giovedì 8 gennaio 2015

"Qualcosina" che non va nel decreto

Ilva, il Governo al lavoro: ci sono aspetti del decreto da perfezionare 

Con l’approvazione del testo del decreto per Taranto la partita non è finita ma appena cominciata. Per l’Ilva occorre ancora definire una serie di aspetti. A partire da quelli pratici: reperire le risorse per mettere in pagamento le retribuzioni a tutti i dipendenti del gruppo e in primis alla fetta più imponente, quella degli oltre undicimila lavoratori jonici. Sempre meno i fondi in cassa, la liquidità restante servirà a pagare fornitori e forza lavoro. Il tutto fino alla prossima settimana perchè tra il 15 e il 20 gennaio dovrebbe essere messa in moto l’amministrazione straordinaria del gruppo siderurgico.
L’applicazione della legge Marzano modificata per l’azienda dell’acciaio italiana è una procedura nuova e il rischio che siano tagliati fuori pezzi dell’indotto e debitori è concreto. Occorre quindi mettere a posto tutto entro pochi giorni. Ecco perché anche ieri, alla ripresa dopo la pausa festiva della Befana, a Roma si sono susseguite riunioni una dopo l’altra. La presidenza del Consiglio con lo stesso Matteo Renzi e il sottosegretario Graziano Delrio sta valutando tutti questi aspetti con lo staff di consulenti a partire dall’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e dall’economista Marco Simoni. Una valutazione allargata al ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, al suo gruppo di esperti e al commissario Piero Gnudi.
Nei giorni scorsi alle riunioni hanno partecipato anche i vertici della Cassa depositi e prestiti e del Fondo strategico italiano, rispettivamente con Giovanni Gorno Tempini e Maurizio Tamagnini.
Da una parte il dossier sulle risorse e sulle strategie finanziarie future per la newco che potrebbe anche aprire ai privati, ed in particolare ad Arcelormittal, con l’opzione call, una sorta di “chiamata” per i titoli della nuova società che potrebbe poi tramutarsi in acquisizione delle quote. Dalla finanza all’ambiente. Perché contemporaneamente l’équipe di esperti dello staff commissariale sta lavorando ai prossimi passi che bisognerà compiere nel senso dell’adeguamento dello stabilimento al piano ambientale e all’autorizzazione integrata ambientale.
Sul fronte dei nomi che circolano per lo staff dei nuovi commissari che sostituiranno quelli vecchi, in realtà, sembra prevalente nel Governo la linea “conservativa”: verso la riconferma infatti sono ormai l’attuale commissario Piero Gnudi (che ha condotto le trattative per la vendita dello stabilimento di Taranto e la gestione corrente del gruppo) e per il subcommissario con compiti soprattutto ambientali Corrado Carrubba. Un terzo e ultimo nome sarà inserito con il provvedimento che sancirà l’avvio dell’amministrazione straordinaria, un manager che si occupi della fase durante la quale ci sarà l’ingresso dello Stato nella gestione dell’ex Italsider. (Quotidiano)

Il direttore dell'Arpa: «L’Ilva pubblica non va mancano le sanzioni»

