppure, e la procura di Milano è stata molto chiara su questo punto, il procedimento giunto oggi a sentenza con la condanna di Fabio Riva nasce proprio dalle inchieste tarantine, di cui costituisce una sorta di completamento logico, con la ricostruzione dei passaggi salienti tra l’impoverimento dell’Ilva, anche ai danni di ambiente e salute pubblica, e l’arricchimento della famiglia.

Per il governo, i fronti caldi non finiscono qui. Una prima questione da risolvere riguarda il futuro ruolo dei Riva, che in teoria hanno la possibilità di sottoscrivere l'aumento di capitale dell'Ilva (se mai si farà) e restare azionisti. La seconda è quella dei rapporti con le banche, che hanno messo i bastone fra le ruote a Bondi e che ora, con il decreto del governo Renzi, sono chiamate a anticipare nuova finanza. Nella propria relazione di fine mandato, l'ex commissario Bondi aveva ricostruito con precisione le responsabilità delle banche, spiegando come gli istituti non avessero voluto far fronte alle necessità dell'Ilva «prima di conoscere la consistenza di eventuali apporti a titolo di capitale»: ovvero prima conoscere chi sarebbero stati i nuovi azionisti. Come dire: i soldi dei Riva non si toccano. Era stato un debito molto marginale nei confronti del Banco Popolare guidato da Pier Francesco Saviotti a far finire fuori strada il tentativo di Bondi: «Da ultimo il gruppo Banco Popolare ha sospeso gli affidamenti concessi al gruppo Ilva e, con lettera in data 23 maggio 2014, ha chiesto il rientro dell'esposizione per circa 25 milioni di euro», continua la relazione dell'ex commissario.

Anche qui, però, le evidenze ricostruite dai pm di Milano rivelano come l'esposizione delle banche nei confronti dei Riva fosse enorme. Fra tutti spicca il ruolo di Intesa SanPaolo, che vanta crediti per un miliardo di euro su Ilva e di 300 milioni su Riva Fire, l'azienda di famiglia. Attraverso la partecipata Soditic era Intesa a svolgere il ruolo di “forfaiter” per Ilva. Ed era stata la stessa banca, incredibilmente verrebbe da dire per com’è andato questo processo, a presentare ai Riva il già citato Alfredo Lo Monaco e la sua Eufin Trade, risultati poi parti fondamentali della truffa. Intesa quel lavoro non lo vuol più fare: troppo rischioso dicono i suoi funzionari, ma si riserva per se
il ruolo di banca agente dove Simest deposita i soldi che poi prendono la via della Svizzera. Quanto era conscia la banca di questo meccanismo? La domanda resta sospesa. Lo stesso avvocato Nerio Diodà ,che difende Fabio Riva, si sbilancia sulla banca guidata oggi da Carlo Messina: «Va detto con serenità che Intesa aveva un ruolo assolutamente essenziale, prima con Soditic, che poi si scopre che costa troppo il loro sconto, e quindi è la stessa banca che indica Eufin Trade al gruppo Riva. E abbiamo le prove testimoniali che prima di questo momento non vi erano rapporti o relazioni con Eufin Trade da parte del gruppo Riva».

SI FA AVANTI ANCHE IL FISCO SVIZZERO
Se non bastasse tutto ciò per qualificare questo processo come un caotico e ancora incompleto puzzle di personaggi e situazioni, arriva anche la richiesta del Fisco elvetico di sbloccare parte delle somme sequestrate dai pm alla svizzera Ilva Sa per pagare le imposte, pari a 870 mila franchi su una società che i pm considerano fittizia ed esterovestita, quindi inesistente, tanto che c’è un’indagine in corso. In procura, dicono alcune indiscrezioni, c'è chi ritiene che il modo migliore per fronteggiare una situazione così complessa sia far ricorso alla legge Marzano, come si chiama il dispositivo che permette di dar corso alla riorganizzazione di un'azienda in stato d'insolvenza, utilizzato in passato per Parmalat, ad esempio. Ma fra coloro che hanno voluto silurare Bondi quest'ipotesi è vista come fumo negli occhi. Perché la famiglia Riva e le banche, a quel punto, resterebbero a bocca asciutta. (L'Espresso)

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