sabato 14 settembre 2013

Correva l'anno della grande perizia...

Noi, figli dell'Ilva
 
Da piccola ero molto spesso a casa di nonna, i miei genitori lavoravano ed io passavo il tempo a giocare in quelle grandi stanze affacciate sul mare di Taranto. Si vedeva tutta la grande rada del golfo da lì: i ‘piroscafi’ e le ‘navi da guerra’, come le chiamava il nonno che fin troppo tempo ci aveva passato sopra; il faro di San Vito e i quartieri che stavano nascendo nelle sue vicinanze, i gabbiani che galleggiavano a pelo d’acqua e a spingere un po’ più in là lo sguardo nelle mattine terse si vedevano anche gli alberi sulle isole Cheradi, per me misteriosissime come la giungla di Salgari.
E quando faceva sera, nella luce rossastra di un sole che annegava dietro i monti della Calabria, si scorgevano le piccole file ordinate di lampare che partivano dalla città vecchia per andare a pescare la notte in mar Grande. Dietro la loro luce incerta, sullo sfondo, l’Italsider. Nonna me lo indicava quasi con orgoglio, ribadendo che fosse “il posto in cui lavoravano papà e lo zio”. Non doveva avere molto chiaro in mente cosa si facesse lì se quando le ho chiesto cosa fabbricassero sotto quelle ciminiere a fasce rosse e bianche lei mi ha risposto: “Le nuvole”. O forse era un modo semplice di non complicare ulteriormente i pensieri di una bambina già fin troppo cassandresca.
Col tempo, poi, ho scoperto che quella stessa risposta sulle nuvole era stata data a tanti altri miei coetanei. Molti di loro con un padre impiegato o operaio di quella che nel frattempo era diventata ILVA, tutti di certo con un parente che trascorreva molto del suo tempo in periferia, nel rione Tamburi, dove il colore predominante è il rosso. Quello di una polvere granulosa soffiata nell’aria dagli sbuffi degli altoforni, che si posa ovunque su guardrail, balconi, cappelle funerarie, abiti stesi ad asciugare. Luccica al sole e, quando piove, tinge e trasforma le pozzanghere in sangue vivo e denso. Entra nei polmoni senza farsi sentire, e li devasta.
Negli anni Ottanta e Novanta facevamo tutti parte di una tribù speciale, noi figli dell’ILVA. All’uscita da scuola il sabato notavi subito il gruppo dei nostri papà che si conoscevano e ci aspettavano assieme, e a volte c’era anche qualche mamma (“Pure le femmine lavorano in fabbrica?”, ci chiedevamo). Avevamo un circolo ricreativo solo per noi sulle colline vicino al mar Piccolo, proprio dietro il luogo in cui producevano le nuvole, dove la domenica ci sfinivamo in gare infinite di altalene, molto difficili da trovare nel resto di Taranto. Non ci siamo mai posti il problema se l’ILVA fosse un gigante buono o cattivo, forse ci siamo anche sentiti privilegiati.  Solo che un giorno abbiamo iniziato a morire.

