lunedì 4 febbraio 2013

“Generazione Ilva”, quando ci prepariamo al “dopo”?

E’ sugli errori del passato e sulla precarietà del presente che si concentra il dibattito. Quando arriva il momento di confrontarsi sul “dopo Ilva”, però, le lingue si inceppano, i pensieri rallentano, gli sguardi si estraniano. E’ un fenomeno consueto a Taranto. E si materializza anche durante la presentazione del libro “Generazione Ilva” di Tonio Attino, tenuta nell’aula magna del Pacinotti alla presenza dell’autore, del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Fulvio Colucci e del vignettista Nico Pillinini.
Sullo sfondo affiora la consapevolezza di aver accumulato un ritardo abissale rispetto a esperienze virtuose come quella di Linz (città austriaca dove si produce acciaio con un minore impatto inquinante) e la certezza, ormai conclamata, di non aver mai avuto una classe politica all’altezza di sfide di tale portata. Un deficit che resta vergognosamente attuale. Le responsabilità sono innanzitutto della politica locale che ha preferito rifugiarsi in un rassicurante “tiriamo a campare”, senza resistere al fascino delle tentazioni e soprattutto delle collusioni, come emerge dall’inchiesta “Ambiente Svenduto”, condotta dalla magistratura ionica.
Ma le responsabilità vanno ricercate anche altrove: nella miopia delle organizzazioni sindacali, nell’ottusità di una classe imprenditoriale incapace di inventarsi ipotesi alternative di sviluppo economico e nelle distrazioni (più o meno pilotate) di certa stampa e tv. Su questo punto apriamo una parentesi: non hanno pesato solo le meschinità di quei giornalisti che si sono prestati a giochi sporchi. Grave è anche l’atteggiamento di quei colleghi che per anni si sono disinteressati della questione ambientale.
Va riconosciuta l’onestà intellettuale di Attino quando ammette le responsabilità della categoria: «Abbiamo la grandissima colpa di non aver visto ciò che gli ambientalisti vedevano. Loro hanno sopperito alle nostre carenze». Con altrettanta onestà, però, ci sembra giusto sottolineare il merito di quei pochi giornalisti che si sono battuti per anni (e in solitudine) per squarciare quel velo di ipocrisia e menzogne che avvolgeva l’Ilva. Un impegno spesso snobbato e a volte deriso da colleghi distratti, sempre in altre faccende affaccendati.
«Tutto muore, anche le fabbriche hanno un ciclo che si chiude”, dice Attino all’inizio del suo intervento. Potrebbe apparire un’affermazione banale, eppure anche una verità così lampante è stata colpevolmente ignorata per decenni. «Io tutta questa voglia di guardare avanti non riesco a vederla», aggiunge l’autore del libro. Ed è una sensazione avvertita da tanti. Perché se è vero che ci sono migliaia di cittadini pronti a scendere per strada per rivendicare il loro diritto alla salute e alla vita, c’è anche una parte rilevante della città che resta a guardare, ancora inchiodata alle sue paure.
E alla finestra c’è un potere politico ancorato al passato, schiavo di scelte filo-industriali che non è in grado di rinnegare. Non è un caso, quindi, che la parola speranza venga pronunciata quasi sottovoce e il sentimento di fiducia venga riposto soltanto nell’azione della magistratura. Ed è inevitabile, quindi, che ad un certo punto gli sguardi dei presenti si dirigano verso il procuratore della Repubblica Franco Sebastio, confinatosi nelle ultime file della sala, come si confà alle persone discrete. Sollecitato a dire la sua, il procuratore si sofferma sulle importanti decisioni a cui è chiamata la Corte Costituzionale nei prossimi mesi.
«Io voglio capire cosa si intende per contemperare il diritto alla vita con il diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica – dice Sebastio – devono darci una risposta definitiva. Significa che entro certi limiti dobbiamo accettare alcuni effetti collaterali indesiderati, come accade in guerra quando ci sono azioni militari che comportano la morte di civili? Se è così ce lo dicano in maniera chiara. Non ci siamo rivolti alla Corte Costituzionale per una questione di ripicca, ma proprio per avere una risposta  dall’unico organo che può darcela».
Come dice Sebastio, non è la magistratura che deve insegnare ad una comunità come rimediare agli errori compiuti e come riprendere tra le mani il suo destino. Non sono le toghe a fare le rivoluzioni. Quel “dopo” che spaventa gli animi, inceppando lingue e pensieri, è dietro l’angolo e rappresenta la nostra sfida più grande. Un salto verso l’ignoto che può salvarci la vita (o almeno quella delle generazioni future).
Alessandra Congedo per InchiostroVerde

N.B. Nella foto la vignetta con dedica regalata da Pillinini al dottor Sebastio. Di seguito l’intervento del procuratore.


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