«No, non ci siamo per niente». Giorgio Assennato, direttore generale dell’Arpa Puglia, aveva parlato di luci e ombre qualche giorno dopo il varo del decreto legge sull’Ilva e su Taranto da parte del Governo. Criticava, Assennato, l’assenza di una governance ambientale e sanitaria locale accanto alla governance istituzionale di Palazzo Chigi, ritenendo che questo avrebbe favorito la coesione sociale a Taranto. Ma Assennato comunque apprezzava la possibilità per l’Agenzia per l’ambiente di fare assunzioni a tempo indeterminato. Rinforzi che sarebbero andati proprio alla sede di Taranto che così avrebbe potuto effettuare meglio i controlli ambientali.Lo spiraglio che le indiscrezioni sul decreto lasciavano intravvedere, si è però subito richiuso. Letto infatti il testo, ora che dal 5 gennaio è sulla «Gazzetta Ufficiale», Assennato non fa per niente mistero della sua delusione e del suo sconcerto. E attacca duramente: «Ci erano state promesse delle assunzioni, con esclusivo riferimento all’area di Taranto, una volta che la Regione Puglia avrebbe valutato l’assegnazione temporanea di proprio personale e chiuso la ricollocazione del personale delle Province. Questo, almeno, c’era scritto nel comunicato ufficiale diramato da Palazzo Chigi la sera del 24 dicembre. Nel decreto, invece, non c’è niente di tutto questo. Zero assunzioni per l’Arpa a Taranto. Non ci sono parole per commentare».
Assennato sembra nutrire poca fiducia anche nella possibilità che il Parlamento, ora che dovrà convertire in legge il decreto, possa rimediare alla vistosa carenza: «Sì, staremo a vedere, ma l’amarezza per ora è enorme - afferma -. Sa che vuol dire questo? Che il ministero dell’Ambiente non ha affatto la percezione di cosa sia Taranto, di quali grandi problemi la città abbia, e di come sul versante della bonifica e della tutela ambientale bisogna offrire il massimo delle garanzie e degli accorgimenti. Si pensa erroneamente che da Roma, con una logica centralistica, si possa guidare e gestire tutto, ma non è affatto così. Peccato, un’occasione persa. Un’ennesima occasione persa».
Assennato vede nell’Ilva pubblica un’azienda sottratta a ogni forma di controllo: «Non ci sono sanzioni, non sono previste ispezioni, non si potenzia l’Arpa, in più c’è la non punibilità dei commissario, mi dice chi adesso controllerà l’Ilva? Eppoi, lasciare quel 20 per cento di prescrizioni in bilico, rinviandole a tempi indefiniti, che significa? Che gli interventi più importanti non si fanno più? Stiamo attenti, perchè io così vedo già saltata la copertura dei parchi minerali. Ma Roma si rende conto che così facendo, con queste omissioni, rafforzerà coloro che non vogliono altro che la chiusura del siderurgico?»
Assennato manifesta scetticismo anche sui 30 milioni annunciati dal premier Matteo Renzi per l’istituzione a Taranto di un centro per la diagnosi e cura dei tumori infantili.
Nella conferenza stampa della vigilia di Natale, Renzi lo indicò tra i primi interventi, prim’ancora che dicesse che per Taranto, fra bonifica dell’Ilva e rilancio della città, erano stati previsti 2 miliardi di euro, sia pure di risorse già note come, per esempio, il miliardo e 200 milioni sequestrato ai Riva per presunti reati fiscali e valutari. «Anche qui - osserva il direttore generale dell’Arpa Puglia - il decreto legge non fa alcun riferimento. Il sottosegretario Delrio sostiene che il progetto non è in discussione, che i fondi ci sono e che, d’accordo con la Regione, il nuovo centro si istituirà? Ma se è così, sono fondi che la Puglia, non Roma, mette in campo. Il Governo non dà nulla di aggiuntivo pur sapendo bene delle criticità esistenti a Taranto come documentato dall’Istituto superiore di sanità».
E il decreto continua a restare nel mirino degli ambientalisti. «Noi chiediamo da subito - dice Legambiente - che in sede di conversione venga introdotta nel testo del decreto un’esplicita indicazione dei tempi di ultimazione del piano ambientale Ilva che, perlomeno, ripristini le precedenti scadenze, già differite rispetto alle originarie. In caso contrario - sostiene Legambiente -, la divaricazione tra esigenze produttive e rischi per la salute sarebbe lacerante rendendo poco credibili gli impegni assunti dallo Stato nei confronti di Taranto». Ancor più critico il cooportavoce nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, che è anche consigliere comunale a Taranto, il quale, a proposito dell’immunità penale per il commissario prevista nel decreto, parla di ritorno «al feudalesimo che non tutela salute e lavoro».  (Palmiotti GdM)

