venerdì 8 novembre 2013

Giornalist-tour

Ilva, a Taranto il dolore non muore mai

Il dolore non muore mai. L’ho visto negli occhi di Piero Mottolese, un ex–operaio dell’Ilva che ha lavorato per anni con amore e passione per la sua fabbrica e che oggi ha tracce di piombo nelle urine e nel sangue, ha visto morire o ammalarsi parenti e amici, ha problemi fisici di tutti i tipi, vede male, sente male, ha dolori ovunque.
Piero è un uomo forte, di 60 anni, a modo suo bello. Lo incontriamo in un piazzale e dopo un minuto sta piangendo, con estrema dignità. Piange perché pensa a quello che gli è capitato, agli incidenti sul lavoro, al mobbing subìto.
Ci porta nei pressi degli stabilimenti e ci spiega come funziona la fabbrica, quali sono le sue esalazioni più pericolose, quali gli effetti sulla salute. Ci mostra la polvere rossa – a suo dire veleno – sparsa sulle strade, sulle case, ovunque. Ci mostra il quartiere Tamburi, cresciuto ad un passo dalla grande fabbrica, in cui abitanti bevono, mangiano e respirano prodotti contaminati dal polo industriale.
Lui si è comprato una casa, con i soldi guadagnati facendo l’operaio. Una casa vicino all‘Ilva. Pur non lavorandoci più, quindi, subisce la beffa tremenda di viverci a stretto contatto. Di notte non dorme, ascolta il grande mostro che respira e riconosce ogni suono, ogni lamento. Di giorno la fotografa, la riprende, ne è ossessionato.
Piero è in pensione, ma non è mai uscito veramente dalla fabbrica. Un giorno, qualche anno fa, ha raccolto un pezzo di formaggio di un amico pastore e lo ha fatto analizzare. Si è scoperto che era contaminato da diossina. Ha quindi firmato un esposto alla procura insieme agli attivisti di PeaceLink. La Asl ha ordinato dei controlli e ha confermato il problema diossina. Nel frattempo il pastore è morto per un tumore al cervello.
Nel giro di pochi anni viene vietata la pesca nei mari contaminati dalla diossina – fino a quel momento si vendevano un po’ ovunque le cozze di Taranto – e vengono abbattuti migliaia di capi di allevamento, viene vietato l’allevamento libero in aree incolte per un raggio di 20 km dalla grande fabbrica.
Centinaia – migliaia? – di persone perdono il posto di lavoro nella pesca e nell’allevamento. Il turismo è spazzato via. Qualunque alternativa verde è diventata impossibile senza bonifica, tutto il futuro viene bruciato dall‘incubo della contaminazione da diossina. I tarantini emigrano, e persino l’università in questa grande città rischia di chiudere. Accanto all’Ilva sorge una grande discarica, una centrale dell’Eni che raffina il petrolio, persino un cementificio e in più ci sono tre inceneritori. Il camino E–312 dell’Ilva – il più alto d’Europa con i suoi 210 metri – da solo emette diossina quanto trenta inceneritori. Si può fare tutto a Taranto, in nome di una presunta occupazione.
Mentre ci guida e ci precede avanti e indietro, di giorno e di notte, Piero grida. Grida il suo dolore, ci ripete ossessivamente i dati, piange più volte, ci mostra le analisi le quali documentano che il piombo lo sta avvelenando. A Taranto la diossina è giunta a picchi che hanno toccato il 92% della diossina industriale italiana e l’8,8% di quella industriale europea. Nel 2005 dall’Ilva fuoriusciva più diossina di quella delle industrie svedesi, inglesi, austriache e spagnole messe assieme, come attestato dal database Eper dell’Unione Europea. Per moderare questo scempio i cittadini hanno chiesto e ottenuto nel 2008 una legge regionale per porre un limite “europeo” alla diossina, ma la legge non è stata rispettata proprio nel punto più importante: l’applicazione di un sistema di controllo della diossina 24 ore su 24, il cosiddetto “campionamento continuo“. Di questo Piero parla con cognizione di causa. Lo ripete come un mantra, continuamente.
