I dolori di Taranto dove anche il calcio è mafia
Quando hanno scarcerato don Cataldo Ricciardi, qui hanno fatto i botti. A un pugno di chilometri da dove è stato ammazzato Mimmo, tre anni, in braccio al suo patrigno malacarne. Alla faccia dei cortei di don Ciotti e dei proclami antimafia sui giornali. Sparano spesso i mortaretti, quaggiù, dai Due Mari fino al Salento profondo, per festeggiare ogni scarcerazione di boss, e nei prossimi dodici mesi molti mammasantissima della Sacra Corona Unita usciranno di galera. «Io la chiamo la stagione dei fuochi», mastica amaro nel suo ufficio leccese di procuratore antimafia Cataldo Motta, bestia nera degli uomini del disonore pugliesi: «La mafia qui guadagna consenso, la gente sta con lei. Falcone su questo sbagliava: non è finita, anzi. Dà lavoro e controlla persino le squadre di calcio».L’Ilva ha invece smesso di proiettare nel golfo i sinistri bagliori di altri fuochi, quelli dei gas in eccesso bruciati nelle torce, le fiammate che quattro anni fa attirarono l’attenzione dei carabinieri del Noe, dal cui rapporto nacque il clamoroso sequestro del luglio 2012 voluto da Franco Sebastio, un altro procuratore, pure lui una bestia nera, però dei Riva e degli inquinatori. La gestione commissariale - con in prima fila un ecologista come Edo Ronchi - piuttosto che tornare alle famigerate fiammate ha fermato a turno gli altiforni quando, giorni fa, s’è guastata la centrale elettrica dell’acciaieria: «Cautela ambientale». Qui, mentre incombe il processo ai Riva e ai loro solerti estimatori sparsi nella politica, nel giornalismo, nel sindacato e perfino nella Chiesa (il 19 giugno un’udienza preliminare con 53 indagati si terrà nella palestra dei pompieri), la nuova parola magica è un neologismo: ambientalizzazione. L’idea sarebbe di salvare il lavoro senza condannare a morire di cancro i lavoratori e i cittadini. Ma, appunto, è una parola.
«AMBIENTALIZZAZIONE» - Il
cancerogeno benzopirene nel rione Tamburi è sceso di dieci volte. Ma
Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa, scuote la testa: «Quelli hanno
spento sei o sette cokerie su dieci. Quando però nel 2016
l’autorizzazione integrata ambientale, la famosa Aia, sarà pienamente
realizzata, le cokerie torneranno a funzionare e abbiamo già proiezioni
secondo cui il danno non sarà accettabile. Certo ora è tutto a posto. Ma
è come vedere uno che si butta dal sesto piano e finché non si
sfracella dirgli che sta in perfetta salute». L’ambientalizzazione?
«Servono tre miliardi. Però i soldi non si trovano. Quindi le cose non
andranno bene, ma non lo scriva». Di miliardi Sebastio e la gip Todisco
ne avevano in verità individuati otto: soldi che secondo l’accusa il
gruppo Riva avrebbe negli anni sottratto all’ammodernamento e alla
sicurezza dell’acciaieria, in sostanza ai tarantini e al loro futuro.
Tuttavia il clamoroso sequestro è stato annullato in Cassazione, quindi
quelle della magistratura tarantina vanno ritenute congetture.
FERRARI BLINDATA -
Nel vuoto di potere tutto può succedere. Tonio Attino ricorda in un bel
libro come negli anni Ottanta il boss Modeo, subappalti in tasca,
sfrecciasse nelle strade della fabbrica, allora Italsider, sulla sua
Ferrari blindata. «Erano gli anni in cui mandavano noi poveracci a
interrare amianto nelle discariche interne», ci dice Vito Barletta,
malato di tumore del sangue. E, per anni, troppi giornalisti si sono
occupati d’altro, come se non fossero visibili i fumi, le polveri, i
reparti di oncologia troppo pieni, i morti in fabbrica. In una città di
duecentomila abitanti, ci sono ben cinque quotidiani e una miriade di tv
locali. «Chiediti perché», ci dice, sorridendo, Bardinella. Una delle
tv, Blustar, ha giustificato, nero su bianco, gli esuberi di personale
anche con la perdita di introiti pubblicitari «derivanti dal cliente
Ilva». Dal dissesto - 900 milioni della sindaca Di Bello, nel 2006 - al
disastro. Da Vendola in giù, la nuova classe politica è stata sfregiata
dalle scandalose intercettazioni con Girolamo Archinà, boss delle
pubbliche relazioni Ilva. «Ma anche se il 19 giugno mi rinviano a
giudizio, non mi dimetto», tuona il sindaco Ippazio Stefàno. Sospettato
di arrendevolezza con Archinà, nega: «Sono quello che gli ha fatto
pagare l’Ici che manco pagavano, altro che arrendevole!».
CENTRALE DI SPACCIO - Stefàno
torna da Roma giurando di avere incassato il sì del governo a
trasformare Taranto in città d’arte, ma per ora pare uno slogan.
«Dobbiamo prepararci a non avere più l’Ilva, lo spettro è Bagnoli».
Mentre parla, due edifici storici di città vecchia appena restaurati -
palazzo Amati e palazzo Delli Ponti - recano i segni di recenti
saccheggi: si sono portati via pure gli impianti di aria condizionata,
come cavallette. Taranto vecchia potrebbe essere l’eldorado dei turisti,
è ridotta a centrale di spaccio, chi cerca un covo rompe un lucchetto e
occupa. Comandano i Taurino, secondo la Dda, persino sul commercio
delle cozze. In periferia, i Ciaccia e i Catapano. Vecchi ed emergenti
si scontrano, il piccolo Mimmo e la sua famiglia muoiono forse perché
mafiosi di Massafra vogliono pigliarsi Palagiano, dove c’era il
quartiere Italsider. Il nonno di Mimmo era un operaio comunista e veniva
orgoglioso da Cerignola, come Di Vittorio. Il padre era già un
trafficante di droga e perciò fu ucciso. Mimmo, tre anni, non ha potuto
scegliere. «Ma la storia della sua famiglia racchiude la caduta della
classe operaia, non più argine contro la mafia», sospira Tito Anzolin,
preside della scuola dove Mimmo non ha fatto in tempo ad arrivare. A
Taranto vecchia, il Duomo consacrato al patrono San Cataldo è assediato
da palazzi e uomini sgarrupati. Pina Gubitosa, 89 anni, fa la guida per
arrotondare la pensione. San Cataldo era irlandese: si dice che i
tarantini, in odio a se stessi, amino i forestieri. «Gesù gli apparve e
gli comandò: corri a Taranto ché quelli stanno tornando al paganesimo»,
spiega Pina. E si stringe nel cappottino antico, circondata dai nuovi
pagani. (G. Buccini - CdS)
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