Ilva, la salute andata perduta – Sparito dal decreto il potenziamento dell’Arpa

Ha generato il solito ginepraio di polemiche, come era prevedibile che fosse, l’ultimo decreto sull’Ilva e sulla città di Taranto approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 24 dicembre ed entrato in vigore il 5 gennaio. Un decreto che deve ancora passare dalle varie commissioni, così come dalla Camera e dal Senato, dunque ancora passibile di varie modifiche (se migliorative o peggiorative non è ancora dato sapere). Un decreto, se vogliamo, molto simile ai precedenti, specialmente per quanto attiene la questione ambientale e sanitaria. Ad esempio, ha generato stranamente perplessità il termine del 31 luglio 2015 per l’attuazione dell’80% delle prescrizioni AIA: ma lo stesso termine era stato già previsto nella legge sulla “Terra dei Fuochi-Ilva” approvata nel febbraio del 2014. Dunque, nessuna novità.
Del resto, il Piano ambientale approvato dal governo nel marzo dello scorso anno, aveva già rivisto nella tempistica di attuazione, la stragrande maggioranza delle prescrizioni dell’AIA del 2011 riesaminata in pochi mesi dalla commissione IPPC a cavallo tra l’estate e l’autunno del 2012: un continuo slittamento nel tempo, dovuto semplicemente al fatto che i soldi per attuarle non c’erano allora e non ci sono ancora oggi. Così come non ci sono mai stati al tempo dei Riva. Non è cambiato assolutamente nulla negli ultimi 20 anni. Con o senza decreti del governo, il risanamento ambientale dell’area a caldo dell’Ilva è sempre stato un sogno, un’utopia. Niente di più. E a quanto ci è dato sapere, tale resterà.
Altre perplessità ha invece suscitato l’assenza nel testo del decreto, dei 30 milioni di euro annunciati dal premier Renzi, per finanziare un progetto a Taranto di ricerca sui tumori, in particolar modo quelli infantili. In realtà, essendo la sanità materia regionale, il progetto dovrà essere studiato dalla Regione e, a detta del governo, sarà finanziato dallo Stato con 30 milioni di euro. Sinceramente però, prima di fare voli pindarici e gridare come al solito allo scandalo, sarebbe il caso di capire quando arriveranno e come si andranno a spendere i 50 milioni di euro che furono stanziati con la legge “Terra dei Fuochi-Ilva”, precisamente nell’articolo 2 del decreto approvato il 6 febbraio del 2014, per il controllo dello stato di salute della popolazione residente nei comuni di Taranto e di Statte e i territori campani “che risultino interessati da inquinamento”. Per queste attività fu autorizzata “per il 2014, la spesa di 25 milioni di euro e, per il 2015, la spesa di 25 milioni di euro”.
Dopo svariati mesi di silenzio, lo scorso 25 ottobre il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, a margine di un convegno dei Giovani di Confindustria sulla “Terra dei fuochi”, dichiarò testualmente: “Ho stanziato la prima tranche dei fondi previsti dal ministero e cioè i primi 25 milioni di euro poche settimane fa, una parte ingente per la Campania e un’altra minima parte per Taranto. Noi stiamo facendo, da un punto di vista sanitario, un lavoro enorme. A questo punto sono le Regioni che deve accelerare le procedure per attuare quello che è di sua competenza”. Non è dato sapere a quanto ammonti quella “minima parte per Taranto” di cui argomenta il ministro Lorenzin.
A tal proposito, si attende di sapere qualcosa in più dall’assessore regionale alla Sanità Donato Pentassuglia, che il prossimo 19 gennaio terrà a Taranto una conferenza stampa presso l’Auditorium del Padiglione Vinci (Ospedale Santissima Annunziata) dal titolo “Centro Salute e Ambiente: lavori in corso”, nell’ambito dei provvedimenti legislativi nazionali sulla “Terra dei Fuochi”. Conferenza che in un primo momento si sarebbe dovuta svolgere domani. Magari sarebbe interessante che la politica e la società civile si occupassero anche e soprattutto di queste cose, invece di perdersi in elogi e polemiche del tutto futili e pretestuose sull’ultimo decreto.
Inoltre, quasi nessuno si è accorto e ha posto l’accento su un altro dato, questo sì sul quale sarebbe oggettivamente giusto alzare le barricate: dal decreto è infatti sparita la possibilità di implementare l’organico del dipartimento di Taranto di ARPA Puglia. Certo, l’esborso economico andrebbe comunque sul groppone della Regione, ma confermare il potenziamento di un’agenzia regionale tra le più povere in quanto a personale in tutta Italia (sono non più di 200 le unità attuali quando in altre Regioni superano addirittura le mille), sarebbe stato un gesto e un’indicazione di un’effettiva e parziale inversione di tendenza. Strano dunque che nessuno abbia denunciato questa “mancanza”. Sarà forse perché ARPA Puglia è oramai entrata a far parte di diritto da tempo nella lista dei nemici dei tanti “rivoluzionari” virtuali di Taranto? Chissà. Infine, desta stupore in noi, lo “stupore” di chi denuncia come l’ultimo decreto preveda al comma 2 del’articolo 2 quanto segue: “Il rapporto di valutazione del danno sanitario non può unilateralmente modificare le prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale in corso di validità, ma legittima la regione competente a chiedere il riesame”.
