L'Ilva e la paura di Taranto:
i soldi non bastano
Dentro un pensionato Ilva sorseggia un caffè circondato da foto e bandiere del Taranto Calcio, che domenica 12 aprile ha battuto il Potenza nella
sfida al vertice del campionato di serie D. Fuori, in cortile, tre
giovani si affaccendano intorno al generatore che servirà per dare
energia alle casse del
Primo Maggio, il mega-evento che
dal 2013 raduna decine di migliaia di persone nel parco archeologico di
Taranto. Il concertone - che quest’anno vedrà sul palco per la prima
volta i Marlene Kuntz e Nina Zilli - è organizzato dal Ccllp, il
“Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” della città jonica,
che con i supporter della squadra rossoblù condivide i locali di un
edificio nel quartiere Solito-Corvisea. Il Ccllp è la più nota delle
associazioni locali schierate sul fronte anti-Ilva. E il suo portavoce,
Cataldo Ranieri,
operaio della fabbrica, riassume così il pensiero dei compagni: «Se
cade Taranto cade l’Italia. Questa città s’è immolata per la nazione e
ha ricevuto zero».
L’Ilva e il suo indotto valevano, quando l’impianto siderurgico marciava a regime, il 70 per cento del Pil provinciale.
La fabbrica ha segnato la storia della città e seguita a farlo, anche
se gli oltre 20 mila addetti del 1980 sono scesi sotto le 12 mila unità.
L’Ilva è la più rischiosa delle scommesse di
Matteo Renzi:
il premier ha promesso che la farà ripartire e che il Mezzogiorno non
perderà uno dei suoi ultimi baluardi industriali. Ma il futuro è appeso a
un filo.
Come a Taranto sanno benissimo: essere dipendenti Ilva - traguardo
ambito da quasi tutti, per lunghi anni - non basta nemmeno per farsi
concedere un piccolo prestito. Alessio, 33 anni, fa il macchinista
nell’impianto dal 2004. Lo incontriamo a Talsano, quartiere dormitorio a
una decina di chilometri dalla fabbrica. Di fronte all’ufficio dell’Usb
(il sindacato che ha scavalcato a sinistra la Fiom e l’ha scalzata dal
terzo posto per numero di voti in fabbrica) un gruppetto di ragazzi tira
calci al pallone e fuma sigarette rollate a mano. Alessio, sposato e
padre di un figlio, racconta: «Nel 2011 ho comprato un appartamento a
San Vito, in riva al mare. La banca mi ha dato il mutuo senza problemi.
L’anno scorso ho chiesto 3.500 euro per un’auto usata e mi hanno detto
che avevo bisogno di un garante». La porta in faccia se l’è beccata pure
un dirigente del gruppo. Mentre viaggiamo su un pullmino all’interno
dello stabilimento, affiancati al treno della laminazione, con la bramma
incandescente che scivola sui rulli del trasportatore, il manager
racconta che pochi mesi fa voleva un mutuo per comprar casa ma gli hanno
risposto picche: la banca era «preoccupata del futuro della fabbrica».
Il prestito alla fine l’ha avuto la moglie: il suo impiego nel settore
pubblico è stato considerato più sicuro.
I CINESI FUGGONO DAL PORTO
Ilva, raffineria Eni, porto e cementificio del gruppo Caltagirone. Erano
le quattro ruote della macchina industriale tarantina, una delle più
ricche del Sud. Ora, a parte la raffineria, le altre hanno le gomme a
terra. E fanno sbandare tutto. «La città ha preso atto della crisi
quando ha visto i negozi chiudere a raffica. È sempre più facile
incontrare per strada gli accattoni, che non c’erano mai stati», dice
Vincenzo Cesareo, presidente della locale Confindustria. E Mario,
sorridente caposala della Trattoria del Pescatore di piazza Fontana, a
due passi dal ponte girevole che collega la città vecchia con la parte
moderna, rimpiange il tempo che fu. «Dirigenti, impiegati, fornitori,
camionisti: i ristoranti della zona erano belli pieni quando c’era tutto
quel via vai. Adesso tanti sono spariti».
