venerdì 20 aprile 2012

Sindacatini ini ini...

In premessa a questo bell'articolo, va fatta una precisazione, doverosa, per quanto scrive la giornalista: i cosiddetti "ambientalisti" (non sarebbe meglio chiamarli col loro vero nome: "cittadini partecipativi della vita della loro città"?) non si battono affatto per la chiusura dell'Ilva! Solo una parte minimissima la richiede, ma in cambio di riconversioni e bonifiche! Ilva, sindacato a perdere Operai lontani dai loro rappresentanti. Due diritti, due manifestazioni, due cartelli. «Basta veleni, basta tumore, lottiamo per una Taranto migliore!», e «Lavoratori Ilva (pensiero libero) per difendere il posto di lavoro contro le strumentalizzazioni fatte sulla nostra pelle». DUE MANIFESTAZIONI IN CITTÀ. Nella città dei due mari tutto è doppio e le contraddizioni sono all'ordine del giorno. Il 30 marzo mentre 7 mila lavoratori dell'acciaieria sfilavano in corteo sotto la prefettura e il municipio, studenti e ambientalisti manifestavano davanti al tribunale, dove era in corso l'incidente probatorio legato all'inchiesta sull'inquinamento a carico di cinque dirigenti dell'azienda di Emilio Riva, accusati di disastro colposo e doloso. MANIFESTAZIONI SENZA SINDACATI. In nessuna delle due manifestazioni però erano presenti i sindacati. Che invece avevano scioperato unitariamente il 27 marzo per sollecitare un tavolo ministeriale sul processo di ambientalizzazione dello stabilimento. Volevano evitare di diventare vittime di strumentalizzazioni: da una parte quelle dell'azienda che aveva 'sponsorizzato' la discesa in piazza degli operai proprio nel giorno dell'udienza per esercitare una maggiore pressione sulla procura. Dall'altra quelle degli ambientalisti che invece chiedevano la chiusura definitiva dell'impianto. Eppure ancora una volta la sensazione è stata quella di una forza sindacale debole, impotente davanti all'ennesimo conflitto che i lavoratori sono stati chiamati a vivere: scegliere tra il diritto alla salute e quello al lavoro. Dal socialismo reale ai tempi dell'Italsider al minimo sindacale Taranto, acciaieria Ilva. Sono finiti i tempi in cui l'Ilva era un'azienda di Stato. Quando all'Italsider il sindacato viveva una fase di socialismo reale ed esercitava un grande potere dentro e fuori l'acciaieria. Il livello di sindacalizzazione allora era del 90%, senza distinzione tra operai e impiegati. UILM PRIMO SINDACATO. Oggi il tasso di tesserati tra gli impiegati è quasi nullo e solo il 50% degli operai è sindacalizzato. Un'anomalia per un'industria metalmeccanica, accentuata ancora di più dal fatto che il primo sindacato è la Uilm. La fase di 'strapotere' del sindacato nell'Italsider, ammettono oggi gli stessi sindacalisti, ha portato a troppe degenerazioni, a casi di corruzione e tangenti. Insomma alcuni sono diventati più padroni dei padroni. LA CHIUSURA DI RIVA. Ma quando lo stabilimento passò nelle mani di Riva, l'imprenditore bresciano chiuse i confini della fabbrica creando una rottura con la città e con gli stessi sindacati. Una ferita che non si è mai rimarginata. Erano gli anni di Tangentopoli e il nuovo proprietario «ragionò come se a Taranto fossero tutti ladri», spiega a Lettera43.it Rosario Rappa, segretario generale della Fiom-Cgil, «portò all'interno ogni attività, dalle imprese pulizie alle ditte esterne di operai». PRECARI SENZA TUTELE. Poi con il cambio generazionale e l'uscita di massa di numerosi dipendenti cinquantenni, nel 2003 il 50% dei lavoratori dell'Ilva entrò in azienda con il contratto di formazione e lavoro, «e quindi per paura di ritorsioni nessuno si iscriveva al sindacato», dice Rappa. In realtà molti di questi lavoratori ancora oggi denunciano un disinteresse della loro condizione da parte proprio delle associazioni sindacali. SCONSIGLIATE LE ISCRIZIONI. «Gli operai più anziani e i sindacati ci sconsigliavano di iscriverci per non dare nell'occhio», dice Francesco, uno degli operai dell'Ilva, «ma forse era solo per non farci prendere coscienza troppo in fretta di come funzionava qua dentro». All'Ilva raccontano alcuni operai, «è tutto un ricatto occupazionale, ma i sindacati non dovrebbero permetterlo, dovrebbero lottare di più». Difficile capire se la manifestazione del 30 marzo non sia stata condizionata Capire, quindi, quanto la manifestazione del 30 marzo sia stata libera o condizionata è sempre più difficile. «Quel giorno l'azienda ci ha portato in centro dentro i pullman perché la nostra discesa facesse più effetto», dice Marco, un altro operaio. Ma la stranezza più grande è che