La domanda che ci sorge spontanea è la seguente: ma sino ad oggi dove avete vissuto? Su Marte? O siete stati troppo su Facebook? Forse è il caso, ancora una volta, di riannodare i fili della storia. E per farlo dobbiamo addirittura tornare al 30 agosto del 2013, quando nel solito silenzio generale demmo notizia della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.197 del 23 agosto 2013, del decreto del 24 aprile 2013 “Disposizioni volte a stabilire i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario (VDS)”, a firma dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi e dell’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Il tutto, traeva spunto dalla legge “Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio sulle emissioni industriali inquinanti per le aree pugliesi già dichiarate ad elevato rischio ambientale”, approvata all’unanimità il 17 luglio 2012 dal consiglio regionale della Puglia. L’intento della legge era quello di “prevenire ed evitare un pericolo grave, immediato o differito, per la salute degli esseri viventi e per il territorio regionale”. Il regolamento della stessa fu approvato il 3 ottobre 2012.
La prima relazione redatta congiuntamente dall’Agenzia Regionale dei Servizi Sanitari (AReS), da ARPA e ASL Taranto, che la legge regionale prevede sia prodotta almeno con cadenza annuale, oltre a basarsi sul registro tumori regionale e mappe epidemiologiche sulle principali malattie a carattere ambientale, inglobò anche i dati del registro tumori di Taranto (valido per gli anni 2006-07-08) e quelli dello studio Sentieri (dal 2003 al 2009) realizzato dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore della Sanità. Presentata durante la riunione della V commissione regionale il 29 maggio e lunga ben 99 pagine, la conclusione della relazione della VdS (lo ricordiamo per l’ennesima volta) fu la seguente: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comporteranno un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”.
Quando pubblicammo l’articolo in merito alla VdS il 30 maggio del 2013, per settimane la vicenda rimase sotterrata come al solito da strati di indifferenza totale. Per tirarla fuori, servì la relazione che l’ex commissario Ilva Enrico Bondi allegò ad una lettera del 29 giugno dello stesso anno, redatta da alcuni consulenti di vecchia data dell’Ilva Spa, che contestarono quella relazione addebitando i fenomeni di malattia e morte registrati a Taranto ai presunti “vizi” dei tarantini, un “classico” delle città portuali: tabacco e alcool. Attorno al caso si scatenò la solita infinita e futile polemica tutta tarantina, alimentata anche dal “Fatto Quotidiano”, che si concluse nell’ennesima bolla di sapone.
Un mese dopo, il 26 luglio, il dott. Agostino Di Ciaula (ISDE, Medici per l’Ambiente) fu ascoltato dalla commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Di Ciaula sottolineò come il calcolo espresso nella relazione sulla VdS, fosse “parziale” e il dato sul rischio “fortemente sottostimato”. L’analisi, infatti, prendeva in considerazione i rischi tumorali legati alla sola inalazione di sostanze inquinanti, escludendo le altre vie di assunzione delle sostanze tossiche emesse dall’Ilva per ingestione. Il rapporto ARPA, sostenne Di Ciaula, “calcola i rischi che quelle concentrazioni di inquinanti causano in soggetti adulti di peso medio. Non considera che a parità di concentrazioni il rischio è decine di volte più alto per i feti e per i bambini”.
