Ilva non vuol perdere tempo. «E adesso ridateci l’acciaio»
L’Ilva corre subito all’incasso, presentando una istanza per riavere il milione e mezzo di tonnellate d’acciaio (valore 700 milioni di euro) sequestrato dalla Guardia di Finanza il 26 novembre in esecuzione di un decreto firmato dal gip Patrizia Todisco. Il sequestro fu disposto in quanto quella montagna di coils e tubi era stata prodotta quando non si poteva (era in vigore il sequestro degli impianti a caldo senza facoltà d’uso perché l’acciaieria era ritenuta fonte di malattie e morte per operai e cittadini) e dunque frutto del reato. Il decreto salva-Ilva approvato dal Governo Monti su proposta del ministro Clini dispose la commercializzazione dei prodotti ma la Procura prima e il gip dopo si rifiutarono di restituire quell’acciaio, ritenendo che il decreto non poteva essere retroattivo. Clini, allora, pose rimedio, proponendo al Parlamento, in sede di conversione del decreto, un emendamento che consentiva la vendita di quei coils, vendita ritenuta indispensabile dall’azienda per far fronte alle esigenze economiche (fu paventato anche il blocco degli stiopendi).
A legge approvata, dunque, i legali dell’Ilva tornarono alla carica, trovandosi al cospetto di un doppio no: quello del gip, che sollevò questione di costituzionalità della legge, su richiesta della Procura; e quello del tribunale dell’appello al quale nel frattempo si erano rivolti impugnano il primo diniego del giudice Todisco. Sia il gip che il tribunale dell’appello sollevarono questioni di legittimità costituzionalità che, però, la Consulta ha dichiarato in parte infondato e in parte inammissibile. Occorrerà leggere l’ordinanza della Corte Costituzionale per capire il percorso logico-giuridico seguito dai giudici sui singoli aspetti della legge salva-Ilva finiti alla sua attenzione ma, basandosi sul solo comunicato stampa della Consulta, il presidente Bruno Ferrante ieri mattina si è rivolto alla Procura per riavere indietro l’acciaio. Ferrante chiede, in particolare, che «si proceda senza indugio a dare esecuzione al disposto di cui all’articolo 3 della legge 231/2012, anche disponendo la rimozione dei sigilli dei beni oggetto del provvedimento di sequestro preventivo del gip di Taranto e comunque ogni altra attività necessaria a tal fine». La richiesta dell’Ilva sarà valutata nelle prossime ore dalla Procura, anche alla luce di alcune singolarità contenute dalla stessa.(GdM)
Taranto, Ilva non esclude di chiedere i danni. Ma sull’Aia viene bocciata dall’Ispra
L’Ilva corre subito all’incasso, presentando una istanza per riavere il milione e mezzo di tonnellate d’acciaio (valore 700 milioni di euro) sequestrato dalla Guardia di Finanza il 26 novembre in esecuzione di un decreto firmato dal gip Patrizia Todisco. Il sequestro fu disposto in quanto quella montagna di coils e tubi era stata prodotta quando non si poteva (era in vigore il sequestro degli impianti a caldo senza facoltà d’uso perché l’acciaieria era ritenuta fonte di malattie e morte per operai e cittadini) e dunque frutto del reato. Il decreto salva-Ilva approvato dal Governo Monti su proposta del ministro Clini dispose la commercializzazione dei prodotti ma la Procura prima e il gip dopo si rifiutarono di restituire quell’acciaio, ritenendo che il decreto non poteva essere retroattivo. Clini, allora, pose rimedio, proponendo al Parlamento, in sede di conversione del decreto, un emendamento che consentiva la vendita di quei coils, vendita ritenuta indispensabile dall’azienda per far fronte alle esigenze economiche (fu paventato anche il blocco degli stiopendi).
