Gli avvoltoi europei si aggirano sopra l’Ilva – Ecco cosa dice una relazione della banca svizzera Ubs
La vicenda dell’Ilva di Taranto continua ad essere seguita con grande attenzione in Europa. Dopo l’analisi prodotta lo scorso 2 giugno dalla “JP Morgan Chase & Co.”, società finanziaria con sede a New York leader nei servizi finanziari globali, ora è il turno della banca svizzera UBS. Che attraverso una relazione redatta dall’analista Carsten Riek, esprime un pensiero molto chiaro sul futuro del siderurgico tarantino: se l’Ilva chiude o si ridimensiona, automaticamente aumenterà la produttività e soprattutto la redditività di diversi siti siderurgici europei. Il che potrebbe anche servire a risolvere, o quanto meno a porre un freno, alla sovraccapacità produttiva dell’industria siderurgica europea, come tra l’altro sostenuto anche dalla JP Morgan.
A sostegno di questa tesi, secondo l’analisi dell’UBS una
chiusura parziale dell’Ilva diminuirebbe del 20-30% l’eccesso di
capacità produttiva dell’industria siderurgica europea: una chiusura
totale invece, inciderebbe del 58% secondo la banca svizzera. Che
sostiene come se la chiusura, parziale o totale, sarebbe “una cattiva
notizia per gli 11.000 dipendenti dell’Ilva”, ma non certamente “per i
suoi concorrenti”. I tassi di utilizzo della capacità produttiva dei
loro stabilimenti infatti, salirebbero del 74% nel caso di una chiusura
parziale, sufficiente a giustificare un aumento del prezzo della
tonnellata di acciaio dai 3 ad un massimo di 18 di euro (in caso di
chiusura totale dell’Ilva). La chiusura completa potrebbe invece portare
i tassi di utilizzo all’80% entro il 2018.
Inoltre, secondo l’analisi della banca svizzera
l’acquirente, o gli acquirenti, che andranno a comporre la cordata che
gestirà l’Ilva di Taranto, dovranno ottenere il sostegno, o forse
sarebbe meglio dire il lasciapassare, della Commissione europea. Nel
caso di ArcelorMittal infatti, come abbiamo già avuto modo di sostenere
di recente, le autorità garanti della concorrenza interverrebbero per
evitare che nel settore della produzione di acciaio inox il gigante
asiatico non superi il 40% delle quote di produzione nel mercato europeo
(in caso contrario AncelorMittal sarebbe infatti costretta a fermare i
suoi impianti presenti in Francia, Belgio, Germania e Spagna).
Del resto, nella sua analisi la UBS evidenzia che se da un
lato c’è interesse a proteggere la ristrutturazione del sito italiano,
dall’altro la Commissione europea deve anche proteggere il mercato
europeo dalle importazioni di acciaio provenienti dall’Asia. Inoltre,
secondo i calcoli della banca svizzera, un’eventuale acquisizione
dell’Ilva potrebbe pesare non poco sul conto di ArcelorMittal.
Ed in questo contesto, l’UBS ritiene che i principali
beneficiari della ristrutturazione di Taranto, che ricordiamo
comporterebbe comunque un ridimensionamento dell’attività produttiva
dell’Ilva come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte su queste
colonne, sarebbero il gruppo tedesco Salzgitter, i filandesi della
Rautaruukki SSAB e gli austriaci della Voestalpine. Una contrazione
dell’offerta infatti, per l’UBS farebbe migliorare i margini operativi
di queste tre aziende.
Del resto, parliamo di tre società che da diverso tempo
hanno intrapreso strade ben precise. Ad esempio, il gruppo siderurgico
tedesco Salzgitter ha indicato di prevedere un taglio di almeno 1.500
posti di lavoro entro la fine del 2015. Il gruppo ha annunciato il varo
di un piano di ristrutturazione denominato ‘Salzgitter Ag 2015’, proprio
in risposta alle difficili condizioni del mercato dell’acciaio e della
situazione concorrenziale. Salzgitter non ha però ancora specificato nel
dettaglio dove saranno soppressi i posti di lavoro, ed ha chiuso il
2013 con un passivo di 400 milioni di euro. I filandesi della
Rautaruukki SSAB sono invece da tempo presenti in Australia e stanno
rafforzando la loro presenza in America, dove vogliono ampliare lo
stabilimento di Montpelier nello stato dello Iowa.
Del resto è proprio grazie ai prezzi più alti e ai maggiori
volumi prodotti negli Stati Uniti se il gruppo filandese ha chiuso il
primo trimestre 2014 con un attivo di 26 milioni di corone svedesi.
