lunedì 16 novembre 2015

Un parere tecnico

Il futuro dell’Ilva non è solo nell’uso del preridotto

Sulle vicende dell’Ilva ma soprattutto su come quest’industria potrà riorganizzarsi e riposizionarsi, pubblichiamo, da oggi, una serie di approfondimenti di Biagio De Marzo, ingegnere e per diversi anni dirigente dell’Italsider pubblica.

«Restituite a Taranto l’industria dell’acciaio». Su «Il Sole 24 Ore» dell’11 agosto 2015 è stato pubblicato l’articolo, con questo titolo, di Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della commissione Industria del Senato, già vice direttore del «Corriere della Sera». Mucchetti riassume le vicende degli ultimi anni dell’Ilva di Taranto e ne delinea la propria visione di futuro centrata sull’impiego totale del preridotto e dello shale gas al posto del carbon coke e dell’agglomerato, la cui produzione costituisce la principale fonte dell’inquinamento industriale a Taranto. Tale ipotesi è riapparsa qualche giorno fa nel dibattito locale con qualche forzatura e parecchia approssimazione. Noi dissentiamo da tale ipotesi attraverso obiezioni ai punti salienti dell’articolo del senatore Mucchetti, ben più attrezzato degli improvvisati esperti locali.
Salvataggio del siderurgico. Il commissariamento dell’Ilva deve portare al salvataggio del centro siderurgico di Taranto nel rispetto dei vincoli ambientali; il fallimento dell’azienda avrebbe gravi conseguenze sociali ed economiche. Obiezione: vanno rispettati per primi i vincoli sanitari: dalla loro inosservanza è scaturito «Ambiente svenduto» con il seguito delle ingiunzioni giudiziarie.
Pareggio operativo. L’Ilva raggiunge il pareggio operativo con una produzione giornaliera di 21.500 tonnellate. Obiezione: ciò vale nell’attuale assetto di ciclo siderurgico integrale, fatto di impianti «dimezzabili» (parchi primari e preparazione, 10 cokerie, 2 agglomerati, 4 altoforni, 2 acciaierie, 2 treni nastri, e così via, per quello sciagurato «raddoppio» degli anni ’70). Questo per significare che il pareggio operativo potrebbe essere raggiunto con una produzione giornaliera corrispondente a un diverso assetto del ciclo siderurgico integrale, che, però, assicuri anche un rischio sanitario accettabile.
Cade Bondi ma le perdite aumentano. A metà 2014, con l’Ilva che perdeva 35 milioni al mese, si decise di «cambiare passo» lasciando cadere il piano industriale dell’allora commissario Bondi, sostituito da Gnudi. Nella seconda metà del 2014 si registrò un aumento dei debiti tale da rendere inevitabile il ricorso all’amministrazione straordinaria. Da agosto 2015 l’azienda, spento per fine campagna l’altoforno principale Afo 5 e riattivato l’Afo 1, marcia con tre altoforni (1, 2 e 4) con una produzione giornaliera parecchio inferiore a quella del pareggio operativo con conseguenti significative perdite.
Utilizzo del preridotto. In attesa della ripartenza di Afo 5, per fermare l’emorragia e aumentare la produttività degli impianti attivi senza aggravare l’impatto ambientale, viene ipotizzato, sulla base di «sentito dire» un massiccio utilizzo del preridotto. «Quando a Taranto si potrà arrivare all’utilizzo del solo preridotto con soli forni elettrici, a parità di produttività gli idrocarburi aromatici spariranno del tutto dalle emissioni, le polveri sottili scenderanno al 5% dei livelli attuali e la CO2 sarà un terzo di quella attuale». Obiezione: è sconcertante che su una situazione così complessa e grave si formulino o si sostengano soluzioni sulla base di «sentito dire». Per un impianto di dimensioni eccezionali come l’Ilva di Taranto, occorre consultare non eccellenti personaggi privi di esperienza operativa e manageriale ma i migliori siderurgici del mondo come i giapponesi o i sud coreani. In particolare, la Nippon Steel & Sumitomo Metal Corporation, che non è interessata al mercato europeo dell'acciaio, negli anni ’80 è già stata a Taranto a fianco dell’allora Italsider e tutti ne fummo arricchiti professionalmente.
Il preridotto nelle acciaierie del Nord. Il piano industriale di Bondi, centrato sull’innovazione del preridotto, era stato contrastato da Federacciai, che lo bollò ex cathedra come non sostenibile sul piano economico. «Oggi guardano al preridotto alcune delle maggiori acciaierie del Nord per contrastare, con quella innovazione, la scarsità e la crescente onerosità del rottame, la loro materia prima». Obiezione: le maggiori acciaierie del Nord che guardano al preridotto sono tutte acciaierie elettriche, cioè con impiantistica, processi, logistica e mercato completamente diversi da quelli dell’Ilva di Taranto, per non parlare della enorme differenza nelle dimensioni e nella produzione annua.
