lunedì 14 aprile 2014

Sfacelo che fa cronaca

I dolori di Taranto dove anche il calcio è mafia

Quando hanno scarcerato don Cataldo Ricciardi, qui hanno fatto i botti. A un pugno di chilometri da dove è stato ammazzato Mimmo, tre anni, in braccio al suo patrigno malacarne. Alla faccia dei cortei di don Ciotti e dei proclami antimafia sui giornali. Sparano spesso i mortaretti, quaggiù, dai Due Mari fino al Salento profondo, per festeggiare ogni scarcerazione di boss, e nei prossimi dodici mesi molti mammasantissima della Sacra Corona Unita usciranno di galera. «Io la chiamo la stagione dei fuochi», mastica amaro nel suo ufficio leccese di procuratore antimafia Cataldo Motta, bestia nera degli uomini del disonore pugliesi: «La mafia qui guadagna consenso, la gente sta con lei. Falcone su questo sbagliava: non è finita, anzi. Dà lavoro e controlla persino le squadre di calcio».
L’Ilva ha invece smesso di proiettare nel golfo i sinistri bagliori di altri fuochi, quelli dei gas in eccesso bruciati nelle torce, le fiammate che quattro anni fa attirarono l’attenzione dei carabinieri del Noe, dal cui rapporto nacque il clamoroso sequestro del luglio 2012 voluto da Franco Sebastio, un altro procuratore, pure lui una bestia nera, però dei Riva e degli inquinatori. La gestione commissariale - con in prima fila un ecologista come Edo Ronchi - piuttosto che tornare alle famigerate fiammate ha fermato a turno gli altiforni quando, giorni fa, s’è guastata la centrale elettrica dell’acciaieria: «Cautela ambientale». Qui, mentre incombe il processo ai Riva e ai loro solerti estimatori sparsi nella politica, nel giornalismo, nel sindacato e perfino nella Chiesa (il 19 giugno un’udienza preliminare con 53 indagati si terrà nella palestra dei pompieri), la nuova parola magica è un neologismo: ambientalizzazione. L’idea sarebbe di salvare il lavoro senza condannare a morire di cancro i lavoratori e i cittadini. Ma, appunto, è una parola. 
«AMBIENTALIZZAZIONE» - Il cancerogeno benzopirene nel rione Tamburi è sceso di dieci volte. Ma Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa, scuote la testa: «Quelli hanno spento sei o sette cokerie su dieci. Quando però nel 2016 l’autorizzazione integrata ambientale, la famosa Aia, sarà pienamente realizzata, le cokerie torneranno a funzionare e abbiamo già proiezioni secondo cui il danno non sarà accettabile. Certo ora è tutto a posto. Ma è come vedere uno che si butta dal sesto piano e finché non si sfracella dirgli che sta in perfetta salute». L’ambientalizzazione? «Servono tre miliardi. Però i soldi non si trovano. Quindi le cose non andranno bene, ma non lo scriva». Di miliardi Sebastio e la gip Todisco ne avevano in verità individuati otto: soldi che secondo l’accusa il gruppo Riva avrebbe negli anni sottratto all’ammodernamento e alla sicurezza dell’acciaieria, in sostanza ai tarantini e al loro futuro. Tuttavia il clamoroso sequestro è stato annullato in Cassazione, quindi quelle della magistratura tarantina vanno ritenute congetture.
FESTE MAFIOSE - Non è però una congettura la scarsità di quattrini. Nella sua relazione di fine 2013, il commissario Enrico Bondi dà conto di una produzione ridotta di due milioni di tonnellate e di una perdita del 30 per cento nei ricavi lordi rispetto al 2012. Servono, spiega il commissario, «percorsi finalizzati alla ricostituzione del corretto equilibrio finanziario». Servirebbero, subito, 500 milioni di prestito ponte. La sensazione è che l’equilibrio vada cercato necessariamente in basso. Con esuberi e disoccupazione. I fuochi dell’acciaieria sembrano destinati ad affievolirsi quanto quelli delle feste mafiose a brillare sempre più. A Taranto e nelle terre del Salento