Sei mesi dopo l’approvazione del decreto e a due dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ARPA e Regione presentarono ricorso al Tar del Lazio conto il decreto interministeriale. Un ricorso che è stato perso. Ma di cui nessuno ha mai parlato o per il quale non vi è stata alcuna indignazione. Tre, fra le altre, le principali contestazioni che vennero mosse nei confronti del decreto Clini-Balduzzi. In primo luogo che anche ad AIA attuata, permarrà comunque un rischio cancerogeno per via inalatoria “residuo” nella popolazione; che una procedura basata sui dati misurati non può essere utile se non alla fine di tutti gli interventi AIA, ovvero ad agosto 2016, e considerando che “i dati consolidati per il 2016 non saranno disponibili prima del 2017 – rilevava l’Arpa -, ne deriva che il primo rapporto Vds Ilva non potrà essere disponibile prima di quattro anni”. Se invece si effettuasse la VdS “sui dati misurati attuali” si avrebbe, rilevava sempre l’Arpa, la “descrizione di un quadro sanitario compromesso e un esito del rapporto Vds rassicurante e comunque in nessun modo indicativo dell’efficacia delle prescrizioni AIA”.
Il ministero della Salute rigettò però sin da subito quest’impostazione, affermando che proprio l’analisi dei dati misurati permette di vedere cosa stanno determinando, in termini di impatto sulla popolazione, l’attuazione delle prescrizioni AIA nell’Ilva. Il tutto fu “documentato” il 9 dicembre 2013 con una nota di tre pagine firmata dal direttore generale del ministero della Salute, Giuseppe Ruocco (inviata anche al ministero dell’Ambiente, all’Istituto Superiore di Sanità e all’ASL di Taranto), in cui si contestava la valutazione di ARPA secondo cui effettuata oggi, la Valutazione del danno sanitario, “si avrebbe un quadro critico che poi diventa migliore ad AIA attuata. Considerando la latenza di alcune patologie – affermava Ruocco – un quadro sanitario compromesso è certamente in relazione con la contaminazione pregressa che lo ha generato, ma non necessariamente incompatibile con un ambiente ormai risanato”.
Già nell’agosto del 2013 entrammo nel merito del decreto interministeriale e ponemmo alcune domande rimaste del tutto inevase e che hanno finito per perdersi nel tempo. Perché, ad esempio, si scelse di separare l’epidemiologia dalla valutazione del rischio, visto che proprio l’epidemiologia è la disciplina utilizzata per la misura dello stesso? La separazione tra la valutazione di cosa è successo fino adesso e la previsione di cosa può succedere in futuro, è di fatto incomprensibile. Inoltre, il decreto prevedeva due procedure indipendenti senza prevedere che le stesse interagissero tra loro.
Come spiega sin troppo bene la letteratura scientifica ancora oggi, senza una buona epidemiologia non ci può essere una valida misura del rischio, e viceversa senza quest’ultima sarà difficile se non impossibile la gestione del rischio stesso. Inoltre, in merito all’esposizione degli inquinanti, ultimamente nella letteratura scientifica, a fronte dell’approccio valutativo per singolo inquinante, si sta facendo sempre più strada un approccio basato sulla misurazione della dose interna assorbita di più inquinanti. La possibilità di esaminare l’impatto sanitario di una singola sostanza, viene anche nel decreto Balduzzi-Clini vincolata al superamento o meno dei valori di riferimento di legge. In altre parole, se la sostanza tossica in questione non supera, sulla base dei dati ambientali disponibili, i valori stabiliti per legge la valutazione non viene eseguita.
Il risultato è una sottostima del rischio sanitario: perché da una parte “i valori di riferimento per le sostanze tossiche sono in continua rivalutazione, dall’altra l’esposizione di quote grandi di popolazione a livelli anche molto bassi può comportare effetti sanitari importanti, e, in aggiunta, gruppi più suscettibili possono essere vulnerabili a livelli anche molto inferiori alle soglie”. Inoltre non possono essere trascurati gli effetti sinergici tra varie sostanze. Dunque, la “censura” significa ignorare tali possibili impatti. La separazione non è quindi scientificamente giustificata. Né è chiaro cosa accadrebbe in caso di esito negativo per la salute della popolazione.
Dunque, come si può facilmente evincere, nulla è cambiato in questi ultimi anni. E difficilmente cambierà. Ma alla stragrande maggioranza delle persone che ancora oggi poco o nulla si interessano di queste cose, fa da contraltare una politica culturalmente e umanamente del tutto inadeguata per gestire una vicenda del genere, ed una società civile troppo presa dalle sue polemiche virtuali e dal suo “troppo piacersi”, per nulla interessata a costruire dal basso una presa di coscienza civile collettiva che possa interessare e soprattutto parlare ed essere accessibile a tutti. Si è troppo “naif” e “radical chic” per abbassarsi al livello della gente comune. Che poi altro non è che il popolo. Ovvero la stragrande maggioranza delle persone. “Pensa da uomo saggio ma comunica nel linguaggio del popolo” (William Butler Yeats, Dublino, 13 giugno 1865 – Roquebrune-Cap-Martin, 28 gennaio 1939).
Gianmario Leone (TarantoOggi, 08.01.2015)