Prima i fratelli piccoli dei compagni di scuola, troppo frequentemente perché fosse solo un caso. Poi abbiamo imparato a convivere con parole che nei cartoni animati di “Esplorando il corpo umano”, invece, non pronunciavano mai: cancro, nodulo, tumore maligno, enfisema, malato terminale, leucemia, rianimazione. L’età della nostra innocenza è finita così, sbattendo contro il muro di una realtà all’improvviso impossibile da capire e da gestire, e la rassegnazione che coglievamo negli occhi degli adulti ci smarriva ancora di più: ammetteva la colpa latente e nascosta, forse sofferta, di aver sacrificato il destino di una città di pescatori sull’altare della grande industria, che da quelle parti non c’entrava proprio nulla.
E dai volti dei genitori abbiamo compreso presto che anche le dinamiche in azienda stavano cambiando, perché l’arrivo del nuovo padrone aveva sparigliato le carte fino a sopprimere e trasferire al nord interi reparti di produzione e a rinchiudere i lavoratori dissidenti nella cosiddetta “palazzina LAF”, di cui tutti sapevano ma parlavano a mezza bocca.
Sono passati molti anni da allora e la netta maggioranza di noi ha lasciato lo Ionio diciannovenne per andare a studiare in altre città senza più tornare: qualcuno ci ha chiamati delfini erranti, riprendendo l’animale cavalcato dall’eroe greco Taras sullo stemma della città. Mentre si continuava a morire a centinaia ogni anno (vedi le conclusioni della perizia epidemiologica da poco depositata (http://download.repubblica.it/pdf/repubblica-bari/2012/conclusioni.pdf), un’intera generazione è emigrata in cerca di occasioni migliori, facendo mancare il suo sostegno alla lotta contro l’avvelenamento e sulla città ha pesato un silenzio immobile, squarciato solo dalle cronache giudiziarie che hanno coinvolto la quasi totalità degli esponenti delle giunte comunali che si sono susseguite.
Almeno fino al 28 novembre 2009, quando una nuova onda di attivisti consapevoli ha organizzato una grande manifestazione cittadina dando finalmente origine ad un movimento condiviso di attenzione per la tutela delle politiche ambientali (http://www.youtube.com/watch?v=-t1XkBTdwsw&feature=related): ottime intenzioni e programma conditi però da forti polemiche politiche, che hanno finito col compromettere il risultato della lista civica alle recenti elezioni amministrative. Una battuta d’arresto che non fiaccherà il movimento, c’è da crederlo. Si continuerà a chiedere a gran voce salute per i figli e giustizia per chi non c’è più e in prima fila saranno ancora le donne, il cuore pulsante della protesta immortalato nel pluripremiato documentario della regista leccese Valentina D’Amico: “La Svolta. Donne contro l’ILVA”  (http://lasvoltadonnecontroilva.wordpress.com/).
E proprio di una donna e di incredibile speranza sa, infine, la storia della biblioteca del quartiere Tamburi, il più colpito dall’inquinamento. Un’area in cui palazzi sono cresciuti a caso, pedine sparpagliate su una scacchiera in saliscendi che meriterebbero almeno una ripassata di vernice. Non ci sono parchi e giardini perché le piante resisterebbero poco all’assalto dei fumi nocivi, come dimostrano impietosamente i campi di sterpaglie che circondano il quartiere.
Carmen Motolese abita lontano da qui ma per ventidue anni ha insegnato arte in una scuola del rione: ne conosce bene il tessuto e le dinamiche e la sua cattedra è un luogo d’ascolto da cui intercettare disagi e necessità. Lei svela il bagliore di Monet, i suoi allievi raccontano la luce fioca dei lampioni sull’asfalto e le fiamme che si levano di notte dalle ciminiere. Questi ragazzi non hanno posti in cui incontrarsi che non siano le strade. Non ne hanno avuti neppure da piccoli, ché le aree giochi per i bambini, negli anni, sono state costruite e poi distrutte sistematicamente dai vandali.
L’ultima è stata finanziata interamente da alcuni commercianti di zona, perché il Comune non ha i fondi necessari per un’operazione del genere.
A partire dal 2002 Carmen ha bussato alla porta di istituzioni pubbliche, enti locali, professionisti privati, famiglie fino a raccogliere 14.000 volumi e ad ottenere dalla Caritas l’uso di alcuni locali del centro polivalente ‘Giovanni Paolo II’: sono diventati la bibliotecaMarco Motolese”, dedicata al figlio strappato via da un’auto in corsa quindici estati prima.
L’associazione culturale che oggi porta il suo nome promuove il libro e la lettura, la solidarietà e la beneficenza e ogni anno organizza il convegno ‘I Giovani ed il Libro’, elargisce due borse di studio per gli studenti più meritevoli e ha destinato altri 500 libri al reparto di Pediatria dell’Ospedale SS. Annunziata, nel centro storico di Taranto.
Piantiamo semi sul cemento, sì. E fioriranno.
Le foto sono di Vanni Ninni, il manifesto è di Nicola Sammarco.
Questa riflessione non sarebbe stata possibile senza il lavoro di ZeroViolenzaDonne.
A tutti voi, grazie. (Astridrome)

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