alla vigilia, «i capireparto venivano e ci chiedevano: che fate domani? Uscite o no con l'azienda? E ci davano il volantino della manifestazione». IN PIAZZA ANCHE L'INDOTTO. Si parla di una gerarchia aziendale capillare che è riuscita a portare in piazza ben 7 mila operai. E non potrebbe essere altrimenti visto che se anche fossero stati presenti tutti quelli del primo turno si sarebbe arrivati a circa 3 mila dipendenti. Vuol dire quindi che non solo sono stati chiamati a partecipare anche quelli dell'indotto ma, che quelli del secondo e terzo turno hanno lavorato di più per non bloccare la produzione. Senza contare il fatto che quella giornata di sciopero è stata retribuita. LA CRITICA AL SINDACATO. Una situazione di cui i sindacati erano ben informati e «il massimo che sono riusciti a fare è mandare un comunicato dove sconsigliavano la partecipazione», dicono alcuni operai delusi. «Bisogna rispettare tutti», ribadiscono i sindacati, «molti lavoratori sono scesi in piazza volontariamente perché hanno temuto che quelle indagine della procura portassero alla chiusura dello stabilimento». L'APPELLO DI PALOMBELLA. «Il problema è che bisogna evitare di dividere i lavoratori, che immaginano di perdere il lavoro e la città, che vuole difendere invece l'ambiente. Noi dobbiamo evitare questa contrapposizione», ha detto il segretario nazionale della Uilm, Rocco Palombella. «Bisogna ricomporre una città che è molto dilaniata. Conciliare lavoro e ambiente si può». Non tutti però credono alla capacità di mediazione del sindacato. «Qui si vive nell'ottica che il padrone alla fine abbia ragione», dice Mario con amarezza. «Ma se l'Ilva chiude come mangiamo?», è invece la preoccupazione del collega Sergio. Per Luca invece questa è una domanda inaccettabile, e la cosa più sconcertante «è che a chiederselo sono i giovani, che potrebbero avere anche altre prospettive». IL MITO DEL MONDO OPERAIO. Ma a Taranto, «o lavori all'Ilva, o fai domanda per entrare in Marina o al massimo diventi poliziotto», dice Fabrizio, «e io ho scelto di fare l'operaio, così come mio padre e mio zio». Prima di entrare in fabbrica, l'operaio vendeva libri porta a porta. Poi ha deciso di indossare la tuta blu: «Pensavo che quello operaio fosse un mondo forte e compatto, ma qui non è così, manca la coscienza di tutto, ti senti solo». Rappa: «Il sindacato deve anche saper trattare» Molti lavoratori non perdonano ai sindacati di essere stati per troppo tempo poco sensibili alla questione ambientale e di non aver fatto una vera lotta contro le morti sul lavoro (43 dal 1995 al 2010). Forse per paura di essere emarginati ancora di più dall'azienda. «C'è un sistema di relazioni ad personam», ammette Rappa, dove quindi per ottenere qualcosa bisogna rinunciare ad altro e ingoiare molti rospi. L'IMPEGNO DELL'ILVA. «Ma questo i lavoratori non l'hanno capito», spiega il sindacalista. Quando infatti nel 2009 per ottenere il contratto integrativo ci fu una prova di forza unitaria e i sindacati riuscirono, per la prima volta nella storia dell'Ilva, a bloccare la produzione dell'acciaieria e a ottenere ciò che chiedevano, «gli operai si sono caricati troppo e da allora vogliono sempre lottare», dice Rappa, «ma il sindacato deve anche saper trattare». Per questo oggi le sigle sindacali sono unanimi nel riconoscere all'acciaieria di aver fatto nell'ultimo periodo un investimento reale sulla sicurezza, «finalmente hanno capito che non potevano andare avanti così». SICUREZZA AMBIENTALE. Ma resta ancora il problema della sicurezza ambientale. «L'Ilva è stata una bomba ecologica fin dalla sua nascita», denuncia Rappa, «ha rappresentato 50 anni di devastazioni di cui le numerose morti e indagini sono il frutto». Un inquinamento «devastante che per i prossimi 20 anni porterà morti per amianto e altre malattie». Ma le colpe sono prima di tutto dello Stato, «che ha costruito un impianto al contrario con le cokerie e il parco minerario attaccato alla città anziché rivolto verso il mare». NON SOLO L'ACCIAIERIA. Un problema quello ambientale che lavoratori e sindacati vorrebbero risolvere con le bonifiche e l'uso di nuove tecnologie. Quello che entrambi, per una volta di nuovo uniti, vogliono scongiurare è il rischio di demonizzazione dell'acciaieria: «A Taranto non c'è solo l'Ilva. Ci sono anche la Cementir, l'Eni, i cantieri navali e l'arsenale. Il livello inquinante della base militare nel Mar Piccolo per esempio è molto alto, ma non se ne parla mai». di Antonietta Demurtas (Lettera43)

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