venerdì 1 novembre 2013

E finalmente parlano i cittadini!

Dopo aver "sfogato" la tempesta mediatica dei nomi e cognomi noti, nella quiete di Tutti i Santi, i giornalisti hanno finalmente iniziato a leggere le carte processuali. Si sono accorti che le morti bianche non hanno proprio nulla di pulito, come abbiamo scritto ieri. E che niente è cambiato dentro l'Ilva.
Qualcuno è persino  andato in strada a sentire la gente (cosa rara da queste parti).
Ha trovato le famiglie dei Tamburi fiere del lavoro della Procura, mentre boccheggiano tra le esalazioni tossiche ancora fuori controllo.
E intanto politici, tecnici e amministratori intavolano inutili giri di briscola sulle loro vite.
Benvenuti a Taranto, cari giornalisti.
Buon lavoro, adesso!


“Precipitò da una gru mai revisionata”. Accusati di omicidio i dirigenti dell’Ilva

Dissero che era stata tutta colpa del vento. E che i gruisti raccontati da Adriano Sofri su Repubblica  -  quelli che avevano paura a salire di nuovo su quelle giraffe di ferro vecchio alte 60 metri, in riva al mare  -  altro non erano che dei calunniatori. Invece erano loro, i dirigenti dell'Ilva, che mentivano. Francesco Zaccaria, 29 anni, morto il 28 novembre scorso mentre lavorava con la sua gru di banchina al porto di Taranto, è stato ucciso non soltanto da quella tempesta di acqua e vento. Ma anche perché  -  dice oggi la procura  -  la macchina che guidava "era vecchia di trent'anni", "sprovvista di autorizzazioni" e sistemi di sicurezza. Non è stato un incidente insomma. Ma un omicidio. Un omicidio colposo.
A sostenerlo sono i magistrati nell'atto di accusa con il quale chiudono l'indagine su come sono andate le cose nello stabilimento Ilva di Taranto dal 1992 a oggi. Contestano l'omicidio colposo di Zaccaria ai più alti quadri del siderurgico (Adolfo Buffo, Antonio Colucci, e Giuseppe Dinoi). Secondo la procura, infatti, i gruisti lavoravano senza alcuna sicurezza: non esisteva "un documento del rischio, connesso anche alle avverse condizioni meteo ", nonostante fossero chiamati a lavorare, come Francesco, a 60 metri d'altezza in riva al mare. Poi c'era il problema delle gru. La macchina che ha fatto da tomba a Francesco era "in pessimo stato di conservazione e non era stata sottoposta, pur essendo in esercizio dal 1974, ad adeguate verifiche strutturali volte a valutarne l'efficienza secondo quanto previsto dalla norma".
"Ci fanno lavorare  -  dice oggi un collega di Zaccaria  -  su bestie vecchie di quasi 40 anni. Loro non farebbero nemmeno un giro su un'automobile del '74". A questo va ad aggiungersi che, scrive sempre la procura, nessuno dei lavoratori "aveva avuto formazione sia in ordine alle procedure da adottare

in caso di emergenza meteo sia in relazione all'utilizzo dei dispositivi di sicurezza presenti sulla postazione lavorativa ". Un particolare non di poco conto. Perché se Francesco avesse azionato il "fermo antiuragano" forse non sarebbe stato sbalzato in mare. Oltre ai dirigenti Ilva è anche indagato un ispettore tecnico dell'Arpa, Giovanni Raffaelli che incaricato di verificare l'integrità della gru avrebbe omesso di verificare una serie di mancanze. (Rep)

A mezzogiorno, una sintesi efficace di quali siano i sentimenti dei cittadini di Taranto all’indomani dell’ennesimo ciclone giudiziario che vede coinvolte ben 53 persone la esprime un gruppo di mamme all’uscita dalla scuola elementare «Grazia Deledda» al rione Tamburi, a poche centinaia di metri dai camini e dai parchi minerari dell’Ilva: «Vuole la verità? Non siamo affatto sorprese. No, questa nuova tempesta che si sta abbattendo su Taranto è tutt’altro che sorprendente. È vero. Stavolta, ad essere finiti sotto la lente d’ingrandimento della magistratura non ci sono soltanto i padroni dell’Ilva e i loro uomini. Stavolta, ci sono anche Nichi Vendola e il sindaco Stefàno, oltre a tante alte personalità del mondo politico. Ma qui ce lo aspettavamo tutti che prima o poi la Procura avrebbe finito per coinvolgere anche i vertici di Comune e Regione Puglia».
A parlare, come al solito, sono solo non più di due mamme. E sulle prime, a dire il vero, anche loro vorrebbero rimanere mute. Ma non per omertà. Semmai, per stanchezza. «Guardi - dice una di loro prima di dar sfogo a tutta la rabbia che ha in corpo - cosa vuole le dica. Le parole... Qui non ne possiamo più di sentire parole e tanto meno promesse che vengono puntualmente disattese. Noi qui ai Tamburi siamo le vittime designate di questa tragedia. E siamo tutti arrabbiati, delusi. Perché siamo consapevoli dei rischi che corriamo e che corrono i nostri figli». La signora si interrompe. E poi va giù come un treno: «Sia chiaro, qui non si è arreso nessuno. Anzi. Noi continueremo a lottare. Lo faremo soprattutto per i nostri figli. E anche insieme ai nostri figli che, per quanto ancora bimbi, sono già sin troppo coscienti di quel che sta accadendo. Continueremo a lottare anche perché siamo convinti che un’alternativa a questa tragedia siano davvero possibile».
«Confidiamo sull’Europa - interviene un’altra mamma - perché finalmente a Bruxelles e a Strasburgo si sono accorti di quel che accade a Taranto. Forse non accadrà domani, ma cominciamo a percepire che qualcosa si sta muovendo. Questo scempio non può durare in eterno. Il destino di questa città non può e non deve essere solo il siderurgico o la raffineria dell’Eni o la Cementir. Noi vogliamo credere che un futuro diverso, un futuro che abbia come presupposto la bonifica del territorio, sia possibile».
Sembra di sentire pari pari, quasi alla lettera, le parole dell’ecologista Alessandro Marescotti, il presidente di Peacelink, l’uomo che a Taranto forse più di ogni altro ha creduto e crede in una possibile e concreta alternativa al sistema industriale cresciuto intorno al gigante d’acciaio.
In queste ore, peraltro, per Marescotti, come per i suoi amici ambientalisti, sarebbe troppo facile farsi vanto e ricordare che la magistratura in fondo ancora una volta sta dando loro ragione. «Io - dice Marescotti alla Gazzetta - da cittadino mi limito ad osservare che Taranto deve essere grata a questi magistrati che contro tutto e tutti hanno saputo mantenere la schiena dritta, senza farsi condizionare da niente e da nessuno». (GdM)

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