Discorso simile va fatto per gli austriaci della Voestalpine. Che lo
scorso 14 maggio hanno inaugurato un nuovo stabilimento a Profilform
(Cina), per un investimento pari a 20 milioni di euro. Il gruppo
austriaco vanta già 2.200 dipendenti nel paese asiatico, dalle cui
attività genera un fatturato annuo di 220 milioni di euro. Nel mese di
aprile invece, la Voestalpine ha ufficializzato un investimento di 550
milioni di euro, il più grande nella storia del gruppo austriaco
all’estero, per la costruzione di un impianto di riduzione diretta
(processo che riguarda la trasformazione del minerale in spugna di
ferro) in Texas (USA). L’esercizio sociale 2013/14 (1 aprile 2013 – 31
marzo 2014), nonostante la crisi del settore, ha registrato un fatturato
maggiore del 2,6% rispetto: 11,5 miliardi di euro rispetto ai 11,2
miliardi di euro dell’anno precedente.
E’ chiaro dunque che già soltanto un eventuale riduzione
dell’attività produttiva dell’Ilva, potrebbe portare ad un cambio di
strategia per diversi gruppi europei. Secondo l’analisi dell’UBS, il
problema dell’Ilva non sarà risolto prima della fine dell’estate. Un
problema che richiede comunque una soluzione rapida, tanto più che
l’attuale calo dei prezzi dell’acciaio aggrava la situazione.Secondo gli
ultimi dati pubblicati da Worldsteel, il rimbalzo del settore
dell’acciaio in Europa ha registrato un -2,7% anno su anno a maggio e
del 4,6% per i primi 5 mesi dell’anno corrente, che ha portato ad un
significativo aumento delle scorte. Del resto, anche la JP Morgan nella
sua analisi sosteneva come la sicura diminuzione della produzione
dell’Ilva, andrebbe a ridurre la sovra capacità produttiva dell’acciaio
registrata negli ultimi anni in Europa: “Nel nostro visualizzare un
consolidamento dell’industria siderurgica europea meridionale
(Mittal-Marcegaglia) avrebbe un impatto significativo e benefico per
tutto il settore europeo dell’acciaio, sia in termini di prezzi che di
riduzione della volatilità del prodotto durante il ciclo di
rifornimento-smaltimento”.
Infine, l’analisi della banca svizzera tocca un’altra
importante questione. La chiusura dell’Ilva infatti, avrebbe per lo
Stato italiano costi significativi. A cominciare, ad esempio, dai piani
di formazione che si dovranno porre in essere per consentire ai
lavoratori di trovare un nuovo lavoro, in caso di esuberi forzati. La
chiusura parziale del sito tarantino, comporterebbe un costo stimato tra
i 600 e i 900 milioni di euro (basti solo pensare alla cassa
integrazione per migliaia di lavoratori, comprese le ditte dell’indotto e
le aziende e gli stabilimenti che dipendono da Taranto a partire da
quelli di Cornigliano e Novi Ligure), oltre a 100 milioni soltanto per
la formazione. I costi, in caso di chiusura totale del sito, salirebbero
ad 1 miliardo di €. Ne vedremo ancora delle belle.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 24.06.2014)Ilva, Gnudi sulle orme di Bondi
Il commissario Ilva Piero Gnudi prova a correre ai ripari per arrestare l’emorragia finanziaria che attanaglia l’Ilva Spa. Secondo quanto riportato nella pagina economica de “Il Messaggero” di ieri infatti, giovedì scorso Gnudi avrebbe incontrato a Milano i rappresentanti delle tre banche ‘protagoniste’ dell’affaire Ilva: Intesa San Paolo, Unicredit e Banco Popolare.Soltanto che a differenza del predecessore Bondi, che lo scorso gennaio chiese ai tre istituti di credito di finanziare il piano industriale, l’attuale commissario Ilva avrebbe chiesto un prestito di 60 milioni di euro da ottenere entro la metà di luglio. Il che sarebbe l’ennesima conferma di come gli stipendi di giugno, che Ilva dovrebbe accreditare il 12 luglio, sono a forte rischio. Non solo per la data entro la quale Gnudi ha chiesto di ottenere il prestito, quanto soprattutto per la somma in questione: visto che il monte stipendi mensile pesa sulle casse della società per oltre 52 milioni di euro.
