Pessimo giocatore in nostro vigile del fuoco prestato alle acque.
Appena ha aperto bocca ha fatto capire che sta lì a perdere tempo. Ma non ci voleva molto a saperlo da prima.
MAR PICCOLO: BONIFICA, PRIMA SERVONO VERITà E GIUSTIZIA
Di Gianmario Leone TarantOggi
La cabina di regia istituita sulla scorta dell’Atto di intesa
sottoscritto il 26 luglio dello scorso anno riguardante la bonifica e
l’ambientalizzazione dell’area tarantina, riunitasi lo scorso 19
febbraio, ha stabilito tre priorità d’intervento: il rione Tamburi,
l’area industriale di Statte e la
bonifica del mar Piccolo. La prossima riunione si terrà il 6 marzo.
Bene. Premesso che qualcuno deve ancora spiegare a Taranto e ai
tarantini come sarà possibile bonificare le aree di Tamburi e Statte in
cui insistono e continueranno ad insistere fonti emissive inquinanti
come l’Ilva, è la situazione in cui versa il Mar Piccolo il vero
problema. Il giorno dopo la cabina di regia, il 20 febbraio, presso la
Confcommercio si è svolto un tavolo tecnico durante il quale il
commissario per la bonifiche Alfio Pini ha solennemente dichiarato che
“la bonifica del Mar Piccolo è una certezza”. “L’azione di bonifica - ha
spiegato il commissario - è ovviamente dipendente dall’accertamento
dell’origine delle fonti di inquinamento e dalla loro eliminazione.
Operazione che potrebbe richiedere tempi lunghi e che potrebbe
interferire con la tempistica di finanziamento dei progetti di
bonifica”. Dunque, a febbraio 2013, siamo ancora alla fase zero del
problema: capire chi e in che quantità ha inquinato il Mar Piccolo.
Operazione che da anni definiamo una ridicola caccia al tesoro, a causa
dell’ignavia e della vigliaccheria delle nostre istituzioni e che,
addirittura, se non completata entro il prossimo mese di dicembre,
potrebbe far perdere i 20 milioni stanziati dall’atto d’intesa del 26
luglio scorso. Ma la storia dell’inquinamento del Mar Piccolo è nota a
molti e su queste colonne (con il prezioso aiuto e supporto del sito
internet “inchiostroverde.it” gestito dalla collega Alessandra Congedo)
la denunciamo da anni. Come sempre nel silenzio più assoluto. Per questo
consigliamo al commissario Pini di informarsi, e bene, sulla storia
recente e non dell’inquinamento del Mar Piccolo, evitando di lasciarsi
irretire dalle belle parole e dai buoni propositi dei nostri politici.
Per questo riteniamo opportuno ripercorre un po’ di storia per riportare
le cose al loro posto. Perché le fonti inquinanti e i vari inquinatori
esistono eccome. E i nomi si conoscono. Da sempre. Magari i tempi
saranno come detto molto lunghi: ma è sempre meglio scoprire la verità e
poi agire di conseguenza. Altrimenti si corre il serio rischio di
utilizzare quei 20 milioni per nulla. Ancora una volta. Quello che
leggerete è dunque un percorso all’indietro nel passato sugli eventi
principali che su queste colonne abbiamo denunciato più volte negli
ultimi anni.
Pillole di storia
Tanto per iniziare, il
commissario Pini potrebbe avviare una piccola indagine per vedere se se
siano ancora attivi o meno gli 11 trasformatori elettrici dell’Ilva, i
38 trasformatori di Marinarsen e l’altro trasformatore dell’Enel. Nel
1990 fu effettuato un censimento di tutti i trasformatori elettrici
presenti nelle aziende industriali della Provincia di Taranto, richiesto
dall’allora assessore alla Sanità, Mario Guadagnalo, che inviò una
circolare in cui chiedeva di quantificare il PCB presente sul
territorio. Il risultato dell’allora Italsider fu impressionante: 1000
grandi trasformatori contenenti PCB per un totale di 1.800 tonnellate
d’Askarel (denominazione commerciale del prodotto) ma nel 1979 i
trasformatori erano di più e l’apirolio era quasi il doppio. SIMI
dichiarò kg 2.040, Belleli Sud kg 440, Sidermontaggi kg 1.550, Cementir
kg 16.950, Sip kg 1.560, Stab. Navali kg 3.853, Ospedale Civ. kg 9.198,
Rivestubi kg 12.198, Dalmine kg 13.700. Il tutto per un totale di 62
tonnellate da aggiungere ovviamente alle 1.800 dell’ILVA. Oramai molte
di queste aziende non operano più sul nostro territorio. All’epoca dei
fatti, l’Arsenale Militare negò il possesso d’Askarel. Proprio pochi
giorni dopo però, venne rinvenuta una vasca contenente PCB all’interno
dell’Arsenale. Nella vasca in oggetto, risultò che venivano stoccati
fanghi provenienti dal dragaggio del Mar Piccolo. La percentuale di PCB
contenuta era molto elevata, così come i valori, totalmente fuori scala,
dei metalli pesanti.