Fuori gironzola un gran numero di cani randagi, mentre un uomo chiede
«qualcosa per guardare la macchina». Non è l’unico, a saltar fuori da un
angolo quando vede avvicinarsi qualcuno. Il centro storico nasconde
rovine greche che farebbero gola ai turisti di mezzo mondo, ma è il
degrado a balzare agli occhi. Saracinesche abbassate in pieno pomeriggio
si notano pure nella centralissima via Di Palma, prosecuzione di via
D’Aquino, l’elegante strada dello struscio. Da quando nel 2012 il
tribunale cittadino ha imposto il sequestro degli impianti Ilva, tutto è
cambiato. La fabbrica ha sempre continuato a produrre e gli stipendi
sono stati pagati. Ma un terzo dei dipendenti sta a casa a turno e
nell’indotto hanno perso il posto in migliaia. Molti fornitori sono
falliti.
In zona l’Ilva ha debiti per 200 milioni, su un totale di 1,5 miliardi: tanta roba, per un’azienda che dice di perdere 20 milioni al mese.
Anche al porto la preoccupazione è palpabile. «I lavori per rifare la
banchina, dragare il fondale, la diga foranea e bonificare il terminal
sono previsti da anni. I soldi sono stati stanziati ma tutto s’inceppa
per contenziosi e ricorsi al Tar. I miei manager, che non parlano
italiano, sono isterici: ogni volta che li incontro, mi dicono «What a
fucking country is this?”, e hanno ragione», dice Carmelo Sasso,
segretario della Uil Trasporti e dipendente di Tct, Taranto Container
Terminal, di proprietà dei cinesi di Hutchison Whampoa e dei taiwanesi
di Evergreen. La società ha spostato tutta l’attività al Pireo, in
Grecia, e i 547 lavoratori sono in cassa integrazione a zero ore. Piero
Prete è uno di questi. Tira avanti da tre anni con 745 euro, con moglie e
due figli da mantenere: «Ho la casa di proprietà ma tra Tasi, Imu e
altre spese non riesco ad arrivare a fine mese. Vado avanti grazie
all’aiuto dei genitori. Spero che il ministro Delrio riesca a convincere
Tct a restare qui, anche perché lo sviluppo del porto può essere
un’alternativa». Ha pensato a emigrare, Prete: «Ma ho 40 anni, chi mi
assume, con la terza media?».
«FACCIAMONE UN MUSEO»
Anche sull’
Ilva, in città, il dibattito è tutto
concentrato su cosa fare adesso. Di mezzo c’è la salute dei cittadini.