I 60 milioni di euro sarebbero stati chiesti con la forma dello “smobilizzo crediti”. Quest’operazione consente di ottenere dei finanziamenti nel periodo della dilazione concessa, e di delegare a terzi (di solito le banche stesse) la gestione degli incassi dei crediti. È un modo per ottenere liquidità e fare una migliore programmazione aziendale. Lo smobilizzo crediti può configurarsi come “anticipo di portafoglio” o come “anticipo su fatture”. Con l’anticipo di portafoglio la banca permette a coloro che sono in attesa di riscuotere delle somme certe a scadenza, di ottenerne subito l’accredito con un tasso di smobilizzo inferiore rispetto al fido in conto corrente bancario. Con l’anticipo su fatture viene concesso un anticipo su importi dovuti come da fatture emesse o contratti tra imprese. Alla richiesta di Gnudi, le banche (con Unicredit più disponibile, a differenza di Banca Intesa e Banco Popolare che sono decisamente più esposte nei confronti dell’Ilva Spa per crediti pregressi) non avrebbero opposto un rifiuto netto, ma precise condizioni: la più importante delle quali prevede che la linea di liquidità straordinaria venga posta in “prededuzione”. Ovvero ottenendo una sorta di corsia preferenziale nella riscossione del credito vantato, rispetto agli altri debiti contratti dalla società.
La questione rientra nel campo della “Legge Fallimentare in tema di prededucibilità dei crediti da finanziamento nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti”, tematica regolata dall’art. 182-quater della legge stessa modificata nell’agosto del 2012. Nella versione originaria della norma, la prededucibilità spettava ai soli crediti derivanti da finanziamenti concessi all’impresa in difficoltà da banche e intermediari finanziari iscritti agli albi; per effetto delle modifiche la prededucibilità ora spetta a qualsiasi soggetto che abbia erogato finanziamenti all’impresa in difficoltà, sempre che i fondi siano stati concessi “in esecuzione” di concordati preventivi o di accordi di ristrutturazione ovvero “in funzione” della presentazione delle domande di concordato o di omologazione dell’accordo di ristrutturazione. Inoltre, sono diventati prededucibili anche i cosiddetti finanziamenti-ponte concessi dai soci, cioè i fondi erogati dai soci del debitore per consentire a quest’ultimo di presentare la domanda di concordato o il ricorso per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione. La modifica alla legge in questione ha, inoltre, chiarito che la prededucibilità spetta anche ai finanziamenti di soggetti che abbiano acquistato la qualità di socio del debitore in esecuzione di un accordo di ristrutturazione o di un concordato preventivo.
Ora. Il problema nasce dal fatto che non è chiaro se Gnudi abbia o meno la possibilità di agire in questo senso. Cioè se nell’incarico conferitogli da governo lo scorso 5 giugno, sia presente la facoltà e la possibilità di poter stipulare con gli istituti di credito concordati preventivi o accordi di ristrutturazione, come previsto appunto dalla “Legge Fallimentare”.
Inoltre, tornando alle notizie fornite da “Il Messaggero”, è leggermente sceso l’accordato vantato dalle banche nei confronti dell’Ilva Spa. Secondo la Centrale rischi di Bankitalia, aggiornata ad ottobre scorso, Ilva beneficiava dagli istituti di credito di un accordato di 1,855 miliardi, dei quali 1,520 utilizzati: di questi ultimi 534 milioni sono autoliquidanti (factoring, ovvero una tipologia di finanziamento agevolato per le imprese), 769 milioni a scadenza, 7,3 milioni a revoca, 197 di garanzie commerciali e 14 di garanzie finanziarie (con uno sconfino di 2 milioni). Togliendo le garanzie, degli 1,3 miliardi residui, Intesa sarebbe stata esposta per 850 milioni, Banco Popolare per 240, Unicredit 200. Ora invece, l’accordato è sceso ad 1,5 miliardi di euro, dei quali 1,1 utilizzati. Di quest’ultimi, 503 milioni nella forma autoliquidante e 692 milioni a scadenza.
Sia come sia, il prestito di 60 milioni di euro, non servirà a coprire il debito maturato con i fornitori e le imprese dell’appalto-indotto, che secondo Confindustria Taranto ammonta ad oltre 46 milioni di euro. Il ritardo nei pagamenti delle ditte dell’appalto infatti, varierebbe dai 4 ai 24 mesi. E sono tante le imprese che rischiano di chiudere i battenti da un momento all’altro. Insomma: si provano a mettere le così dette “pezze a colori”, in attesa di capire di quale vita vivere. O di che morte morire.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 23.06.2014)
Nessun commento:
Posta un commento