Il 18 settembre 2001, con Decreto
Ministeriale n. 468, viene messo nero su bianco il regolamento del
“Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale”. Per quanto
riguarda la città dei Due Mari, il decreto aveva stabilito la “Bonifica e
ripristino ambientale di aree industriali, di specchi marini (Mar
Piccolo) e salmastri (Salina grande)”. La superficie interessata dagli
interventi di bonifica e ripristino ambientale, veniva inoltre così
suddivisa: circa 22,0 km2 (aree private), 10,0 km2 (aree pubbliche),
22,0 km2 (Mar Piccolo), 51,1 km2 (Mar Grande), 9,8 km2 (Salina Grande).
Lo sviluppo costiero riguardava un totale di circa 17 km. Il perimetro
del territorio in questione, riguarda l'area dichiarata "Area ad elevato
rischio di crisi ambientale" nel lontano novembre 1990. La
dichiarazione venne reiterata nel luglio 1997. Con decreto del
Presidente della Repubblica del 23 aprile 1998, venne inoltre approvato
il “Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della
Provincia di Taranto”. Siamo quasi alla preistoria. Nella relazione del
decreto ministeriale, veniva spiegata in maniera inequivocabile il
perché ancora oggi, e chissà per quanti altri anni ancora, il Mar
Piccolo verserà in condizioni di assoluta criticità ambientale. “Di
particolare interesse sono le aree del mar Piccolo e le saline. I corsi
d’acqua superficiali a carattere esclusivamente torrentizio sono
recapito di reflui diversi scarsamente o per nulla depurati.
Particolarmente compromessa appare la situazione del Paternisco e del
canale di Aiedda, che recapita nel bacino ad elevata vulnerabilità del
Mar Piccolo con evidenti risvolti sulla qualità dei sedimenti. Il Mar
Piccolo risulta quindi gravemente compromesso dalla pessima qualità
degli affluenti in esso recapitanti, che determinano un grave stato
eutrofico, accentuato dalla particolare morfologia del bacino stesso”.
Per quanto invece atteneva le acque sotterranee, nel 2001 mancava ancora
la conoscenza dello stato della falda sottostante le aree industriali;
nonostante questo, già 12 anni fa venivano evidenziati “fenomeni di
inquinamento diffuso di origine agricola e concentrato dovuto a rilasci
di percolato da discariche incontrollate e da pozzi neri non
adeguatamente impermeabilizzati”.
Altro aiuto al buon Pini,
potrebbe arrivare dalla consultazione della mappa sulla “Distribuzione
dei PCB nei sedimenti dei Mari di Taranto”, fornita dal CNR nel corso
della riunione tecnica che si svolse a Taranto giovedì 11 agosto 2011
(si era nel pieno della prima emergenza mitili), dalla quale si evinceva
chiaramente come la presenza maggiore di PCB nel I seno del Mar Piccolo
si trovasse in corrispondenza dell’Arsenale Militare, degli ex cantieri
navali Tosi, di una parte di Buffoluto, e dalla parte dei Tamburi e del
Galeso.
