martedì 23 giugno 2015

Idea non originale, tanto pour parler

Già sei anni fa, il regista Nico Angiuli aveva filmato "Otnarat. Taranto a futuro inverso", il dopo Ilva attraverso una visione creativa e piena di prospettive.
Ora questo video ripropone lo stesso tema in forma docu-apocalittica.
Sembra di vedere la rappresentazione del catastrofismo di confindustria e dei sindacati riflessi nell'immaginario dell'operaio.
Non a caso l'analisi di Colucci, riportata sulla Gazzetta lo inquadra come frutto di questo immaginario in una città che non ha bisogno di effetti speciali.
Forse anche senza ricorrere alla poesia visionaria di Otnarat, si poteva essere più realistici e considerare mille altri fattori per provare a fare davvero uno sforzo documentaristico.
Ma questo video mostra la fretta di chi vuole sentirsi il primo e vuol fare rumore per colpire il suo gruppo.
Anche se, come abbiamo detto, non è il primo.
Ed anche se questo rumore vibra già nelle corde dei media allineati e filoindustriali.
E' uno dei tanti.
E siamo sicuri, tanti ancora ne verranno!




«Taranto dopo l'Ilva». Fa discutere film sulla città del futuro

In rete è ormai un fenomeno virale: «Taranto dopo l’Ilva» video di Davide Ippolito pubblicato su Youtube. Si tratta di un cortometraggio; circola in maniera vorticosa particolarmente sui social network; suscita reazioni contrastanti. L’autore immagina - con richiami suggestivi al cinema della catastrofe - il viaggio-reportage di un giovane in città, sedici anni dopo la chiusura dello stabilimento siderurgico, a dismissione (in realtà abbandono) compiuta. Il racconto è crudo, mette sul piatto il ricatto occupazionale in una luce schietta: «Nessuno dovrebbe scegliere se morire di fame o morire di tumore» dice una delle protagoniste, Serena.

Si abbonda in fotogrammi di ciminiere abbattute, impianti in disuso, strade deserte e impraticabili, costruzioni fatiscenti, tanto da ricordare un’esplosione nucleare. Taranto sembra - in alcune scene - gemellata a Pripyat la città ucraina più vicina alla centrale nucleare di Chernobyl, abbandonata dagli abitanti in fuga dopo l’esplosione del reattore nel 1986. Pripyat è da decenni borgo fantasma di ruggine e macerie. E di fuga o tentativi di fuga parlano alcuni dei protagonisti del film: Mario, (sopravvissuto, viene definito così, avvalorando il gemellaggio con la catastrofe); Francesco, ex operaio dell’Ilva, cui si affida il racconto dell’ascesa e della caduta della fabbrica, pagato a caro prezzo - malattie e morte - dai lavoratori prim’ancora che dai cittadini. Fino al muro costruito dallo Stato per impedire l’esodo dalla città senza più pane e speranze: «Gli italiani ci odiavano e noi odiavamo essere italiani».
Accostamento suggestivo, ma non peregrino - non a caso fatto dall’operaio - ai campi di concentramento e all’ odierna condizione dei migranti (ma è stato lo storico Roberto Nistri a definire i tarantini «pellerossa in fuga»). Insomma «Blade Runner» e «1997 fuga da New York» per la città dei due mari, senza più ciminiere; in un cortometraggio del nuovo realismo artistico sbocciato all’ombra dell’acciaieria (la produzione sul tema è ormai ridondante, ma questo lavoro ha il suo contrastante, inquietante, tenebroso perché). Crediamo non regga, piuttoso, la pretesa di guardare al futuro come una profezia. Per un semplice motivo: il film è già presente; forse, addirittura, già passato. Perché Taranto è così da un pezzo: è già un «deserto rosso» prodotto dal ricatto industriale. Per girare alcune scene è bastato, appunto, solo girarle. I «trucchi» non servivano. Senza Ilva, quando davvero chiuderà, crediamo la situazione possa solo migliorare. Paradossalmente. Taranto sarà sola col suo destino. Dovrà finalmente ammettere le sue colpe. E non potrà nemmeno consolarsi con le parole del filosofo Baumann citate nel finale dal protagonista. Quella speranza di salvezza dalla distruzione alimentata dalla nuova alleanza fra intellettuali e popolo. Il deserto industriale, da tempo, ha cancellato anche loro. (GdM)

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