CONFLITTI: quelli che emergono mettendo insieme emergenze ambientali ed esperienze di cittadinanza attiva in difesa dei territori. Lotte per arrivare a gradazioni quantomeno civili nella declinazione della giustizia ambientale. In Italia sono oltre cento. E si tratta solo di un punto di partenza, di un primo censimento. Vajont, Casale Monferrato, Taranto, Terra dei Fuochi, Val di Susa. La punta visibile – almeno per l’opinione pubblica – delle crepe che attraversano aria, suolo e sottosuolo italiano. Il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali, ne ha iniziato la mappatura. E i risultati sono in rete. Pubblici, visibili, consultabili.
A essere restituita è un’Italia in cui l’attenzione per il futuro è quanto meno bassa. Perché gran parte dei problemi e delle questioni, oltre a essere perennemente aperti, sono lì da anni. Sfruttamento petrolifero oltre i limiti del buon senso, centrali a carbone che non fanno altro che continuare a inquinare, poli industriali mai del tutto dismessi, agroindustria, mega infrastrutture che non funzionano, discariche più o meno abusive. Un atlante delle emergenze ambientali: fatto delle rivendicazioni dei cittadini che quei territori li vivono e dell’impegno, spesso pari a zero, delle istituzioni dello Stato.
Quello che il CDCA si propone è il coinvolgimento dei cittadini. Nelle intenzioni di chi lo ha progettato, infatti, il portale potrebbe diventare uno strumento di “mappatura partecipata”. Come? Registrandosi come utenti, comitati territoriali, ricercatori, e società civile in qualunque forma organizzata si potranno caricare direttamente schede monografiche “inerenti a specifici conflitti ambientali che entreranno a far parte della mappatura visibile sulla home page dell’Altante”. Non solo un archivio, quindi. Ma uno strumento per aggregare partecipazione pubblica e una piattaforma dove poter diffondere le proprie denunce.
"Il CDCA lavora dal 2007 alla mappatura e documentazione dei conflitti ambientali. Abbiamo iniziato mappando le grandi lotte ambientali latinoamericane, allargandoci poi agli altri sud del mondo, dove le comunità locali sono in prima linea da oltre 10 anni per la difesa dei beni comuni, della sovranità territoriale, dell'ambiente e dei propri diritti individuali e collettivi, a partire da quello alla salute”, dice a Repubblica.it Marica Di Pierri, presidente del centro. E il motivo dell’impegno è chiaro: “Studiamo questi conflitti ambientali perché sono manifestazioni sintomatiche dell'insostenibilità sociale del modello economico dominante”.
Povertà diffusa, scarsa attenzione alla salute pubblica, devastazioni del territorio. Dinamiche che non possono essere lo scotto da pagare di un’economia alla perenne ricerca del profitto. E non si tratta solo di denunciare. “Studiare questi conflitti è importante perché all'interno delle mobilitazioni a difesa del territorio sono sorti negli ultimi due decenni movimenti organizzati che hanno declinato in maniera nuova e alternativa gli istituti di democrazia diretta e sperimentato modelli sostenibili di gestione delle risorse”, continua la Di Pierri.
L’Atlante è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo di ricerca Ejolt, finanziato dalla Commissione europea. Programma che ha coinvolto per cinque anni di lavoro su conflitti e giustizia ambientale oltre 20 partner internazionali tra università e centri studi indipendenti. “Il nostro Paese è pieno di conflitti ambientali da nord a sud. Dai disastri prodotti dai grandi poli industriali alle centrali a carbone, dai campi di estrazione petrolifera alle migliaia di siti di incenerimento e smaltimento dei rifiuti, dalle mega infrastrutture alle installazioni militari”.
L’obiettivo è utilizzare la rete per fornire una traccia permanente. Per evidenziare come gli impatti dell'economia globale “sono localizzati e sempre più gravi e diffusi”, conclude la Di Pierri. E per far sì che i cittadini raggiungano una sempre più ampia consapevolezza del futuro scarsamente green che li attende. (Rep)
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