Sempre nel 2011, durante la Giunta Regionale del 2
novembre, l’assessore alla Qualità dell’Ambiente Lorenzo Nicastro
relazionò sulla contaminazione da policlorobifenili (PCB) del I seno del
Mar Piccolo. E lo fece avvalendosi di una documentazione importante: da
un lato con una che l’ISPRA (datata 4 ottobre 2001) inviò al Ministero
dell’Ambiente nella quale veniva indicato il grave stato di
contaminazione del mar Piccolo; dall’altro la “Relazione tecnica sullo
stato di inquinamento da PCB nel SIN Taranto ed in aree limitrofe”,
effettuata dal Servizio Ciclo dei Rifiuti e Bonifica della Regione
Puglia. Una relazione molto dettagliata di 28 pagine, nella quale
venivamo messe in evidenza le fonti primarie di contaminazione (sorgenti
attive che incrementano il flusso massico di PCB nel Mar Piccolo) e le
fonti secondarie (sedimenti inquinati che generano la propagazione della
contaminazione anche attraverso la risospensione naturale o indotta
antropicamente). Una relazione nella quale vengono messi sul banco degli
imputati la Marina Militare e un’azienda ai più sconosciuta: la “San
Marco Metalmeccanica” (che opera nell’indotto Ilva). La relazione
denunciava come dal 1972 al 1995 venne riempita con materiale di risulta
e scarti provenienti da lavorazioni di tipo industriale, una cava
presente sul suolo occupato dalla San Marco che acquistò il terreno nel
2003. L’area in cui si colloca la cava in questione, possiede una
sovrapposizione di una serie sedimentaria clastica pleistocenica
(Calcareniti di Gravina) e del substrato mesozoico carbonatico (Calcare
di Altamura). In quella zona è presente solo la falda profonda che ha
sede nella successione del Calcare di Altamura. Gli elaborati del Piano
regionale di Tutela delle Acque mostrarono come lo scorrimento della
falda carsica avviene prevalentemente lungo la direttrice NO-SE, cioè
proprio verso il Mar Piccolo. Il che spiegherebbe il perché nella mappa
del CNR viene segnalato come area altamente inquinata da PCB, lo
specchio d’acqua prospiciente i Tamburi e il Galeso. E soprattutto
chiarirebbe il perché ARPA Puglia da tempo chiede che vengano svolte
delle indagini approfondite sulla questione, che potrebbe essere alla
base di un’ipotesi devastante: si teme infatti che i citri di acqua
dolce presenti nel I seno porterebbero dalla falda al mare
l’inquinamento da PCB.
Come altra fonte primaria accertata di
inquinamento da PCB del Mar Piccolo, la relazione indicò le aree a terra
gestite dalla Marina Militare (Arsenale), in cui la presenza di PCB è
stata accertata anche nei terreni e nella falda superficiale che veicola
la contaminazione. Parliamo di un sito esteso per circa 23.000 mq, in
cui sin dal 1890 é stata svolta attività da parte di numerose aziende di
supporto alla Marina. La caratterizzazione ha interessato una
superficie di circa 30.000 mq ed ha evidenziato una contaminazione da
metalli pesanti (antimonio, arsenico, mercurio, piombo, rame, selenio,
vanadio e zinco), da policlorobifenili e da idrocarburi leggeri e
pesanti. Nella porzione est del Comprensorio Arsenalizio della Marina
Militare é presente anche un’altra area, denominata “Zona Gittata”, che
ha una estensione di 1500 mq ed è stata adibita a vasca di deposito di
fanghi di dragaggio, rimossi e smaltiti nel 2009. Sempre nello stesso
anno avvenne la dismissione della vasca e furono eseguite delle indagini
ambientali preliminari che evidenziarono il superamento, nel suolo,
delle concentrazioni soglia di contaminazione per siti commerciali e
industriali per i parametri piombo, rame, zinco, arsenico e PCB. Le
quote del terreno risultate contaminate, erano a profondità maggiori di
10 cm.
C’è poi una fonte secondaria: i sedimenti del Mar Piccolo,
dove sono state individuate due distinte zone interessate dalla presenza
di PCB. Una in corrispondenza dell’Arsenale militare, nell’area di
caratterizzazione denominata “area 170 ha”, l’altra posta a nord del
primo seno, a circa 200 m ad ovest della penisola di Punta Penna. La
valutazione della qualità dei sedimenti dell’area “170 ha” è stata
formulata sulla base del confronto con i “valori di intervento per i
sedimenti di aree fortemente antropizzate nel sito di bonifica di
interesse nazionale di Taranto” proposti da ICRAM ed approvati in
conferenza dei servizi ministeriale del 29 dicembre 2004. I dati
evidenziarono uno stato di contaminazione diffusa da PCB, con
superamento del valore di intervento (190 μg/kg) per tutta l'area
indagata e per tutto lo spessore analizzato.
