martedì 19 febbraio 2013

Elezioni e politica, tra ritardi e ciminiere


Ho sviluppato un'antipatia feroce per zio Giuseppe, continuamente evocato al telefono dalla mia dirimpettaia tra Benevento e Bari (via Foggia). Non c'è campagna elettorale che tenga: gli audiomolestatori sono tra noi, e non parlano di politica. Chiamano cinque parenti, quattro colleghi, vecchi amici. Non si tratta di telefonate urgenti; solo un modo di passare il tempo e infastidire il prossimo. Trenitalia non dovrebbe distribuire ai passeggeri la rivista «La Freccia», bensì un bavaglio. Molti di noi saprebbero come usarlo.
Più educato e interessante si rivela Pablo, barboncino vendoliano, interista e barese. La sua accompagnatrice, Angela Paltera, sostiene che lo porterà alle urne: forse un modo di tirarsi su di morale. Il viaggio prosegue loquacemente - se allo zio Giusepe serve un biografo, siamo pronti - e Bari ci attende nel sole. Palme, stazione ocra, donne rapide e brune, poliziotti ubiqui che chiedono l'autorizzazione alle riprese.
Sul binario, ritto e solitario come un uomo di Magritte, aspetta Enzo Bartalotta. Si presenta come pubblicitario con sedi a Milano, Londra, Padova e Noci (Bari), esperto di «processi psicometrici junghiani»; nonché responsabile del Movimento 5 Stelle per il suo Comune. Spiega: «Beppe Grillo non va in televisione perché ha paura di vincere troppo». Vendola? «I pugliesi hanno capito di non capire. C'è tanto fumo dietro le parole del governatore. Non avrà successo».
Chiediamo ancora di Nichi, vagabonda gloria locale. La signora Paltera e Pablo, sul treno da Benevento, tifavano per lui. Anna Mele, impiegata, lo ama meno: «Prevedo voto di protesta. C'è molto scontento in giro, e Vendola non lo intercetta». Scontento in genere o sull'operato del governatore? «L'uno e l'altro». Più generosa Annabella De Robertis, classe 1991, studentessa di lettere classiche. «Per i giovani pugliesi, Vendola qualcosa ha fatto. Ha reso possibili piccoli sogni». Tant'è vero che lei intende restare a Bari: «Non è male come si dice». Arrivano altri e il marciapiede davanti alla stazione si trasforma in un talk show. Il consigliere comunale Massimo Maiorano si avvicina e canta le lodi del trasporto su ferro.
Il nostro prossimo treno, parte dal «binario tronco Taranto», situato tra il binario 3 e binario 4. Per saperlo, però, bisogna essere Harry Potter. L'indicazione è vaga, le valigie ingombranti: arriviamo trafelati mentre il capotreno si sbraccia e grida «Su! Su!». A lui non chiederemo né di Vendola né di Taranto: manca il fiato.
Dopo Acquaviva delle Fonti e Gioia del Colle - la toponomastica pugliese è poetica - il regionale 3163 scende verso il Mar Ionio tra ulivi, viti, cieli profondi e tetti piatti. La nostra presenza non passa inosservata: due ragazzine s'allarmano, il capotreno saluta, un'insegnante osserva. Il treno è corto, pulito, colorato, efficiente; al centro dei vagoni dispone di vezzose postazioni a bovindo. È stato acquistato coi soldi dell'Unione Europea, ci informa un ragazzo.
L'immensa acciaieria Ilva di Taranto, cupa regina delle cronache giudiziarie e sanitarie, appare di colpo sulla sinistra. Chiudere o non chiudere? Un giovane avvocato spiega: «Nessun partito ha preso una posizione precisa. È come scegliere tra salute e lavoro, non se la sentono». Una forestiera che lavora in città: «Non c'è più artigianato, l'agricoltura è in ginocchio. La presenza dell'Ilva è un danno. Ma la chiusura sarebbe un danno maggiore». Una voce dal fondo del vagone: «Ma che campagna elettorale. Da noi si parla solo di Sara Scazzi e dell'Ilva! Cronaca nera».
Ci ascolta Rosa Salemme: «È da ventisette anni che respiro l'aria di Taranto. Noi consideriamo l'Ilva come inevitabile: non è così, dobbiamo cominciare a immaginare un'alternativa. Andate al quartiere Tamburi, sta proprio sotto le ciminiere: è arancione». Tamburi a Taranto arrivando da Trieste e andando a Trapani: le T-junctions cominciano a diventare tante.

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