che gravano sul vecchio polo produttivo, quelle dove Tobagi scoprì col sociologo Aurora i metalmezzadri degli anni Settanta, la crisi italiana assume una declinazione particolare. L’Ilva, illusione di benessere perenne, ha risucchiato valori e vite. «Fino ai sequestri di luglio 2012, era una caserma. Riva comandava coi suoi, tutti ubbidivano», racconta Francesco Bardinella, Fiom: «Ora nei reparti ci sono tanti piccoli focolai da non sottovalutare, smarrimento e rivolta. Bondi è uno tosto, ha allontanato quasi tutta la struttura ombra dei Riva. Molti responsabili dei reparti erano legati a loro...».
FERRARI BLINDATA - Nel vuoto di potere tutto può succedere. Tonio Attino ricorda in un bel libro come negli anni Ottanta il boss Modeo, subappalti in tasca, sfrecciasse nelle strade della fabbrica, allora Italsider, sulla sua Ferrari blindata. «Erano gli anni in cui mandavano noi poveracci a interrare amianto nelle discariche interne», ci dice Vito Barletta, malato di tumore del sangue. E, per anni, troppi giornalisti si sono occupati d’altro, come se non fossero visibili i fumi, le polveri, i reparti di oncologia troppo pieni, i morti in fabbrica. In una città di duecentomila abitanti, ci sono ben cinque quotidiani e una miriade di tv locali. «Chiediti perché», ci dice, sorridendo, Bardinella. Una delle tv, Blustar, ha giustificato, nero su bianco, gli esuberi di personale anche con la perdita di introiti pubblicitari «derivanti dal cliente Ilva». Dal dissesto - 900 milioni della sindaca Di Bello, nel 2006 - al disastro. Da Vendola in giù, la nuova classe politica è stata sfregiata dalle scandalose intercettazioni con Girolamo Archinà, boss delle pubbliche relazioni Ilva. «Ma anche se il 19 giugno mi rinviano a giudizio, non mi dimetto», tuona il sindaco Ippazio Stefàno. Sospettato di arrendevolezza con Archinà, nega: «Sono quello che gli ha fatto pagare l’Ici che manco pagavano, altro che arrendevole!».
CENTRALE DI SPACCIO - Stefàno torna da Roma giurando di avere incassato il sì del governo a trasformare Taranto in città d’arte, ma per ora pare uno slogan. «Dobbiamo prepararci a non avere più l’Ilva, lo spettro è Bagnoli». Mentre parla, due edifici storici di città vecchia appena restaurati - palazzo Amati e palazzo Delli Ponti - recano i segni di recenti saccheggi: si sono portati via pure gli impianti di aria condizionata, come cavallette. Taranto vecchia potrebbe essere l’eldorado dei turisti, è ridotta a centrale di spaccio, chi cerca un covo rompe un lucchetto e occupa. Comandano i Taurino, secondo la Dda, persino sul commercio delle cozze. In periferia, i Ciaccia e i Catapano. Vecchi ed emergenti si scontrano, il piccolo Mimmo e la sua famiglia muoiono forse perché mafiosi di Massafra vogliono pigliarsi Palagiano, dove c’era il quartiere Italsider. Il nonno di Mimmo era un operaio comunista e veniva orgoglioso da Cerignola, come Di Vittorio. Il padre era già un trafficante di droga e perciò fu ucciso. Mimmo, tre anni, non ha potuto scegliere. «Ma la storia della sua famiglia racchiude la caduta della classe operaia, non più argine contro la mafia», sospira Tito Anzolin, preside della scuola dove Mimmo non ha fatto in tempo ad arrivare. A Taranto vecchia, il Duomo consacrato al patrono San Cataldo è assediato da palazzi e uomini sgarrupati. Pina Gubitosa, 89 anni, fa la guida per arrotondare la pensione. San Cataldo era irlandese: si dice che i tarantini, in odio a se stessi, amino i forestieri. «Gesù gli apparve e gli comandò: corri a Taranto ché quelli stanno tornando al paganesimo», spiega Pina. E si stringe nel cappottino antico, circondata dai nuovi pagani. (G. Buccini - CdS)

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