I milioni che mancano all’appello
Pensare di bonificare il Mar Piccolo con appena 20 milioni di euro, è
una barzelletta che non fa ridere nessuno. Ed alla quale soltanto i
nostri politici e la nostra classe dirigente può credere. Anche perché
negli anni le somme stanziate e sparite nel nulla sono nettamente
superiori. Ad esempio, per l’area “170 ha” fu approvato un progetto
definitivo da parte del MISE (Ministero Sviluppo Economico) con relativo
quadro economico di € 35.415.303,12. Dove sono finiti quei soldi? La
domanda è quanto mai lecita, visto che nel verbale del 15.09.2005 la
conferenza dei servizi ministeriale deliberò di richiedere al
Commissario Delegato della Regione Puglia “di procedere con la massima
celerità all'aggiudicazione delle attività di MISE dei sedimenti con
valori di concentrazioni di inquinanti superiori al 90% dei valori di
concentrazione limite accettabili”. Ma dopo alcune proteste delle
associazioni di mitilicoltura, preoccupate per gli effetti del dragaggio
sulla qualità dei mitili, fu proposto dalla Provincia di Taranto di
effettuare uno studio di dettaglio sull'area in modo da colmare alcune
lacune individuate in fase di caratterizzazione e verificare, con
un’analisi costi-benefici, il miglior sistema di intervento da attuare.
Ma lo studio si è perso chissà dove. In un’altra Conferenza dei Servizi
riunitasi a Roma in data 19.10.2006 presso il Ministero dell’Ambiente,
vennero invece stanziati 26 milioni di euro destinati all’area
tarantina. Il 10.11.2006 la Provincia di Taranto annunciava:
“Risanamento del Mar Piccolo: 3 milioni di euro per l’analisi del
rischio”. Le risorse stanziate facevano parte dei 10 milioni di euro
complessivi che la Regione Puglia mise a disposizione per l’intera
operazione. Sempre in quel comunicato si affermava che “oltre ai fondi
regionali, com’è noto, ci sono anche i 26 milioni di euro del Ministero
dell’Ambiente che, come si ricorderà, senza l’azione congiunta di
Regione Puglia e Provincia di Taranto rischiavano di finire a
Manfredonia...”. Qualche giorno dopo, il 19.10.2006, veniva
ufficializzata la notizia dei 26 milioni di euro stanziati dalla
Conferenza dei Servizi, “per il risanamento del Mar Piccolo”. Il
presidente della Provincia, Gianni Florido, così commentava: “Bella
notizia, merito anche dell’azione sinergica messa in campo con il
presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola e il presidente del
consiglio regionale, Luciano Mineo”. Eravamo nel 2006. Tra i fondi
stanziati dalla Regione Puglia e quelli della Conferenza dei Servizi, in
totale si parlava di 36 milioni di euro da destinare alla bonifica del
Mar Piccolo. Il MISE ne stanziò altri 35 l’anno prima. Sono passati
sette anni e di quei soldi non vi è più traccia. Nella relazione del
decreto ministeriale del 2011, venivano previsti i costi per la messa in
sicurezza e/o bonifica. “Le prime stime, effettuate sulla base dei dati
preliminari di estensione e di tipologia di inquinamento, indicano un
fabbisogno di larga massima pari a circa 100 miliardi”. Di lire. Oggi
sarebbero 500 milioni di euro.
Accertare tutte le fonti e prendere i colpevoli
Questa è Storia. Inconfutabile. Su cui nessuno può recitare la parte
dello struzzo. Proprio ieri, sul blog del “Comitato per Taranto” è stato
caricato un video dal titolo “Amarcord”, sulla produzione di vongole
nel Mar Piccolo. Ciò detto, è praticamente impossibile quantificare un
danno del genere. Quanti soldi ci vorrebbero per risarcire un’intera
comunità a cui è stata privata la possibilità di avere un mare pulito
dove poter coltivare e pescare i migliori mitili di tutto il
Mediterraneo? E di avere una falda libera da ogni tipo di inquinante?
Quando si inizierà ad indagare su chi ha interrato per 23 anni nella
cava sulla strada di Statte materiale altamente inquinante, che nel
corso degli anni è arrivato sino alla falda profonda per poi defluire in
maniera inesorabile nel Mar Piccolo? E quante altre domande si
potrebbero fare. Alla fine di tutto, resta in noi l’assoluta certezza
che i colpevoli siano decine e decine, ed abbiano occupato ed occupino
ancora oggi, ogni livello del nostro sistema di potere. E che,
soprattutto, ci abbiano avvelenato il Mar Piccolo. Forse per sempre.
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