Lo ha certificato più volte anche l’istituto superiore di sanità,
secondo cui nella città dei due mari è molto più facile ammalarsi
rispetto al resto d’italia. Basti dire che, nell’ultimo rapporto
pubblicato a luglio, la mortalità infantile è maggiore del 21 per cento
rispetto alla media regionale. Il comitato lavoratori liberi e pensanti
teorizza una soluzione radicale: chiudere tutto, bonificare il sito e
riconvertire l’economia puntando su turismo, agricoltura e sul porto. La
pensa così anche la candidata del movimento 5 stelle alla presidenza
della regione puglia, antonella laricchia, studentessa d’architettura
fuori corso, che il 31 maggio sfiderà il litigioso centrodestra e la
corazzata di michele emiliano del pd, ex magistrato e già sindaco di
bari. Laricchia ha un’idea spiazzante per il dopo ilva: «su quell’enorme
terreno, dopo la bonifica, si potrebbe fare un museo. La gente potrebbe
visitarlo come fa per gli ex campi di concentramento nazisti, per
rendersi conto dei disastri dell’industrializzazione selvaggia»
In via Bettolo, nella sede dei tre storici sindacati metalmeccanici, non
la pensano così. Al primo piano c’è la Fim. Per il segretario Mimmo
Panarelli, «il terremoto è alle spalle, dopo aver perso tempo per un
anno ora confidiamo che i nuovi commissari facciano sul serio,
rilanciando una società che sul mercato ha perso terreno. E comunque
l’amministrazione straordinaria deve essere di breve durata». Panarelli
considera ineludibile l’adempimento di tutte le prescrizioni ambientali e
srotola con un certo entusiasmo una piantina con il rendering dei due
grandi capannoni che copriranno i parchi minerali. «Per noi sono l’opera
più importante, per far capire anche agli sfortunati abitanti di
Tamburi che si sta voltando pagina sul serio». Il segretario Fim crede
che la stragrande maggioranza dei cittadini «non voglia affatto chiudere
l’Ilva, come ha dimostrato il referendum del 2013, quando andò a votare
il 19 per cento degli aventi diritto, e solo il 9 per cento nel rione
Tamburi, il più colpito dall’inquinamento».
Sull’atteggiamento dei tarantini è più crudo Antonio Talò, che al terzo
piano dello stesso palazzotto guida la Uilm, l’organizzazione che ha
vinto le elezioni del 2013 per la Rsu: «Sa che dicono in città? Glielo
dico in dialetto: “Che me ne futte a me”? C’è distacco. La borghesia se
ne sta a casa, la Confindustria non è mai stata all’altezza e la
politica è rimasta in un angolo senza prendersi responsabilità». Talò
non è ottimista: «Siamo nel periodo peggiore dell’Ilva, servono tanti
soldi per far tornare in carreggiata la società e ho forti dubbi sui
nuovi manager. Il direttore generale, Massimo Rosini, viene dagli
elettrodomestici bianchi e s’è portato altri dirigenti di quel settore.
Spero di sbagliarmi, ma avrei preferito un esperto di acciaio».
Fondamentale per una città che conta 192 mila abitanti (erano 242 mila
qualche anno fa), il più grande impianto siderurgico d’Europa, che fino
al 2008 produceva 9 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, secondo
parecchi osservatori è strategico per l’industria manifatturiera. «Sì,
se non ci fosse l’Ilva il prezzo dei prodotti “piani” (che servono per
costruire auto, lavatrici, lattine), aumenterebbe tra il 12 e il 20 per
cento. Perché ci sarebbe meno acciaio disponibile e il settore
manifatturiero italiano, ora indipendente, dipenderebbe dall’estero»,
sostiene Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di
Milano. Negli ultimi 45 giorni, aggiunge il docente milanese, «c’è stato
un boom dell’import dalla Cina: 250 mila tonnellate, pari a un terzo
della produzione Ilva a regime nello stesso arco di tempo». E i prezzi,
per i trasformatori dell’acciaio, sono immediatamente saliti. «Nessuno è
mai stato in grado di praticare prezzi competitivi come l’Ilva, che a
Taranto ha una capacità produttiva enorme ed è la più efficiente
d’Europa, quando funziona a regime. Ecco perché i concorrenti
nord-europei sarebbero felici se chiudesse, soluzione che
rappresenterebbe davvero una sconfitta per l’Italia. Confido tuttavia
nel governo Renzi che, pur avendo perso sei mesi preziosi nel tentativo
senza speranza di vendere l’Ilva, ora ci ha messo la faccia», sostiene
Massimo Mucchetti, presidente della commissione Attività produttive del
Senato.