In Italia chi inquina non paga. Varato il settimo decreto Salva Ilva

Il governo ha sfornato poco prima di Natale il settimo decreto Salva Ilva, con il buon proposito di risanare gli impianti grazie ad un intervento pubblico, per poi rimetterli sul mercato quando saranno competitivi.
Ma sembra proprio l’ennesimo favore all’azienda, che non paga di fatto per i danni ambientali generati ma viene anzi sostenuta dallo Stato. Proprio per dimostrare che in Italia “chi inquina non paga” arriva anche un dossier dei Verdi.

IL SETTIMO DECRETO – Il settimo decreto salva Ilva è stato approvato dal Consiglio dei Ministri alla vigilia di Natale, annunciato dal premier Matteo Renzi in una conferenza stampa. Il governo vuole modificare la legge Marzano per passare all’amministrazione straordinaria del gruppo Ilva.
Entrerà in gioco la mano pubblica, attraverso Fintecna e Cassa depositi e prestiti, una gestione “provvisoria”, destinata a risanare l’azienda per poi rivenderla a prezzo di mercato. In teoria e secondo gli annunci, sarebbe una mossa che tiene conto in primis della tutela della salute e dell’ambiente, ma che per esponenti del mondo green come i Verdi e il loro leader Angelo Bonelli è invece l’ennesimo tentativo di aggirare le decisioni dei magistrati e le inchieste sui danni perpetrati dall’Ilva.
“Il decreto introduceva un vero e proprio condono ambientale non fornendo garanzie sulle tutele sanitarie, ambientali ,occupazionali e prevedendo anche l’immunità penale per il commissario straordinario Ilva”, Ilva, Riva assolti per morte di cancro. Nuovo decreto in arrivo.
Ad esempio, l’art.2 comma 5 prevede che il piano ambientale per gli impianti s’intenda attuato se l’80% delle prescrizioni in scadenza al 31 luglio 2015 saranno realizzate. Ma quel 20% sono le prescrizioni più onerose, come la copertura del parco minerali, gli interventi su agglomerato, cokerie e altiforni, che valgono da sole quasi un miliardo di euro.
Inoltre, nessun riferimento all’avvio di una procedura del danno ambientale contro i Riva e i soci Ilva, che consenta di sequestrare i patrimoni per l’equivalente del danno ambientale procurato per finanziare la realizzazione delle bonifiche.
NUOVO DOSSIER – Gli stessi Verdi hanno realizzato un dossier che prende in esame non solo l’Ilva ma anche la Caffaro di Brescia, la Eternit di Casale Monferrato, il petrolchimico di Agusta in Sicilia, l'ex Stoppani di Cogoleto (Ge), che mai hanno risarcito in termini economici cittadini e territori devastati dai danni ambientali che hanno creato negli anni.
Il dossier ruota attorno al principio “chi inquina paga”, che però in Italia non viene rispettato nemmeno quando ci ritroviamo di fronte a ricoveri in ospedale o a costi ambientali da sostenere, in primis quelli relativi alle bonifiche. Peraltro il principio è quello sancito dalla direttiva europea 35 del 2004. Bonelli calcola che tra il 2004 e il 2013 i danni non risarciti ammontano a 220 miliardi di euro.