A legge approvata, dunque, i legali dell’Ilva tornarono alla carica, trovandosi al cospetto di un doppio no: quello del gip, che sollevò questione di costituzionalità della legge, su richiesta della Procura; e quello del tribunale dell’appello al quale nel frattempo si erano rivolti impugnano il primo diniego del giudice Todisco. Sia il gip che il tribunale dell’appello sollevarono questioni di legittimità costituzionalità che, però, la Consulta ha dichiarato in parte infondato e in parte inammissibile. Occorrerà leggere l’ordinanza della Corte Costituzionale per capire il percorso logico-giuridico seguito dai giudici sui singoli aspetti della legge salva-Ilva finiti alla sua attenzione ma, basandosi sul solo comunicato stampa della Consulta, il presidente Bruno Ferrante ieri mattina si è rivolto alla Procura per riavere indietro l’acciaio. Ferrante chiede, in particolare, che «si proceda senza indugio a dare esecuzione al disposto di cui all’articolo 3 della legge 231/2012, anche disponendo la rimozione dei sigilli dei beni oggetto del provvedimento di sequestro preventivo del gip di Taranto e comunque ogni altra attività necessaria a tal fine». La richiesta dell’Ilva sarà valutata nelle prossime ore dalla Procura, anche alla luce di alcune singolarità contenute dalla stessa.(GdM)
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L’azienda, insomma, passa all’attacco. Dopo aver denunciato alla Procura di Potenza i magistrati tarantini e i custodi giudiziari, attraverso un esposto che pur non contenendo i nomi dei giudici ne racconta tutti i provvedimenti, ora valuta anche l’ipotesi di considerarsi parte lesa per un sequestro conseguente a ipotesi di reato a carico di proprietà e vertici aziendali che a vario titolo sono accusati di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e corruzione in atti giudiziari.
Intanto in fabbrica la situazione non sembra essere migliorata. Il Garante nominato dal governo, Vitaliano Esposito, in una lettera al ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, ha sottolineato che l’Ilva non è in regola con gli adempimenti dell’Autorizzazione integrata ambientale e che gli accertamenti dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) ha appurato l’esistenza di “criticità, che concernono sia gli interventi di adeguamento che l’esercizio della gestione”. Non solo. L’ex procuratore generale della Cassazione ha evidenziato che i ritardi riguarderebbero in particolare “i nastri trasportatori del materiale entro stabilimento, quelle concernenti l’aria di carico e scarico dei materiali, i parchi di deposito di materiali nonché taluni edifici asserviti alle aree di produzione”.
Nel suo rapporto l’Ispra ha spiegato che la fabbrica al momento non avrebbe eseguito nei tempi indicati una serie di misure sui cumuli dei parchi minerali, non avrebbe realizzato la “minimizzazione delle emissioni gassose fuggitive” e nemmeno provveduto alla realizzazione di un “sistema di nebulizzazione di acqua per l’abbattimento delle particelle di polveri sospese generate dalle emissioni diffuse”. Ma c’è di più. L’Ilva avrebbe superato in alcuni casi la durata delle emissioni e soprattutto i limiti imposti dai recenti provvedimenti senza informare l’autorità competente.
Il dossier dell’Ispra, infatti, parla di “omesse comunicazioni con dettagliate informative all’autorità competente ed agli di controllo”. In base a tutto questo, l’Ispra ha chiesto la diffida dello stabilimento affinché in un tempo compreso tra i 10 e i 60 giorni a seconda del tipo di misura possa provvedere a colmare queste inadempienze. Ma non è solo l’Ispra ad aver attaccato la fabbrica del Gruppo Riva. Il 13 febbraio scorso, infatti, è stata l’Arpa Puglia a inviare alla procura della Repubblica una missiva specificando che “risultano non ancora ottemperate dall’Ilva diverse prescrizioni. A titolo esemplificativo, si citano quelle relative a nastri e cadute il cui completamento è stato posticipato al 27 ottobre 2015, ovvero si è passati dai tre mesi prescritti ai 3 anni comunicati dall’azienda, alla chiusura completa degli edifici con captazione e convogliamento dell’aria degli ambienti confinati il cui completamento è stato posticipato dal 27 aprile 2013 al 30 giugno 2014″. Secondo l’Agenzia guida da Giorgio Assennato, quindi, “i differimenti temporali non fanno altro che incrementare il fenomeno di danno ambientale già in atto”. (FattoQ)
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