Hanno messo una rete attorno allo stabilimento siderurgico per fermare i veleni. Una beffa, ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Una stupida, patetica rete dovrebbe fermare le polveri e i fumi cancerogeni emessi da questo mostro di acciaio.
Intanto i ministri, i politici, gli esperti dibattono di lavoro e salute, di messa in sicurezza, di bonifiche future che non cominciano mai.
Ma sono anni che chi vuole sa. Già negli anni ’80 si sapeva. Sono anni che Piero grida il suo dolore e con lui chissà quante persone. C’è voluta la magistratura per portare l’attenzione sulla fabbrica dei veleni. Perché il buon senso non bastava e i politici avevano di meglio da fare. I giornalisti nazionali, poi, preferivano aprire i loro quotidiani e i loro Tg riportando battibecchi tra i politici, il caso Ruby, lo spread.
Muoiono le persone a Taranto, si ammalano, ma soprattutto smettono di sognare e trasformano la propria esistenza in unico ininterrotto incubo scandito dal respiro della grande fabbrica, che in ogni attimo, in ogni suo sbuffo di veleno nel cielo, rinnova un dolore, un dolore che non muore mai.
I bambini che sono nati cinque anni fa hanno respirato nel quartiere Tamburi tanto benzo(a)pirene cancerogeno che è come se avessero fumato oltre cinquemila sigarette, e adesso che frequenteranno la prima elementare portano dentro di sé i polmoni avvelenati di un fumatore incallito.
E’ il benzo(a)pirene che secondo l’Arpa Puglia sarebbe fuoriuscito dalle cokerie dell’Ilva per oltre il 90%. Piero è entrato in quegli impianti per fare manutenzione, e le conosce bene. Piero ha fatto manutenzione anche agli elettrofiltri dell’impianto di agglomerazione dell’Ilva e ha camminato sulle polveri intrise di diossina, leggere come borotalco, di colore rosa, che si alzavano nell’aria ad ogni suo passo. Quelle polveri il vento le ha portate ovunque, sulla città e nei campi.
Ora le famiglie del quartiere Tamburi hanno le case sporche delle polveri dell’Ilva, con i muri rossicci. Non si vendono. Chi le comprerebbe? E così intere famiglie rimangono intrappolate in un quartiere avvelenato, dove ai bambini è vietato giocare nelle aree verdi perché contaminate dalla diossina e dai metalli pesanti.
Tutti rischiano di essere contaminati in un unico sacrificio collettivo. Recentemente una studentessa è venuta qui a scrivere la sua tesi di “antropologia dei disastri”. La sua amica è invece andata in Giappone a scrivere una tesi simile: a Fukushima.
Alessandro Marescotti, Presidente di Peacelink, associazione in prima fila nel battersi per la salute e l’ambiente di Taranto, ha parole di speranza per il futuro: «Taranto deve rinascere. Possiamo seguire l’esempio di Friburgo o di Stoccolma o della Ruhr in cui quartieri più inquinati del nostro Tamburi sono stati bonificati e oggi sono zone verdi e perfettamente vivibili. Tamburi deve diventare un quartiere bellissimo, un simbolo di rinascita. Negli anni la sensibilità è aumentata notevolmente e oggi alle manifestazioni di Taranto partecipano migliaia di persone. L’Ilva da lavoro a 12.000 persone in una città di 200.000 abitanti, ma quanti posti di lavoro toglie? Non basta fermare la fabbrica, chiudere gli impianti a caldo; sono fondamentali le bonifiche e devono essere fatte a regola d’arte. Comunque ce la faremo, ne sono certo. Quando una lotta è giusta la vinci sempre».
Bisogna vincerla questa lotta. Bisogna farlo per Piero. Per i cento, mille, diecimila Piero che ora, mentre tu stai leggendo queste parole, saranno in un prato con una macchina fotografica, o arrampicati sul muro di un’autostrada con una telecamera ad osservare e documentare con odio – e in qualche perversa forma amore – il colore dei fumi della grande fabbrica che in passato avevano tanto amato e che oggi continua a respirare lenta e costante, sincronizzata ineluttabilmente con il battito di piombo del loro cuore. (Daniel Tarozzi - FQ)

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