E purtroppo spesso si sono sommati alla beffa della prescrizione penale, basti pensare al caso Eternit. In altri casi, proprio come per l’Ilva, invece, l’azienda continua a produrre e ad inquinare. Tutto questo mentre i tribunali, appunto, si ritrovavano di fronte ad un milione e 552 mila prescrizioni, 80 mila per reati ambientali.
L’ITALIA DELL’INQUINAMENTO - 7.300 km quadrati sono da bonificare, il 2,4% dell’Italia, che sembra poco ma riguarda 300 comuni, 7 milioni di persone, oltre a 33 mila siti inquinati, 39 di interesse nazionale. I costi di bonifica per ettaro sono compresi tra i 450 mila e 1 milione di euro.
Dal 2002 al 2013 sono stati spesi 4 miliardi di euro, di cui 2,3 di stato. Il danno ambientale generato nel Sin di Taranto è stimato dai custodi giudiziari della Procura della Repubblica in 8,5 miliardi. Secondo l’Istituto superiore di sanità sono 10 mila i casi di mortalità in eccesso in 44 siti di interesse nazionale, che oggi sono solo 39.
La bonifica del sito di Augusta-Priolo e Gela salverebbe 47 persone ogni anno e si tradurrebbe in un risparmio di 10 miliardi in 30 anni. Il ministero dell'Ambiente ha per le bonifiche (dato 2013) 1 milione di euro. Fanno la differenza i privati, finora sono arrivati 540 milioni e l'Eni ha in corso una trattativa con il ministero stesso dell'Ambiente per chiudere 9 contenziosi aperti per la bonifica di altrettanti siti.

Legambiente sul decreto per Ilva e per Taranto: Non ci siamo. Vogliamo impegni certi su tempi e risorse

Ciò che colpisce immediatamente, nel testo del nuovo decreto ILVA, è il duplice colpo inferto alle tempistiche stabilite per l'attuazione del Piano Ambientale ILVA e, quindi, dei provvedimenti previsti dall'A.I.A. che, è bene ricordarlo, erano già stati oggetto di precedenti proroghe rispetto alle scadenze originariamente fissate.
Il decreto di adozione del Piano Ambientale, del marzo 2014, infatti, già presentava un preoccupante quadro di incertezze nei tempi di attuazione e stabiliva che entro il 31 luglio del 2015 dovesse essere attuato almeno l'80% delle prescrizioni; veniva poi affidato al Commissario il compito di precisare con il Piano Industriale le tempistiche di una serie di interventi disegnando uno scenario in cui la scadenza dell'agosto 2016 per l'ultimazione degli interventi appariva già aleatoria.

Nel nuovo decreto si stabilisce invece che il Piano si intende attuato se entro il 31 luglio 2015 sono realizzate, almeno nella misura dell'80 per cento, le prescrizioni in scadenza a quella data. Al di là del dato "quantitativo" che già contiene una riduzione del 20%, pari a un quinto del totale, colpisce l'assoluta assenza di elementi di valutazione "qualitativi" e, considerata la crisi delle finanze aziendali, la presumibile esclusione degli interventi più onerosi e, quindi, rilevanti.