«HO LE PALLE PER CHIUDERE TUTTO»
Per comprendere cosa significa il dibattito salute-lavoro, bisogna
superare i cancelli di un parco che di romantico non ha nulla. Il “parco
minerali” è una distesa gibbosa grande come 53 campi di calcio, le cui
polveri hanno provocato lutti e rovinato la salute a tanti abitanti dei
rioni vicini, tamburi e paolo vi. Appena ci saranno i soldi, dovrebbe
essere chiuso in due immensi capannoni. Li costruirà la friulana
cimolai, la stessa che ha realizzato il sarcofago della centrale
nucleare di chernobyl, e costeranno 250 milioni. Un’opera mastodontica,
che coprirà le otto collinette di carbone e minerale di ferro, cioè la
materia prima che alimenta i cinque altoforni (di cui tre oggi spenti).
Secondo l’ilva e i sindacati, la copertura è il punto fondamentale delle
94 “prescrizioni” dell’aia, l’autorizzazione integrata ambientale, gli
obblighi che il governo ha imposto per adeguarsi agli standard europei
sull’inquinamento. Misure da completare entro agosto 2016, pena la
chiusura. Invita alla cautela, però, michele emiliano, candidato
governatore. Secondo lui rispettare l’aia non basta: «le stime fatte
dall’arpa regionale dicono che i rischi sanitari non saranno azzerati, e
se sarà così io non potrò che battermi per chiudere l’ilva, ho le palle
per farlo. Se invece questi rischi verranno azzerati, appoggerò il
piano del governo».
Il piano di cui parla Emiliano è quello affidato ai tre uomini chiamati a
gestire l’amministrazione straordinaria. Piero Gnudi, Enrico Laghi e
Corrado Carrubba hanno il compito di risanare l’azienda, creando una
nuova società da capitalizare attraverso l’intervento di soggetti
privati, tipo i fondi specializzati in risanamenti. Per poi venderla in
blocco o quotarla in Borsa. Missione difficile, il cui fallimento
vorrebbe dire la morte del più grande produttore d’acciaio italiano. I
commissari puntano a riportare in pareggio il bilancio entro due anni,
obiettivo raggiungibile solo se riusciranno a produrre 8 milioni di
tonnellate l’anno, il doppio di oggi. Tra risanamento ambientale,
ammodernamento e gestione ordinaria, dicono di aver bisogno di 2,5
miliardi (ma per Mapelli e i sindacati sarebbero molti di più). E
stimano in 1,2 miliardi i quattrini necessari per rispettare le sole
norme ambientali. La cifra equivale al tesoro accumulato in Svizzera
dalla famiglia Riva e messo sotto sequestro. Soldi che potrebbero finire
nelle mani dei commissari tra poco, se così deciderà il tribunale di
Milano. Per completare il risanamento e riportare la produzione in alto,
i quattrini dei Riva non bastano. E neppure i 400 milioni di prestito
obbligazionario che il governo farà stanziare dalla Cassa depositi e
prestiti, magari col contributo delle banche.
La vera svolta può arrivare solo con i soldi degli investitori privati.
Come i fondi specializzati, che prendono in affitto un gruppo, lo
rimettono in sesto e poi lo mettono sul mercato. Strada lunga e piena di
insidie, che passa per il riavvio di due altoforni, i possibili
contenziosi con l’Ue per aiuti di Stato, il mercato dell’acciaio invaso
dai cinesi, le incognite politiche. Intanto, dentro, pure le piccole
cose sono difficili. «Mi occupo di manutenzione della mensa e sto
chiedendo invano delle guarnizioni da pochi centesimi», dice Giuseppe,
che sta con l’Usb e all’Ilva c’è entrato da raccomandato come quasi
tutti, sostiene sorseggiando un cocktail al “Sud-Food and Music”, locale
trendy del Borgo. Vive coi genitori e di tornare a lavorare al Nord,
come fece da giovane, non ha intenzione: «Perché qua, dopo tutto, si sta
troppo bene». Intanto il dj ha messo su i Deep Purple, “Smoke on the
water”. Fumo sull’acqua. Un’istantanea di Taranto, con i due mari e le
sue ciminiere.
(L'Espresso)