Un processo produttivo più snello e flessibile. «L’Ilva dovrebbe guardare all’innovazione del preridotto non solo per obiettivi congiunturali, ma anche per avere un processo produttivo più snello e flessibile, non più basato solo sul carbone». L’Ilva del 2015 produce gli stessi acciai dell’Ilva pubblica degli anni ‘90, mentre i concorrenti europei hanno sviluppato nuove categorie e specialità di acciaio che hanno conquistato i mercati. Obiezione: l’innovazione del preridotto nella siderurgia integrale è alle prime armi e viene impiegata a piccole dosi. Nel mondo non c’è nessuno stabilimento siderurgico a ciclo integrale che impiega più del 4% di preridotto. Si è molto lontani, inoltre, dal poter fare a meno della trasformazione del carbon fossile in coke e dell’agglomerato. Come si è molto lontani dal poter sostituire convenientemente i gas di cokeria e di altoforno nelle monumentali centrali elettriche che alimentano l’intero stabilimento. In più, si precisa che la qualità dell’acciaio si migliora operando sui processi in acciaieria, ferma restando la qualità della ghisa prodotta con coke e agglomerato.
Rapporto con città e Magistratura. «Lo sviluppo di nuovi prodotti e l’incremento di produttività degli impianti possono realizzarsi solo se gli operatori si troveranno senza incombenze e pressioni di natura ecologica, che deconcentrano i gestori e compromettono la produttività». «La Magistratura di Taranto ha commesso anche errori materiali e giuridici clamorosi come è emerso nei lavori della commissione Industria del Senato, oltre che in Cassazione, ma resta un interlocutore stimabile e utile alla società, in ogni caso decisivo». Il rapporto con la città, e pure con la Magistratura, deve migliorare e questo potrà avvenire se sarà di tutta evidenza l’impegno dell’azienda ad affrontare la sorgente di gran parte dei pericoli ambientali che ne frenano l’attività. Obiezione: il nuovo vertice aziendale ancora non è riuscito a scalfire la muraglia cittadina di diffidenza e ostilità verso lo stabilimento che si è creata negli anni.
Metamorfosi con preridotto e shale gas. La maggiore sorgente di pericolo è il carbon fossile e la sua trasformazione in coke; l’Ilva deve gestire a ridosso della città 10 grandi cokerie. È prevedibile che sorgano altri conflitti senza un progetto di graduale superamento del carbone. Per questo, per l’Ilva di Taranto si ipotizza una «metamorfosi» impiantistica e tecnologica del ciclo siderurgico, basata sull’uso del preridotto e «favorita dal basso costo del gas naturale e dalla rimozione delle sanzioni all’Iran associata allo sfruttamento dello shale gas». Tale «metamorfosi nel 2030 potrebbe portare l’Ilva a liberarsi dal carbon fossile con il duplice effetto di riportare la pace in città e di mettere in scacco i concorrenti europei». «Svedesi e norvegesi hanno programmato la produzione di acciaio con solo preridotto entro il 2018, mettendo in sofferenza un’Ilva tradizionale». L’Italia avrebbe grandissimi vantaggi se riuscisse ad intestare in Europa
come innovazione la «metamorfosi di Ilva con solo preridotto». Essa produrrebbe: lo stop a francesi e tedeschi contrari al salvataggio di Ilva per aiuti di Stato; il riprendere la partita dei finanziamenti Bei a Ilva; una grande partita industriale per il Paese. «In ogni caso, se non si fa ripartire l’Ilva con un processo produttivo semplificato e più compatibile con l’ambiente, l’intero Mezzogiorno resterà al palo. Con un effetto negativo sensibile pure sulla bilancia commerciale dell’intero Paese». Obiezione: alla luce delle ragioni già dette, riteniamo semplicistica, oltre che scarsa di ipotesi impiantistiche, l’indicazione della «metamorfosi» che nel 2030 potrebbe portare l’Ilva a liberarsi dal carbon fossile con il duplice effetto di riportare la pace in città e di mettere in scacco i concorrenti europei. Una concreta e realistica risposta ai must del rapporto con Magistratura e città e della riduzione del benzoapirene dovrà essere formulata tenendo conto di tanti aspetti importanti e determinanti ignorati o sottovalutati non solo da Mucchetti. Condividiamo l’auspicio di Mucchetti per il «ruolo che potrebbe assumere l’Italia in Europa ove si intestasse la battaglia dell’innovazione per l’Ilva», ma sarebbe sbagliato avviare tale battaglia all’insegna della «metamorfosi con preridotto totale».
Ing. Biagio De Marzo - GdM

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