Ma il secondo colpo è, se possibile, peggiore del primo. Nel decreto si indica infatti che il termine ultimo per l'attuazione di tutte le altre prescrizioni sarà stabilito con apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne consegue che non viene più reso esplicito il termine ultimo di attuazione degli interventi previsti dall'AIA: tra questi interventi è inclusa la copertura dei parchi primari dell'Ilva, un'opera che i tarantini aspettano da sempre, tenacemente avversata dai Riva, autentica cartina di tornasole della effettiva volontà e possibilità di risanare da un punto di vista ambientale l'azienda e il cui ulteriore rinvio suonerebbe come un'autentica beffa.

Noi chiediamo da subito che, in sede di conversione, venga introdotta nel testo del decreto una esplicita indicazione dei tempi di ultimazione del Piano Ambientale ILVA che, perlomeno, ripristini le precedenti scadenze (già differite rispetto alle originarie): in caso contrario la divaricazione tra esigenze produttive e rischi per la salute sarebbe lacerante rendendo poco credibili gli impegni assunti dallo Stato nei confronti di Taranto.

Gli impegni per lo sviluppo della città e dell'area di Taranto costituiscono la seconda parte del decreto e ne rappresentano la significativa novità rispetto ai precedenti, di fatto centrati esclusivamente sullo stabilimento siderurgico.
Di assoluto rilievo è la assunzione di responsabilità da parte dello Stato che, pur nella indeterminatezza delle disponibilità finanziarie, segna -almeno nelle intenzioni espresse- una svolta stabilendo "la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni per l'attuazione di interventi di bonifica, nonché di riqualificazione e rilancio della città e dell'area di Taranto, anche mediante la realizzazione di progetti infrastrutturali e di valorizzazione culturale e turistica".

Se appaiono condivisibili l'unificazione dei diversi tavoli tecnici in un unico tavolo istituzionale presieduto da un rappresentante della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la fissazione di procedure di silenzio-assenso capaci di incidere sui tempi di rilascio di pareri e autorizzazioni, a partire da quelle relative agli interventi infrastrutturali necessari per l'adeguamento e l'ampliamento del porto di Taranto, è evidente che il giudizio di merito attiene la qualità degli interventi che verranno proposti sia dal Commissario straordinario per la bonifica per il Programma di misure per la bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione dell'intera area di Taranto, che dal Comune di Taranto per il recupero, riqualificazione e valorizzazione della città vecchia, che dai Ministeri della Difesa e dei Beni e delle attività culturali e del turismo per la valorizzazione culturale e turistica dell'Arsenale.
A tale proposito, a nostro avviso, è in primo luogo necessario che ognuno dei soggetti coinvolti coniughi la necessaria urgenza nel proporre alla altrettanto necessaria condivisione e partecipazione dei cittadini di Taranto alle scelte.

Sia per l'Ilva che per Taranto, in ogni caso, il vero nodo resta quello – al di là delle parole – delle risorse che effettivamente verranno rese disponibili ed impegnate per il risanamento e rilancio sia della città che della fabbrica. In questo senso il decreto aggiunge pochi elementi definiti al già preventivato utilizzo per l'attuazione del Piano Ambientale Ilva delle risorse sequestrate dalla magistratura milanese (sulla cui effettiva disponibilità pende l'esito del ricorso della famiglia Riva) e alle somme già stanziate per il porto e per la bonifica dei Tamburi e del mar Piccolo. Non solo: non vi è traccia né di risorse finanziarie aggiuntive per le strutture sanitarie tarantine né di deroghe alle assunzioni per ARPA Puglia a Taranto..

I riferimenti ad ulteriori risorse assegnate dal CIPE o, per Ilva, ad altre eventuali risorse, rimandano infatti ad atti futuri che spetterà alla comunità tarantina sollecitare o, meglio, esigere in nome di quella "straordinaria necessità e urgenza" che oggi viene finalmente riconosciuta e che da anni, come associazione, rivendichiamo

Il testo del decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 5.01.215 è disponibile a cliccando qui

(legambiente) 

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